giovedì 15 ottobre 2015

Giovani assopiti: il fallimento delle generazioni precedenti.






La canzone O cara moglie di Ivan Della Mea è del 1966. Una canzone ambientata nel periodo dei grandi scioperi, dei picchetti ai cancelli delle fabbriche, delle lotte tra gli operai ed i capi, ma anche tra scioperanti e crumiri. 

Era un periodo profondamente democratico, molto più democratico di quello che stiamo vivendo adesso. Perché è vero, molti diritti non erano ancora stati conquistati (o forse concessi!?), in determinati campi (libertà sessuale, libertà di scelta riguardo ad aborto e divorzio) eravamo ancora estremamente indietro, ma ai tempi valeva la legge del 50% più uno: se per un determinato diritto si mobilitava la maggioranza, che fosse a livello microsociale (un'azienda, una località) o macrosociale (lo Stato intero), questo diritto facilmente veniva conquistato. E non sono così convinto che, ai tempi, si combattesse per determinati diritti perché ci si ritrovava ridotti alla fame o perché non si riusciva a sopperire ai propri bisogni con gli status quo che sussistevano allora. Credo invece che, tra gli anni '60 e gli anni '70, c'era un senso di collettivo, di appartenenza ad una determinata classe sociale, c'era il desiderio di anteporre il bisogno di tutti a quello individuale, senza mai comunque perdere di vista la dignità del singolo individuo, cosa che invece è venuta a mancare nel momento in cui l'opportunismo, la necessità del superfluo e la prevaricazione sono entrati nella mente di tanti che fino a poco prima avevano combattuto per giuste cause. Come cantava Pietrangeli, del resto, "Se il vento fischiava ora fischia più forte, le idee di rivolta non sono mai morte,se c'è chi lo afferma non state a sentire, è uno che vuole soltanto tradire; se c'è chi lo afferma sputategli addosso, la bandiera rossa gettato ha in un fosso", e perciò, forse forse, socialisti, questi, non erano mai stati. 

Ma lasciando perdere chi ha cambiato colore man mano che è riuscito ad ottenere ciò di cui necessitava sfruttando qualsiasi mezzo a sua disposizione, vorrei soffermarmi sulla tanto paventata crisi di valori degli ultimi anni, soprattutto nella generazione che rappresento, quella dei giovani tra i venti ed i trent'anni. Noi siamo cresciuti nel ventennio berlusconiano, abbiamo avuto modo di sentire man mano, crescendo, le ripercussioni di politiche distruttive, le quali hanno minato alla base lo stato sociale, la scuola, la libertà d'informazione, la capacità di discernere tra il giusto e lo sbagliato. Siamo cresciuti nell'opulenza, e chi più chi meno abbiamo comunque assorbito un certo modo di vivere, di pensare, di agire. Tutto questo è sicuramente frutto di vent'anni di mal governo, che è però riuscito a destabilizzare così audacemente tutto ciò che poteva darci una cultura di base che siamo cresciuti sostanzialmente ignoranti, privi di reali interessi, assuefatti dalla televisione e dalle vane promesse di Silvio e soci. 

E' vero, siamo ignoranti, privi di stimoli, incapaci di agire in senso collettivo, abbiamo perso ogni contatto con le realtà di insieme: in primis quelle che riguardano i nostri comuni, le nostre regioni, poi quelle che riguardano il nostro Stato, infine quelle che riguardano il mondo intero. E' vero, ci facciamo abbindolare, dobbiamo avere paura dell'Isis, fidarci degli Stati Uniti, lodare la Germania, guardare con sospetto Grecia e Russia, ed intanto farci dare i soldi dai nostri genitori o investire buona parte dei nostri stipendi da stagisti/apprendisti per comprare il nuovo I-Phone. Siamo un gregge, non c'è dubbio. Siamo un gregge come la generazione che ci ha anticipato, quella che ora ha tra i trenta ed i quarantacinque anni: quella che si è convinta che i contratti flessibili, i part-time fossero positivi perché davano libertà di azione. Peccato che questa libertà d'azione era sempre e comunque vincolata dal datore di lavoro di turno, quindi era immaginaria; quella che si è convinta che era bello poter avere a disposizione una pay tv attraverso la quale vedere le partite, i film in prima visione esclusiva ed assoluta, senza rendersi conto che così facendo ora sui canali in chiaro non danno più niente di nuovo perché i diritti sono quasi tutti di Sky o Mediaset Premium, e magari si lamentano anche del canone Rai; quella che si è venduta in toto, lasciandosi indirizzare verso il consumo folle incentivato dalle offerte, dalle rate, dagli abbonamenti, dai leasing.

E, andando ancora a ritroso, mi chiedo dove sia la grandezza delle generazioni passate se all'unico importante compito alle quali erano state chiamate, non tanto istituzionalmente e socialmente parlando ma a livello puramente biologico, hanno fallito miseramente. Dov'è la loro esperienza? A chi è stata tramandata? Per quale motivo i loro figli non sono stati cresciuti con il culto della lotta, della protesta e del collettivo? Siamo sicuri che due genitori siano più deboli della tv e degli stimoli esterni? Siamo sicuri che se è vero che la mia generazione non ha identità, spirito di condivisione e dignità individuale, questo non sia il frutto della perdita, in primis, di tutto questo da parte di chi ci ha cresciuti? Perché è tanto facile poi, a posteriori, dire che i giovani di adesso sono annoiati, statici, apatici. Ma è così che la maggior parte di noi è stata cresciuta, è così che ci ha voluto la società, ma è anche vero che è così che i nostri genitori ci hanno voluto far diventare. Quindi, prima di innanzi tutto generalizzare e dopodiché attaccare i giovani d'oggi, sarebbe il caso di chiedersi che ruolo si ha avuto all'interno di questo meccanismo di disgregazione del pensiero collettivo e della dignità individuale, che cosa non si è fatto per evitare che ciò accadesse e quali sbagli, come individuo e come generazione che si rappresenta, si sono commessi. E poi, magari, provare a riparare, insieme, senza vedere barriere generazionali. Di barriere ora come ora ce ne sono veramente tante, troppe, ed inserire pure quelle anagrafiche mi sembra piuttosto eccessivo e, ovviamente, controproducente.

Voglio concludere spiegando il perché io abbia cominciato l'articolo citando O cara moglie di Ivan Della Mea. Ecco, questa canzone viene ricordata soprattutto per il suo valore all'interno dell'antologia delle canzoni di protesta, poiché racconta per filo e per segno uno sciopero, i conflitti con i crumiri, l'odio verso il padrone e la differenza di risultati che derivano da una lotta totale che coinvolge tutta la forza lavoro ed una lotta frammentata. Quello che però è il messaggio più importante in questa canzone è il totale stravolgimento dello scenario d'apertura quando si giunge alla fine della canzone. Perché se all'inizio il figlio deve andare a dormire "perché le cose che io ho da dire, non sono cose che deve sentire", alla fine l'operaio si rende conto dell'errore, chiede alla moglie di richiamare il figlio perché "venga a sentire, perché ha da capire che cosa vuol dire lottare per la libertà". Ecco, ecco dove AVETE sbagliato. Vi siete fermati alle strofe centrali, alla lotta, all'estemporaneità dei fatti, senza pensare a ciò che a livello interiore questa potesse portare, ovvero alla comprensione che se è vero che certi argomenti sono difficili, a volte duri, sicuramente di difficile comprensione per un bambino o un ragazzino, questi valgono molto più di tante parole e raccomandazioni che da genitore si fanno, non tanto perché si vuole, ma perché si devono fare, perché fanno parte del ruolo del padre o della madre. Sarebbe invece stato il caso di parlare con i vostri figli di politica, o come minimo discuterne in loro presenza, far emergere le vostre preoccupazioni, i vostri disagi legati magari alle condizioni difficili sul posto di lavoro, all'essere in cassa integrazione, all'essere disoccupati. 

Forse si pensa di proteggere i figli mandandoli a dormire, evitando loro i discorsi che "non devon sentire"... ma così facendo non li si protegge, ne si posticipa soltanto il momento in cui saranno carne da macello per questo sistema cannibale.





Stefano Tortelli