mercoledì 22 luglio 2015

La piccola storia ignobile della ragazza della Fortezza




Provo a buttare giù due righe riguardo la sentenza di secondo grado riguardante lo “stupro della Fortezza”, avvenuto a Firenze nel 2008. Sto ascoltando Guccini, l’album Via Paolo Fabbri 43, che si apre con la canzone Piccola storia ignobile: argomento della canzone è l’aborto, la libertà sessuale ancora non totalmente conquistata per le donne, che ad inizio anni ’70 ricoprivano ancora il ruolo di mere riproduttrici o intrattenitrici del partner. E non importava che questo fosse il marito, il fidanzato, l’amante, il tizio di turno o il cliente. Tu, donna, non avevi diritto all’orgasmo. Tu, donna, non avevi diritto a provare piacere. Il piacere era appannaggio dell’uomo. E se qualcosa andava storto, se rimanevi incinta, beh, i problemi erano tutti tuoi.

E la sentenza emanata pochi giorni fa, dopo sette anni, ci riporta indietro, ci riporta a quell’epoca. Perché questa ragazza non solo non è stata ripagata dalla giustizia della violenza della quale è stata vittima, non solo i sette ragazzi sono stati assolti e non saranno più perseguiti, ma addirittura nella motivazione della sentenza a salire sul banco degli imputati, in sostanza, è lei. 

Tu, ragazza, hai subito violenza, il referto medico lo riporta, ma eri ubriaca, quindi te la sei cercata. 
Tu, ragazza, hai subito violenza, il referto medico lo riporta, ma hai in passato avuto facili costumi, e quindi, sostanzialmente, te la sei cercata, e magari ti è pure piaciuto. 
Tu, ragazza, hai subito violenza, il referto medico lo riporta, ma forse eri consenziente e giusto per nascondere un tuo attimo di debolezza, dato che eri fidanzata ai tempi, hai cercato di scaricare la tua colpa su qualcun altro. 
Tu, ragazza, hai subito violenza, il referto medico lo riporta, ma ti sei ripresa in fretta, già dopo tre anni su Facebook postavi foto in cui sorridevi, quindi tutto sommato questa cosa non ti ha segnato, e per cui ti sarà sicuramente piaciuto. 
Tu, ragazza, hai subito violenza, il referto medico lo riporta, ma vedi, dici di essere bisessuale, e quindi a voi che avete gusti “strani” vi va sicuramente bene tutto, e che ci sarà mai di male? Per l’appunto te la sei cercata.

Questa è la sentenza, e questo è ciò che pensa tanta gente di questa ragazza. Ma ecco, questa gente che pensa ciò della ragazza in questione è composta dalle seguenti categorie: uomini, bigotti e frustrate. Aveva bevuto, sì. Aveva avuto un passato fatto di relazioni occasionali ed incontri omosessuali, sì. E quindi? Di ragazze bisessuali o che sono o sono state libertine ne ho conosciute e ne conosco, di ragazze che bevendo un bicchiere di più sono meno inibite e più facili ne conosco, ma mai ho pensato da solo, men che meno con i miei amici, di prenderle, sbatterle in una macchina ed avere un rapporto con loro. E comunque non è questo il discorso: c’è un referto medico, c’è scritto che è stata violentata, e non ha importanza se la violenza è cominciata subito o nel mentre, quando magari si è resa conto, quando stava magari rinsavendo. Non ha un cazzo d’importanza! Se c’è stato un no, e se quindi da quel momento è cominciata la violenza, allora è stupro. Le attenuanti, le stronzate portate avanti prima dai difensori e poi accolte dal giudice non contano niente. Perché è stupro anche se è tua moglie o la tua ragazza una sera a dirti di no e tu pretendi un rapporto, è stupro anche se la donna in questione è una prostituta alla quale non vuoi pagare il conto. Stupro è stupro, punto e basta. 

Tra chi da addosso alla ragazza, come dicevo prima, vi sono uomini, frustrate e bigotti. Ecco, ora pensate se al posto di sei ragazzi facoltosi di Firenze più un brasiliano (già assolto in primo grado) ci fossero stati dei figli di operai o, ancor peggio, degli immigrati, magari extracomunitari, magari clandestini. Apriti cielo, sarebbe partita la nuova crociata di Lega e Fratelli d’Italia, si sarebbe fomentato odio verso i soliti, e questa ragazza sarebbe stata una martire.

Qui invece abbiamo dei giovani rampolli della Firenze da Bene, e quindi… quindi oh, se l’è cercata sta puttanella bisessuale, e ora son solo fatti suoi. Ha cercato di suicidarsi più volte, è stata in depressione per anni, ma oh, in quella foto su Facebook sorrideva, ciò fa di lei una troia. 

Va beh, è tardi, L’avvelenata sta in parte condizionando il mio modo di scrivere, ma ecco, queste cose sono veramente assurde. Un consiglio alle ragazze che in passato hanno sperimentato relazioni omosessuali o sono state di "facili costumi" (e magari ora sono felicemente e fedelmente legate ad un solo uomo): se venite stuprate, non cercate di ricostruirvi una vita, non cercate di andare oltre, e soprattutto non mostratevi nuovamente forti, perché non siete credibili già per il vostro passato, figuriamoci se trovate la forza di risorgere; e comunque non fatevi stuprare da gente con i soldi, scegliete i figli di disoccupati, o di operai, o ancor meglio di stranieri, a quel punto forse potete avere la giustizia che vi meritate. Per le ragazze “moralmente impeccabili”, invece, l’unico consiglio è avere dei testimoni, perché comunque non dimenticatevi che siete donne, e quindi, tutto sommato, non vi crede nessuno, la vostra parola è niente.



"Ma che piccola storia ignobile sei venuta a raccontarmi
non vedo proprio cosa posso fare
dirti qualche frase usata per provare a consolarti
o dirti: "è fatta ormai, non ci pensare"
è una cosa che non serve a una canzone di successo
non vale due colonne sul giornale
se tu te la sei voluta cosa vuoi mai farci adesso
e i politici han ben altro a cui pensare
e i politici han ben altro a cui pensare
e i politici han ben altro a cui pensare"





Stefano Tortelli

martedì 21 luglio 2015

Soruç: sorrisi indelebili e frontiere cancellate






Roma, la nostra capitale, e Suruç sono divise da cinque ore e mezza di aereo e tremila chilometri in linea d'aria. Senza scali, senza tappe intermedie, nel giro di un pomeriggio si può arrivare dall'Italia alla frontiera tra Turchia e Siria, laddove veramente esiste una resistenza all'Isis, a quest'evoluzione di Al Qaeda nata in Iraq e poi diffusasi in buona parte del Medio Oriente islamico. Credo sia importante sottolineare l'origine dell'Isis, il suo essere figlia di Al Qaeda, quell'Al Qaeda che tanto terrorizzava l'occidente quindici anni fa e che a New York nel 2001, il probabile suo coinvolgimento a Madrid nel 2004 ed a Londra nel 2005. E le origini di Al Qaeda ormai ben si conoscono: alla fine degli anni '80 la CIA assoldò ed armò migliaia di mujahidin per contrastare l'Unione Sovietica in particolari zone strategiche come l'Iraq, il Kuwuait e l'Afghanistan, in seguito all'invasione da parte dei sovietici di quest'ultimo Stato; al database che raccoglieva i dati di questi mujahidin venne dato il nome Al-Qaeda, che per l'appunto in lingua araba è il corrispondente di database stesso. Crollata l'Urss, respinta l'invasione, queste armi rimasero in mano agli arabi, talvolta organizzati in gruppi paramilitari, talvolta affiliati ad eserciti regolari. Fatto sta che il resto è storia: Prima guerra del Golfo dopo l'invasione del Kuwuait da parte di Saddam Hussein, guerra in Afghanistan dopo l'attentato alle Torri Gemelle, seconda guerra del Golfo nel 2003. Gli statunitensi si son trovati in questi conflitti a combattere con armi che il proprio governo aveva fornito non più di vent'anni prima a quelli che ora erano i loro nemici, ma non c'è da stupirsi, non è stata la prima volta e non sarà nemmeno l'ultima. Del resto, durante la seconda guerra mondiale, mentre i caccia americani cominciavano ad intraprendere battaglie aeree contro gli aerei nazisti, le compagnie petrolifere stringevano accordi con Berlino per fornire loro il petrolio necessario ad alimentare l'aviazione tedesca: due bandiere differenti sulle fusiolere, stesso carburante nei serbatoi. Niente di nuovo sul fronte a stelle e strisce.

L'Isis, come Al Qaeda, in quanto creazioni degli Stati Uniti, nonostante i grandi proclami e le continue denunce nei confronti delle atrocità commesse dai terroristi prima e dallo Stato Islamico poi, non verrà ostacolato dall'Occidente, almeno fino a quando l'Occidente stesso non ne verrà toccato. E non tanto perché alle grandi potenze del mondo interessi l'incolumità dei loro cittadini, ma più che altro perché a quel punto comincerebbe a non sussistere più un unione di interessi tra quelli che diventerebbero, a quel punto, i due schieramenti. Ed allora chi può fermare l'avanzata di questo esercito? Torniamo così alla frontiera tra Turchia e Siria, in quel punto in cui termina definitivamente l'Europa e comincia l'Asia Minore. Al di là della frontiera, in Siria, i combattimenti sono duri, l'Isis è spietato, la resistenza è difficile. Ed a coprire il ruolo principale nella resistenza allo Stato Islamico sono i curdi, i quali rappresentano il 5% della popolazione siriana e che a fine giugno hanno riconquistato Kobane, città poco distante dalla frontiera turco-siriana. Ma i curdi sono osteggiati per più motivi: sono una minoranza religiosa, sono una minoranza della popolazione... e sono prevalentemente socialisti. Tanto che il capo del governo turco, Erdogan, sarebbe più propenso di avere oltre la frontiera il Califfato piuttosto che uno Stato autonomo curdo. Questione di priorità, questione di interessi. 

Ed è così che si arriva a ieri, al 20 luglio, all'attentato kamikaze ai danni di un raduno di socialisti curdi a Soruç e che ha causato la morte di trentadue ragazzi ed il ferimento di un altro centinaio. Erano ragazzi, ragazzi come me, ragazzi con il sorriso sulle labbra e la consapevolezza che per garantire l'incolumità di migliaia, milioni di persone, bisognava mettere a repentaglio la propria. Sarebbero infatti presto partiti per la Siria, avrebbero valicato la frontiera, sarebbero giunti in un territorio che da amico poteva diventare nemico da un momento all'altro, ed il loro scopo era poterlo rendere amico definitivamente, dando supporto alla resistenza, sospinti dalle loro idee di libertà ed uguaglianza. Ma di fatto, in Turchia, si trovavano già in territorio nemico, o meglio il nemico era riuscito ad avvicinarsi a loro. Troppo. E poco è stato fatto per garantire la loro incolumità. Del resto se Erdogan non vuole uno stato curdo oltre la frontiera, beh, meglio prevenire che curare... 

E così, in nome dei benifici di poco a discapito della maggior parte degli abitanti di questo pianeta, altri giovani volenterosi e dalle belle speranze sono morti perché desideravano la libertà. Avevano sui vent'anni, come i nostri partigiani della Resistenza, come i ragazzi di tutta Europa che durante la Guerra civile in Spagna si unirono contro Franco. Ma a noi europei tutto sembra molto distante: e se non è il tempo a farci sembrare un avvenimento qualcosa di lontano, distaccato, allora è la distanza geografica a portarci a pensare che questa è una guerra che non ci tocca.

Ma in una realtà globalizzata come la nostra le distanze non esistono più.. La memoria hanno cercato di disintegrarla, ma abbattendo anche le distanze ora tutto il mondo è Paese. La frontiera tra Turchia e Siria, quella frontiera che ha visto da vicino morire trentadue giovani socialisti curdi è soltanto un'invenzione, una barriera che vuol far credere che da una parte c'è X e dall'altra c'è Y, e che quindi dove c'è X vige il potere di X e dove c'è Y vige il potere di Y. Ma la realtà è molto più contorta, ed allo stesso tempo molto più semplice. La realtà vede i fondamentalismi, i poteri reazionari e quelli capitalistici da una parte, e dall'altra... dall'altra ci dovremmo essere noi, tutti noi.

Tremila chilometri, cinque ore e mezza. Roma-Soruç. E' come dire ad un romano che a Torino sono morti trentadue ragazzi, uccisi perché socialisti e con idee diverse da chi li ha voluti morti. Le distanze son diverse, ma il tempo no. E del resto anche la Siria si affaccia sul Mar Mediterraneo, il Mare Nostrum, perciò volerla vedere distante è come non avere coscienza di che posto occupiamo nel mondo. 

Per ricordare i compagni curdi non posso che ripensare alla canzone degli Area intitolata Luglio, Agosto, Settembre (nero). Ai tempi fu dedicata alla resistenza palestinese nei confronti di Israele, ma credo che oggi si possa tranquillamente ascoltare pensando a quei ventisette ragazzi, a quei sorrisi, a quel desiderio di libertà, di pace, di giustizia, di uguaglianza. 



Stefano Tortelli

domenica 19 luglio 2015

Razzismo: la paura di vedere il proprio futuro in faccia





Per combattere un nemico bisogna conoscerlo, e conoscerlo bene. E' necessario entrare nella sua psiche, comprendere al meglio i suoi pensieri, tentare di ragionare come lui, capire cosa lo spaventa, cosa lo emoziona, ed infine combatterlo, avendo così buone chance per sconfiggerlo. Perché se ancora non è chiaro, cari miei, siamo in guerra: una guerra psicologica, una guerra di emozioni, di consensi, di mal di pancia, che talvolta, come a Roma e Treviso, sfocia in guerra fisica. Leggo e sento pareri discordanti riguardanti ogni cosa che avviene attorno a noi, ed il concetto di "attorno a noi" è esteso al mondo intero, e non solo al nostro paese, al nostro quartiere, alla nostra città, alla nostra nazione. L'avete voluta la globalizzazione, l'avete voluto il libero mercato? Bene, allora anche la vostra mente dovrebbe agire senza frontiere. E le frontiere più difficili da abbattere sono innanzi tutto quelle dell'Io, perché alla fine ogni azione che svolgiamo, a livello individuale o collettivo, è figlia di un impulso egoistico da soddisfare. 

C'è chi si ascolta un disco, chi va ad un concerto con gli amici, chi partecipa ad una manifestazione, chi si prende cura degli animali, chi si "accontenta" di fare l'amore tutto il giorno con la persona che ama o di passare la giornata insieme ai figli in un parco o a legger loro storie... e poi ci sono quelli che credono che il loro obiettivo sia combattere il diverso, lo straniero, il differente. Lo combattono a parole, lo combattono sbraitando su facebook o parlando con i propri conoscenti, e per molti è sufficiente questo: si liberano, si sentono appagati, hanno dato sfogo alle loro voglie (di ben più bassa lega di quelle di Bocca di rosa, ma ragazzi, degustibus!!). E poi c'è chi passa al livello successivo, dando fuoco ai letti dei profughi o insultando diciannove disperati che null'altro chiedono che un posto dove dormire e qualcosa da mangiare.

Un posto dove dormire, qualcosa da mangiare. Molti di loro argomentano che di sto passo arriveremo anche noi a quel punto, a non saper più dove dormire, a non aver più nulla da mangiare, a non poter più soddisfare i propri bisogni primari. Hanno ragione. Il problema però è un altro. Innanzi tutto i bisogni primari dell'uomo medio occidentale sono molti di più che mangiare e dormire, e ben pochi di questi sono funzionali ad un progetto a medio-lungo termine. "Cazzo, mi han tagliato lo stipendio, ora mi tocca scegliere tra fare l'abbonamento a Sky o quello ad Internet"; "Ora che non posso più fare gli straordinari sarà difficile riuscire ad andare in vacanza in Egitto quest'anno"; "Ma guarda te, io non posso permettermi una casa più grande ed a QUELLI danno una camera d'albergo, che vergogna!!": questi sono i bisogni primari della gente che si lamenta degli stranieri.. e come dar loro torto, dico io!! Solo che la responsabilità di tutto ciò che sta accadendo alla classe media europea non è causato dagli immigrati, bensì da chi prima l'ha abituata a questo stile di vita, ovvero quello del superfluo, e poi pian piano le sta togliendo tutto. Ma prima di toglierle queste cose veramente superflue le ha tolto tutto il resto, a partire dall'autodeterminazione, dalla coscienza di se stesso, dalla capacità di vedere oltre il dopodomani. E' chi sta sopra alla classe media che la sta fregando, non chi sta sotto o, tutt'al più, alla pari. Non è il compagno di lavoro il nemico, non è la vicina di casa immigrata, non è il vagabondo alla stazione che chiede due spiccioli. Sono i padroni, sono i politici, sono le classi privilegiate e false: mi viene sempre in mente l'esempio dei ginecologi obiettori di coscienza che poi fanno abortire le donne nel loro studio privato. Questi sono i nemici, non i fratelli. 

Ma le guerre tra poveri sono famose, ci sono sempre state, sempre ci saranno. Anche perché l'uomo è guidato da due istinti che sono diametralmente opposti: vuole essere superiore a qualcun altro ed allo stesso tempo annientare chi è a loro inferiore. E' la natura, è umanità. Per questo detesto il concetto di umanità applicato agli atti caritatevoli: se spesso sono stati affibiati ad una divinità o alla santità di una persona, un motivo ci sarà, no? E' proprio perché sono inumani che sono così eccezionali, questi atti, e rendono qualcosa di altro dall'essere umano colui che mette in atto questi gesti. Ma non perdiamoci nel discorso umanità perché ci sarebbe da parlarne per giorni... Come dicevo, le guerre tra poveri ci sono sempre state, e questa, questa battaglia apparentemente razzista, è soltanto l'ultima di una lunga serie. Queste persone, questi razzisti, probabilmente si comporterebbero nello stesso modo se in una situazione simile si trovassero i francesi, gli austriaci, e non mi stupirei se un giorno, se la situazione della Grecia dovesse peggiorare, leggeremo o sentiremo frasi come "Greco di merda, tornatene nella tua Acropoli".

Tutto questo non è per sminuire il concetto di razzismo, ma per provare a spiegarlo, per provare a renderlo qualcosa di ancora più ampio, collocandolo in un errore madornale della normale lotta tra classi, che però vede la classe medio bassa combattere con chi è addirittura allo stesso livello ed ancor più in basso anziché volgere le proprie ire e la propria bellicosità verso l'alto. Tutto questo succede perché nel diverso, in queste persone che parlano un'altra lingua, che hanno una fisionomia diversa (il colore è molto relativo, albanesi e rumeni, ad esempio, non sono poi così diversi di noi per quanto riguarda la carnagione) il razzista ha la visione di se stesso tra qualche anno, nel momento in cui avrà lasciato portarsi via anche l'ultimo diritto, l'ultimo pezzo di pane, l'ultimo metro quadro di tegole sopra la propria testa. Questa visione spaventa il razzista ed allora vuole allontanarla dalla propria vista, evitarla, distruggerla. Perché il futuro lo spaventa, ed allora non deve pensarci, ed allora per non pensarci deve concentrare le sue energie su un obiettivo facile, che oltre tutto è lo specchio della sua esistenza futura, del suo futuro... futuro al quale non ha mai pensato perché troppo concentrato a guardarsi i telefilm su sky, a fare shopping per le vie del centro, a cercare di assomigliare a chi sta sopra di lui non perché in questo modo diventa come i suoi nemici irraggiungibili, ma perché almeno, nello specchio della proprio casa, può vedersi, ora, come loro. Non è loro, ma gli assomiglia, e questo gli basta.

Gli immigrati non sono solo un capro espiatorio, non sono solo uno specchietto per le allodole, ma sono anche lo specchio del nostro futuro se continueremo a stare seduti con le mani in mano e tenendo la testa bassa, incazzandoci e bevendoci su una birra per non pensarci ulteriormente, guardando lo show del sabato sera o andando in discoteca per non farci prendere dai dubbi e dalle perplessità, in modo da non arrivare a dire: "Oh merda, ma ci hanno preso per il culo fino ad oggi quelli sopra di noi". 

Oggi sono gli immigrati a spaventarvi, domani sarà un'epidemia e chi è affetto da questa malattia, dopodomani saranno gli statali perché avranno agevolazioni per andare in pensione o aumenti di stipendio. E la gente se la prenderà con gli appestati, e così la gente diventerà epidemista, poi se la prenderà con statali e diventerà statalista.. 

Capri espiatori per branchi di pecore che non attivano il cervello, che non vogliono guardare il futuro in faccia, che non sanno riconoscere il vero nemico. 

Quando poi, forse forse, il vero nemico di ognuna di queste persone è se stessa, perché son stati loro a stare con le chiappe ben comode sul divano. Belle larghe, ma comode. 

Io mi chiedo... solo ora brucia? Non sarà mica che, sotto sotto, tutto questo (schifo) piace? 

Eccolo il razzista in tutta la sua malata psicologia e la sua totale mancanza di lungimiranza, di coscienza di sé e di come va il mondo a lui circostante, eccolo il razzista che pur di non vedere il proprio triste futuro cerca di allontanarlo o distruggerlo. Eccolo il razzista, che non ne fa una questione di razza (ecco perché spesso si legge "non sono razzista ma"), di colore, di provenienza geografica. Si alimenta degli stereotipi, molto simili a quelli che riconosce in lui stesso, per avere un movente per la sua crociata verso il diverso oggi ma uguale domani. Il razzismo non è razzismo, il razzismo è classismo mascherato, colorato, è una lotta di classe verso il basso, che porterà ancor più giù chi la combatte. Sia il razzista sia l'obiettivo del suo odio.

Vogliamo combattere il razzismo? Pensiamo al futuro e pensiamoci tutti insieme. Il domani è tutto ciò che abbiamo, e dobbiamo difenderlo da chi ce lo vuole togliere ed ha la forza per farlo. Ovvero chi detiene il potere. Ed il domani, il domani egualitario e giusto, è sempre stato la direzione, l'obiettivo di un'unica ideologia, quella dell'uomo che disse che per essere un buon rivoluzionario occorresse sentire nel profondo di noi stessi ogni ingiustizia perpetrata nei confronti di un nostro simile. Quella di un certo Ernesto "Che" Guevara.





Stefano Tortelli

martedì 14 luglio 2015

"Storia di un impiegato" di Fabrizio De André




Il vero peccato non è fare del male, il vero peccato è non fare del bene. Credo che con questa semplice frase si possa riassumere il pensiero racchiuso da Fabrizio De André nel suo "Storia di un impiegato". Era il 1973, Fabrizio stava cominciando ad avere un peso rilevante nel panorama cantautorale italiano, e con il suo sesto album andava idealmente a chiudere un secondo capitolo della sua discografia, ovvero quello dei concept album. E se "La buona novella" rappresenta uno dei suoi dischi più controversi e di difficile lettura (ed io in un post di aprile ho provato a dargli una mia personalissima interpretazione), se in "Non al denaro non all'amore né al cielo" ha cercato di definire, utilizzando le poesie di Edgar Lee Masters tradotte divinamente da Fernanda Pivano, gli archetipi delle persone che vivono il nostro tempo, con "Storia di un impiegato" ha sostanzialmente descritto il processo mentale che un uomo della classe media percorre dal momento in cui abbraccia la lotta di classe al momento in cui, dopo aver perso tutto, anche la libertà fisica e l'amore, riesca comunque a sentirsi vincente. Perché è vero, è stato sconfitto su tutti i fronti: ma ci ha provato. Ha perso, ma ci ha provato.

Doveva essere una storia comune quella raccontata da Fabrizio quando lui prese carta, penna e chitarra per dar vita a questo capolavoro. Erano gli anni delle contestazioni studentesche, delle occupazioni, degli scioperi e dei picchetti davanti alle fabbriche. Spesso mio padre mi racconta di quegli anni: lui a diciotto anni ed un mese entrò in Fiat, ed a quei tempi la fabbrica era non solo il primo motore dell'economia italiana, ma anche la fucina di giovani menti che avrebbero potuto e dovuto, ma soprattutto voluto, portare avanti la lotta, la stessa lotta che trent'anni prima mise sotto scacco il fascismo con i famosi scioperi di Mirafiori che coinvolsero centinaia di migliaia di lavoratori. Non era una passeggiata il lavoro in fabbrica, non lo è mai stato, ma in quel periodo c'era ancora la speranza, c'era la consapevolezza che si poteva anche cambiare lavoro, perché di lavoro ce n'era fuori dalle mura degli stabilimenti. Chi restava lo faceva quasi per scelta, e spesso questa scelta era dettata dalla consapevolezza, dall'identità operaia: sì, quella classe operaia che è stata sistematicamente distrutta negli ultimi anni per rendere arido il terreno più fertile per i semi del socialismo, della lotta di classe, della guerra senza quartiere nei confronti del sistema capitalista. Lotta che dalle fabbriche, allora, si estese alle università, agli uffici, a quelle realtà che prima d'allora mai, più di tanto, si erano interessate ad un certo tipo di pensiero politico e sociale: gli anni a cavallo dei '60 e '70 del secolo scorso hanno in un certo senso rappresentato un nuovo illuminismo, illuminismo che coinvolse anche il protagonista della storia di Fabrizio. Perché l'impiegato del quale vengono narrati gli ultimi mesi di libertà fisica e del suo processo di liberazione mentale era un piccolo borghese, che nulla aveva da chiedere alla vita perché la vita già gli aveva dato tutto. Eppure, ad un certo punto, si rese conto che gente meno fortunata di 
lui, sebbene calpestata, rinchiusa, picchiata, vessata stava vivendo, stava respirando, e respirando dava vita ad un vento nuovo, un vento forte, un vento fresco; lui invece in quella bambagia stava sopravvivendo, i giorni erano tutti uguali. Se ne rese conto, e decise di unirsi alla lotta. Decise di vivere. Decise di decidere. Ma per fare ciò doveva sostanzialmente distruggere ciò che fino a quel momento l'aveva oppresso: non era la mancanza di denaro ad averlo distrutto, ma la monotonia della sua vita, i miti con i quali era stato cresciuto, quelle figure che danzano mascherate nel suo sogno. Andavano distrutte, andavano fatte esplodere. Ed andavano ripudiate anche le sue origini: la madre, il padre. E soprattutto andava sabotato alle radici il sistema: quello giudiziario, quello economico, quello politico. 

E pensare che questo processo mentale è stato "inizializzato" da un canto di protesta che ripeteva ad ogni strofa il coinvolgimento dell'uomo medio nell'oppressione delle lotte, delle rimostranze, dei soprusi ai danni delle classi più colpite dal sistema vigente. La Canzone del maggio fu l'incipit, fu la sveglia per questo impiegato trentenne, che si è trovato a ragionare più e più volte su cosa fosse giusto fare: i suoi dubbi, i suoi timori, la sua voglia di riscatto, il suo desiderio di dare un contributo ne tormentavano i giorni e le notti, fino a decidere di abbracciare la causa, e di armarla. E così cominciò a sognare, ad immaginarsi in diversi contesti, ad affrontare i suoi nuovi nemici, figure che fino a poco tempo prima lo affascinavano e ne edulcoravano l'esistenza. Ma lo stesso destino toccava anche a chi l'aveva, secondo il suo giudizio, cresciuto nella tranquillità abituandolo ad ogni agio, ma di fatto rendendolo ignorante ed indifferente alle giuste cause. Arrivò poi il momento della resa dei conti, il momento di agire, il momento di far saltare il simbolo del potere. Ma l'attentato non ha successo, portandolo quindi a perdere la sua libertà fisica, la sua vita, il suo amore. Ed è l'amore la cosa alla quale non avrebbe mai voluto rinunciare, ed è la sua amata la persona alla quale più spesso si ritrovò a dedicare i pensieri, immaginandola sommersa di domande, ripercorrendo la vita passata insieme a lei, ragionando su ciò che lei avrebbe potuto fare dopo la fine forzata della loro storia d'amore. Ed in quel "Continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?" c'è un significato più profondo di quello puramente legato all'amore: c'è anche un significato legato ad ogni potere decisionale di ogni individuo, spesso delegato a qualcun altro, qualcuno più forte di noi, qualcuno che apparentemente è più autorevole (ed in una realtà in cui la donna era ancora estremamente subordinata all'uomo il potere decisionale che l'impiegato sperava potesse finalmente essere esclusivamente nelle mani di sua moglie rappresenta l'emancipazione dei più deboli dai dettami di chi detiene il potere) e che, in seguito alle prese di coscienza del protagonista di questa storia, non doveva essere d'altra persona se non di lei.

Ma la storia dell'impiegato non è finita qui. Anzi, la storia di questo piccolo borghese diventato rivoluzionario non ha una fine. Perché sebbene fosse finito in carcere, sebbene fosse stato privato di ogni libertà d'azione, il nostro eroe sfortunato non perse ciò che finalmente aveva conquistato: la libertà di pensiero, e di conseguenza la vita. Finora non ho accennato minimamente alla musica che accompagna le parole di Fabrizio De André, ma in questo caso è doveroso: il nostro eroe è stato imprigionato, ha sostanzialmente perso, teoricamente ci si dovrebbe aspettare una musica cupa, triste, carica di dolore. E invece no, l'atmosfera creata è ariosa, serena, forse un po' rassegnata, ma che da un senso di libertà. La stessa libertà che poteva respirare durante l'ora d'aria, ora d'aria che decise però di disertare perché non voleva condividere quel cortile con un secondino, ovvero con il simbolo dell'oppressione, del sistema, del potere. Fedele alla linea fino in fondo, e così si limitava a ragionare su tutto ciò che gli era capitato, a come con orgoglio rivendicava ogni sua azione, ogni sua presa di posizione, di coscienza, difendendo così, di fatto, la sua libertà mentale, che pian piano si stava diffondendo tra i suoi compagni di reclusione. Tanto da rinchiudere il secondino durante l'ora di libertà, rivoluzionando così le gerarchie, sebbene per poco tempo, sebbene per uno spazio limitato. E rivendicando anche quell'azione, cantando ancora una volta, un'altra volta ancora, e chissà quante altre volte: "Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti".

Questo è "Storia di un impiegato", un album che per decenni è stato censurato, nascosto ed anche raramente proposto nei live. Un disco anarchico, un disco che mette al centro la libertà decisionale di ogni singolo individuo, una libertà decisionale che, se incanalata nel verso giusto, non può che contribuire al bene di tutti. Perché lottare è una scelta, lottare è fare il bene, e facendo il bene si fa la cosa giusta. Altrimenti si può rimanere a guardare, si può assistere, si può vivere da spettatori non paganti, limitandosi a sopravvivere, a discolparsi, a pensare che tutto sommato va bene così... 

Sono ancora estremamente attuali queste canzoni di Fabrizio De André, e benché questo lo renda ancora vivo e presente, penso che non sia poi così felice di sapere che c'è ancora bisogno di ascoltare questo disco... significa che in quarant'anni non è cambiato niente, anzi... e significa che probabilmente queste canzoni non sono state poi così utili... fino ad ora...





Stefano Tortelli

C'era una volta l'Internazionale



Torno a scrivere dopo quaranta giorni circa, una Quaresima dettata da un intervento chirurgico, e delle placche alla gola, ma anche dal caldo opprimente che nelle settimane passate ha contribuito non poco a rendere arido il fiume delle idee. Più volte ho provato a scrivere qualcosa, gli spunti non sono mai mancati, ma ho sempre trovato qualche difficoltà a dar loro forma, ad aumentarne la sostanza, a dar loro un'ordine. Già di loro, solitamente, sono anarchiche... figuriamoci nelle settimane appena trascorse.

Ma ora sono tornato, ed in un certo senso aspettavo questa giornata per riprendere in mano i "fogli" di questo blog, le pagine bianche ancora da scrivere e questa penna che in sé contiene tutti i caratteri dell'alfabeto. Perché oggi è l'anniversario della Rivoluzione Francese, di quel secondo atto di ribellione agli antichi poteri che ormai da secoli guidavano l'andamento dell'Europa e non solo. Dico secondo perché prima dei moti dei fautori della I Repubblica francese vi furono le lotte d'indipendenza dei coloni nordamericani contro la Corona inglese, sfociati in una guerra che portò successivamente alla stesura della prima Costituzione ed alla formazione degli Stati Uniti d'America. Erano partiti bene gli States, ma poi si son persi strada facendo... il loro però fu un esempio per i rivoluzionari d'Oltralpe, i quali costrinsero alla fuga il re, delegittimarono i nobili ed il clero, si costituirono in Repubblica, diedero un'identità di cittadino francese ad ogni individuo che partecipasse attivamente alla vita della neonata repubblica ed ispirarono, nei decenni successivi, rivoluzioni simili in altre aree del Vecchio Continente. E sarebbe stato bello fare un articolo dedicato alla Rivoluzione Francese, tema che mi è sempre stato a cuore sin dalla quinta elementare, quando portai l'argomento all'esame (un po' come fece Max Collini degli Offlaga Disco Pax, solo che lo fece qualche anno prima, ed in terza elementare), ma alla luce dei recenti avvenimenti è soltanto uno spunto per parlare dell'attualità, di ciò che sta succedendo non oltre i nostri monti ma oltre il mare che ci bagna sulla costa orientale. Perché se non c'è nulla di nuovo sul fronte occidentale, su quello orientale c'è una polveriera che sta per esplodere... e la colpa è di tutti noi, di tutta l'Europa, sia, ovviamente, delle destre capitaliste, sia, e nemmeno troppo a sorpresa, delle sinistre più radicali.

C'era una volta l'Internazionale. Siamo nel 1864, i moti rivoluzionari del 1848, sebbene con alterne fortune, avevano fortemente modificato l'opinione pubblica, o, ancor meglio, l'avevano creata, soprattutto nelle fasce medio basse della popolazione, le quali necessitavano di organismi che dessero voce alle loro istanze per poi mettere nella condizione i poteri forti di accorgersi del fatto che le acciaierie non funzionavano da sole, nemmeno le miniere, e nemmeno i raccolti erano spontanei. Spesso furono alcuni borghesi illuminati a farsi portavoce degli ammutoliti operai e contadini, e così poterono pian piano nascere i primi sindacati riconosciuti, i primi partiti realmente democratici, dove il concetto di democrazia non era "potere al popolo" inteso come "il popolo elegge e poi chi viene eletto fa gli affari propri" ma "potere al popolo" inteso come "il potere viene dato in mano alla massa, alla realtà più rappresentata". E la realtà più rappresentata non poteva che essere quella dei cittadini operai e dei contadini di campagna. Nacque così la classe operaia, nacque così il proletariato. O meglio, nacquero la presa di coscienza di essere parte di un'entità grandissima, potenzialmente imbattibile. Sempre nel 1848 Karl Marx e Friedrich Engels pubblicarono "Il manifesto del Partito Comunista", vero e proprio programma di partito di quella che fu la prima realtà politica comunista, la Lega dei comunisti. Dopo sedici anni, tornando così al punto iniziale della nostra storia, nacque quella che noi conosciamo come Prima Internazionale, ovvero l'Associazione internazionale dei lavoratori. In essa confluivano tutte le realtà politiche che si erano rese conto di come, per poter reggere un'economia già allora traballante (nel 1857 ci fu la prima crisi del sistema capitalistico), era necessario garantire una buona condizione di vita alla stragrande maggioranza della popolazione: perché vedete, se non fossimo così asfissiati da terminologie tecniche e da prese di posizione dovute a pregiudizi, e si volesse in modo molto semplicistico spiegare le varie correnti politiche, quella migliore per definire le sinistre è quella pocanzi descritta...

L'Internazionale aveva lo scopo di mettere a confronto le varie esperienze locali dei vari Stati, aveva la missione di dare un'organizzazione sovranazionale alle lotte politiche, ed al centro di ogni discussione vi era il popolo, e non l'equilibrio politico, non la questione morale, non esisteva una bilancia sulla quale pesare i pro ed i contro. La Prima Internazionale racchiudeva in sé non solo partiti chiaramente comunisti, ma anche laburisti, social democratici, anarchici, e sebbene spesso non andassero d'accordo avevano comunque il modo di parlarsi, di spiegarsi, talvolta di mandarsi a quel paese, ma per lo meno esisteva un confronto, quasi sempre produttivo. L'esperimento della Prima Internazionale si concluse nel 1872. Nel 1896 vi fu la Seconda Internazionale, che divenne sempre più potente, raccoglieva sempre più consensi, tant'è che per stroncarla, vent'anni dopo, si diede vita alla Prima Guerra Mondiale... ma non ditelo in giro, queste cose non si devono sapere... 

Nel primo dopoguerra vi fu la prima grande scissione, ovvero quella tra l'Internazionale, che divenne Internazionale Socialista, ed il Comintern, che raggruppava tutte le potenze comuniste del mondo. Ma il senso era sempre quello: confrontarsi, parlarsi, aiutarsi, imparare. Famosi sono i viaggi di Togliatti in terra sovietica, molto lui imparò dagli eroi della Rivoluzione d'Ottobre e molto i russi impararono da lui, tanto da dedicargli una città: c'era Stalingrado, c'era Leningrado, c'era (e c'è) Togliattigrado. Ed anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, quella guerra che vide l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche disintegrare il nazismo e dare una seria lezione all'Occidente capitalista, Comintern e Internazionale socialista continuarono ad operare, risultando sempre un ottimo laboratorio di idee, un ottimo utero dal quale poi partorire tanti figlie quante le lotte da combattere per conquistare i diritti nei vari Stati...

Sembra preistoria, ma alla fine stiamo parlando di cinquant'anni fa... ed ora cosa c'è? Ora c'è un povero socialista in Grecia che, solo contro tutti, abbandonato da qualsiasi possibile alleato di ogni Stato europeo, abbandonato anche dai comunisti della nazione ellenica, viene bersagliato da destra e sinistra per il fatto che ha accettato un patto che lo mette con le spalle al muro, in ginocchio la Grecia, ma in un certo senso salva il culo a tutti quei partiti delle altre nazioni che possono ancora vendere fumo negli occhi ai propri elettori dicendo che comunque dalla crisi si potrà uscire... perché se la Grecia fosse caduta, se Tsipras non avesse accettato, l'effetto domino sarebbe iniziato: Grecia, poi Italia, poi Spagna, poi Irlanda, poi Portogallo. I primi a cadere, proprio perché sacrificabili. E poi la Francia, poi le piccole nazioni... Perché il capitalismo è così, più mangia e più vorrebbe mangiare, e di certo non si ferma per pietà o perché sazio. 

Si sarebbe potuto evitare tutto questo? Certo, si sarebbe potuto evitare, ed in un modo anche molto semplice. Se è pur vero che il motto dividi et impera è estremamente valido, è anche vero che dividere qualcosa di fortemente coeso è molto difficile, se non impossibile. Se le potenze di sinistra d'Europa avessero appoggiato Syriza non solo a parole ma anche a fatti avrebbero potuto far sentire la loro voce nel contesto nazionale, e poi a Bruxelles ed a Strasburgo. Ovviamente sorge spontaneo il discorso relativo all'assenza di un partito di sinistra in Italia, ad esempio. Già, è vero, qui di Democratico c'è solo il nome, ma tutte le realtà extraparlamentari che finora hanno fatto a gara a chi aveva il martello più lungo o la falce più larga, se si fossero messe d'accordo avrebbero potuto dire: "Bene, ad alcuni di noi Syriza piace, ad altri no. Ma ora questo è l'esempio più a sinistra, o vista in un altro modo meno a destra, nella politica europea attuale. Proviamo a dar loro una mano, facciamo in modo che abbia successo, perché così il popolo greco ci guadagna ed intanto la nostra realtà comincia a riprendere una forma... e chissà che un giorno possa avere successo anche qui, in Italia, quel Paese che non meno di quarant'anni fa aveva il partito comunista più forte dell'Europa occidentale".

L'han fatto!? L'ha fatto qualcuno in altri Stati europei? No...

Qui giocano tutti con la nostra pelle, da Grillo a Salvini a Renzi a Rizzo e via dicendo... Questi stanno ore a parlare nei loro palazzi, durante i loro comizi, firmano accordi, li rispettano, li annullano, li aggirano... ma a loro poco cambia, se non l'acquisizione o la perdita di prestigio... e noi li guardiamo in tv, mentre proviamo a mettere insieme il pranzo con la cena, cercando di capire quale sarà il nostro boia...

E pensare che basterebbe un minimo di organizzazione... ci riuscivano Marx ed i suoi compagni di tutta Europa quando c'era solo il telegrafo ed i treni non superavano le 50 miglia orarie, per quale motivo non ci dovremmo riuscire noi!? 

Sarà che, tutto sommato, sentiamo ancora poco i morsi della fame... 




Stefano Tortelli