Racconti, canzoni, riflessioni sull'attualità e sulla storia, su musica e film, su personaggi, società, filosofia...
La mia quotidianità cerebrale da condividere con chi vuole leggere.. e che magari un giorno ascolterà o vedrà.
Il tutto con estrema passione, senza filtro, bandendo ogni moderazione.
Mattina presto, inizio ottobre, gli sguardi dei passanti ancora alternano immagini oniriche alla realtà. Il tram si ferma e mi permette di sfuggire per un po' ai primi freddi; cerco posto svogliatamente, non lo trovo, mi appoggio allo scheletro del vagone, intento a sciogliere i nodi delle cuffie che qualche folletto dispettoso ogni notte accuraramente tesse con le sue tanto piccole quanto abili dita.
Fa freddo ma c'è il sole, i passeggeri cercano nel giornale e nel cellulare un po' di compagnia e qualche emozione. Premo play e mi abbandono alla musica, mi guardo attorno e tengo il tempo ticchettando su una delle sbarre del tram.
All'improvviso vedo lei, qualche metro più in là, raccolta nei suoi capelli rossi e nel giubbotto dello stesso colore. Mi vede, distogliamo lo sguardo, ma non passa una canzone che siamo di nuovo lì, a metà strada. I nostri occhi di incontrano tra la madre col passeggino e l'impiegato che guarda l'orologio sbuffando periodicamente. Noto il filo degli auricolari, abilmente nascosti dalla sua chioma color tramonto, vedo il suo piede che batte sul pavimento e va a ritmo con le mie dita... chissà se stiamo ascoltando la stessa canzone!? Sorrido pensandoci, ed intanto lei ancora non scende. Andrà dove vado io?
Mancano sempre meno fermate, lei è impassibile al suo posto, io mi sposto ma ci vediamo ancora. E ancora cinque fermate, ho il 20% di possibilità, non male. Scenderemo insieme e forse faremo qualche passo insieme... ma non è così, si avvicina alle porte, prenota la fermata. Il mio sguardo si aggrappa ad ogni suo gesto, quasi a supplicarla. Non vorrebbe dirle addio. Ma è un tentativo vano. Il tram si ferma, Torino si riapre a noi e lei è già per strada.
La cerco per un'ultima volta, si gira per attraversare e per commiato gli sguardi si incrociano per lasciarsi in un attimo.
Sarà per un'altra vita, pendolare dai capelli color del tramonto...
Ma se ci penso, dopo tutto, un breve tratto del lungo percorso che si chiama Vita l'abbiamo condiviso.
Per riuscire a collocare
nella mia infanzia ciò che sto per andare a raccontare ho dovuto
snocciolare le tante carriere lavorative che da piccolo si erano
alternate nei miei desideri. A cinque anni, prima delle elementari,
volevo fare il veterinario: ero circondato da animali, e poterli
assistere, curarli e star loro vicino mi sembrava una bellissima
prospettiva! Poi, a sei anni, complici alcune letture sui dinosauri e
sullo spazio, desideravo diventare paleontologo o astronauta. Sai che
spettacolo andare nel deserto e cercare i resti di un dinosauro,
oppure salire su una navicella spaziale e poter guardare la terra
dall'esterno?
Ad otto anni, visto che
il veterinario sarebbe stato un casino perché ero allergico al pelo
del gatto (e sarebbe stato brutto fare il veterinario solo per altri
animali, quasi razzista!), visto che i dinosauri avevano un po' perso
di fascino e visto che la carriera di astronauta mi dava alcune
preoccupazioni visto il mio terrore, allora, nei confronti degli
alieni, ripiegai sul costruire ponti. Non so perché volevo costruire
ponti, e forse questo tarlo dei ponti si è “metaforizzato” e,
con gli studi che poi effettivamente ho fatto, qualche “ponte”
potrei anche riuscire a costruirlo...
Chiesi a mia mamma che
cosa sarei dovuto diventare, e lei mi disse: “Ingegnere o
architetto. Ma meglio ingegnere, tu ami la matematica (amore poi non
più corrisposto), saresti bravissimo e ti toglieresti tante
soddisfazioni!” “Ma mamma, hanno tanti soldi gli ingegneri?”
“Sì, Stefano“Ah sì??” “Eh sì, gli ingegneri guadagnano
tanto perché le cose che fanno servono a tante persone!” Subito
pensai che avesse ragione: un ponte deve stare in piedi per tanti
anni, deve essere funzionale, deve dare la possibilità a migliaia di
automobili, di camion, di trattori, di mietitrebbie (non potevo non
citare le mietitrebbie, amavo le mietitrebbie da bambino) di andare
dove devono andare. Poi però pensai: “Ok, ma anche gli ingegneri
devono mangiare. E mangiano quanto i miei genitori. Anche gli
ingegneri hanno bisogno di una casa, di vestiti, di tutto ciò di cui
ha bisogno la mia famiglia e che la mia famiglia si può permettere.
E non gliene servono di più che a papà!” Poi pensai che alla fin
fine, se un ingegnere non può andare a lavorare, viene licenziato e
non guadagna più. E per andare a lavorare necessità di strade, e
ok, può farle lui, ma chi le costruisce? Ha bisogno di una macchina,
e chi costruisce la macchina? Chi lavora i materiali necessari per
costruire la macchina? E poi la macchina non va da sola, serve la
benzina, servono i benzinai.
E tra l'altro l'ingegnere
deve mangiare, c'è bisogno che qualcuno coltivi il cibo, allevi il
bestiame, prepari il pane, i dolci (anche gli ingegneri mangiano
dolci, no?). L'ingegnere ha bisogno che un sacco di persone lavorino
“per” lui, e queste persone potrebbero sfruttare il suo ponte per
i loro spostamenti. Non è uno scambio questo? “Mamma, ma i soldi,
se tutti lavorano e tutti fanno qualcosa per gli altri, in un modo o
nell'altro, a che cosa servono? Papà fa le macchine, se una persona
usa una macchina che lui ha fatto gratuitamente, e questa persona è
un insegnante, potrebbe insegnare a me gratuitamente, no? E se fosse
un panettiere potrebbe darci il pane, cose così”... “Sì
Stefano, ma ogni cosa ha un suo valore e per cui più soldi hai e più
cose di valore puoi comprare!!” “Ok mamma, ma anche per fare le
cose che valgono di più serve qualcuno che lavori, quindi alla fine
i soldi non servono! Mamma, i soldi non servono. Ma si potrà vivere
senza soldi prima o poi?” “Non credo, Stefano. Ma è già una
bella cosa pensarlo, sperarlo.”
“Mamma, ma i soldi sono
sempre esistiti?” “No Stefano, li ha inventati l'uomo."“E prima
come facevano?” “Eh, si scambiavano le cose” “Ecco, non è
uno scambio anche il MIO?” “Sì...” “E non erano più
tranquilli gli antichi?” “Sì, forse sì, Stefano...”
Ora, non so se la
conversazione andò propriamente così, sicuramente non usai questo
tipo di linguaggio, ma quel giorno mi si aprì un mondo. Pensavo al
mio paese, a 5000 persone che, senza aver bisogno di guidare, di
utilizzare particolari strumenti, senza avere troppe pretese potevano
vivere tranquillamente mangiando ciò che veniva coltivato,
costruendo con i materiali che qui si producono, allevare il bestiame
e mangiarne la carne, imparare ed insegnare, curarsi e farsi
curare... e per 5000 persone ci sarebbe stato fin troppo cibo, fin
troppa sabbia, fin troppa ghiaia, che si sarebbe potuta scambiare...
e questa cosa con non troppe difficoltà, questa microsocietà
insomma, si sarebbe potuta espandere a livello provinciale,
regionale, nazionale, mondiale.. tutti ovviamente dovevano lavorare
per poter avere a disposizione ciò che reputavano necessario, tutti
avrebbero potuto tranquillamente godere di ogni cosa figlia del
lavoro degli altri perché il loro lavoro dava altre cose che
avrebbero soddisfatto le altre persone. Senza la mediazione dei
soldi, senza capitali fermi e quindi inutili, senza evasioni, senza
menate... E quel che sarebbe mancato in un posto si sarebbe scambiato
con ciò che avanzava, dando la possibilità ad altri di avere ciò
che da soli non potevano produrre o reperire...
E così tutti avremmo
avuto da mangiare, tutti avremmo avuto da bere, tutti avremmo remato
nella stessa direzione per uno sviluppo sempre maggiore, funzionale
al bene comune... non ci sarebbero stati problemi legati al nucleare
o ai carboni fossili perché già ora avremmo auto ad idrogeno,
elettriche, ad impatto zero... e magari sarebbero state meno
performanti rispetto a quelle attuali, ma pace, perché i ritardi non
sarebbero stati un problema, non ci sarebbe stato il timore di
rimanere senza soldi a causa di un licenziamento... tutti vivremmo
più sereni, più tranquilli, più sani, in armonia.
Certo, per fare tutto
questo sarebbe necessaria una rettitudine morale di ogni individuo,
ma questa rettitudine secondo me è andata a perdersi proprio a causa
della creazione del denaro, portando gli individui a cercare
escamotage per averne di più con uno sforzo sempre minore...
Togli il denaro a questo
pianeta, e lo salverai. Togli il potere a chi lo brama soltanto per
fare i propri comodi economicamente, e vedrai che, in assenza di
denaro, chi prima desiderava potere sarà l'ultimo a volerlo, perché
dovrà fare senza un rendiconto visibile al bancomat.
La nostra è una società
malata di tumore, un tumore che ha colpito ognuno di noi, e dal quale
ci si può curare soltanto eliminando le cellule tumorali. Le cellule
tumorali sono i soldi.
Ci vorrà un cataclisma
di dimensioni epiche per poter avere le condizioni necessarie ad
attuare tutto ciò, l'intervento di un'entità extraterrestre, una
tempesta elettrica che resetta ogni conto in banca esistente...
nell'eventualità queste cose non succedessero, siamo, ahimè,
condannati all'estinzione... e, la cosa buffa, e che non sarò
neppure soddisfatto nel poter dire, in punto di morte “Però,
c'avevo visto lungo...”
Leggo sul numero odierno de L'Eco del Chisone che in tutta la Val Chisone non c'è stato un comune che abbia dato la propria disponibilità per ospitare la fiaccolata del 25 aprile, organizzata ogni anno dall'Anpi territoriale.
Ora, non so come siano orientate politicamente le giunte di codesti comuni, né credo che, ora come ora, faccia poi tanta differenza (visti gli attacchi nei confronti dell'Anpi sulle colonne dell'Unità, roba che Antonio Gramsci si starà non solo rivoltando nella tomba, ma peggio), ma il fatto che la gente di quella valle, popolata principalmente da persone anziane, non senta l'esigenza di dire: "Beh, ma per il 25 aprile qui nessuno organizza niente?" mi lascia alquanto perplesso, oltre che farmi piuttosto incazzare.
Tra l'altro potrei capire una cosa del genere in quelle zone dove la Resistenza, intesa come lotta di liberazione armata da parte dei partigiani, è un elemento che non ha caratterizzato il post 8 settembre, ma qui, in Piemonte, sulle nostre montagne, a pochi chilometri da Torino, mi sembra non solo un'assurdità ma un'enorme bestemmia: una bestemmia nei confronti di chi per la liberazione dell'Italia ha versato sangue, una bestemmia nei confronti di chi in quelle valli era sfollato durante la guerra, una bestemmia nei confronti di chi ha dovuto assistere ai crimini nazifascisti, una bestemmia nei confronti della nostra Nazione, nei confronti dell'Italia.
La storia della Resistenza italiana è uno dei capitoli più romantici dell'epica italiana, è quella più ricca di eroi, di atti meravigliosi, di schiene spezzate ma mai piegate. La Resistenza italiana è il punto più alto toccato dall'umanità tricolore nel '900...
...ma appunto è una storia, in Italia non si legge più, non ci si parla più, non si ricorda più...
Centoquarantanove sono i figli della Val Chisone che sono morti in venti mesi di combattimenti... centoquarantanove fiamme ardenti che non troveranno posto sulle strade che hanno pattugliato, liberato e poi difeso, centoquarantanove luci che non illumineranno i boschi delle montagne circostanti, gli stessi boschi che li hanno ospitati e nascosti quando erano in vita... centoquarantanove stelle che l'oscurantismo ed il revisionismo stanno offuscando sempre più, rendendo impossibile la loro naturale missione: mostrare ed insegnare a noi la strada da seguire e perseguire.
Ed intanto le acque si fanno sempre più agitate, ed in questo mare, in questa notte senza stelle, navigare, per noi, sarà sempre più difficile.
La canzone O cara moglie di Ivan Della Mea è del 1966. Una canzone ambientata nel periodo dei grandi scioperi, dei picchetti ai cancelli delle fabbriche, delle lotte tra gli operai ed i capi, ma anche tra scioperanti e crumiri.
Era un periodo profondamente democratico, molto più democratico di quello che stiamo vivendo adesso. Perché è vero, molti diritti non erano ancora stati conquistati (o forse concessi!?), in determinati campi (libertà sessuale, libertà di scelta riguardo ad aborto e divorzio) eravamo ancora estremamente indietro, ma ai tempi valeva la legge del 50% più uno: se per un determinato diritto si mobilitava la maggioranza, che fosse a livello microsociale (un'azienda, una località) o macrosociale (lo Stato intero), questo diritto facilmente veniva conquistato. E non sono così convinto che, ai tempi, si combattesse per determinati diritti perché ci si ritrovava ridotti alla fame o perché non si riusciva a sopperire ai propri bisogni con gli status quo che sussistevano allora. Credo invece che, tra gli anni '60 e gli anni '70, c'era un senso di collettivo, di appartenenza ad una determinata classe sociale, c'era il desiderio di anteporre il bisogno di tutti a quello individuale, senza mai comunque perdere di vista la dignità del singolo individuo, cosa che invece è venuta a mancare nel momento in cui l'opportunismo, la necessità del superfluo e la prevaricazione sono entrati nella mente di tanti che fino a poco prima avevano combattuto per giuste cause. Come cantava Pietrangeli, del resto, "Se il vento fischiava ora fischia più forte, le idee di rivolta non sono mai morte,se c'è chi lo afferma non state a sentire, è uno che vuole soltanto tradire; se c'è chi lo afferma sputategli addosso, la bandiera rossa gettato ha in un fosso", e perciò, forse forse, socialisti, questi, non erano mai stati.
Ma lasciando perdere chi ha cambiato colore man mano che è riuscito ad ottenere ciò di cui necessitava sfruttando qualsiasi mezzo a sua disposizione, vorrei soffermarmi sulla tanto paventata crisi di valori degli ultimi anni, soprattutto nella generazione che rappresento, quella dei giovani tra i venti ed i trent'anni. Noi siamo cresciuti nel ventennio berlusconiano, abbiamo avuto modo di sentire man mano, crescendo, le ripercussioni di politiche distruttive, le quali hanno minato alla base lo stato sociale, la scuola, la libertà d'informazione, la capacità di discernere tra il giusto e lo sbagliato. Siamo cresciuti nell'opulenza, e chi più chi meno abbiamo comunque assorbito un certo modo di vivere, di pensare, di agire. Tutto questo è sicuramente frutto di vent'anni di mal governo, che è però riuscito a destabilizzare così audacemente tutto ciò che poteva darci una cultura di base che siamo cresciuti sostanzialmente ignoranti, privi di reali interessi, assuefatti dalla televisione e dalle vane promesse di Silvio e soci.
E' vero, siamo ignoranti, privi di stimoli, incapaci di agire in senso collettivo, abbiamo perso ogni contatto con le realtà di insieme: in primis quelle che riguardano i nostri comuni, le nostre regioni, poi quelle che riguardano il nostro Stato, infine quelle che riguardano il mondo intero. E' vero, ci facciamo abbindolare, dobbiamo avere paura dell'Isis, fidarci degli Stati Uniti, lodare la Germania, guardare con sospetto Grecia e Russia, ed intanto farci dare i soldi dai nostri genitori o investire buona parte dei nostri stipendi da stagisti/apprendisti per comprare il nuovo I-Phone. Siamo un gregge, non c'è dubbio. Siamo un gregge come la generazione che ci ha anticipato, quella che ora ha tra i trenta ed i quarantacinque anni: quella che si è convinta che i contratti flessibili, i part-time fossero positivi perché davano libertà di azione. Peccato che questa libertà d'azione era sempre e comunque vincolata dal datore di lavoro di turno, quindi era immaginaria; quella che si è convinta che era bello poter avere a disposizione una pay tv attraverso la quale vedere le partite, i film in prima visione esclusiva ed assoluta, senza rendersi conto che così facendo ora sui canali in chiaro non danno più niente di nuovo perché i diritti sono quasi tutti di Sky o Mediaset Premium, e magari si lamentano anche del canone Rai; quella che si è venduta in toto, lasciandosi indirizzare verso il consumo folle incentivato dalle offerte, dalle rate, dagli abbonamenti, dai leasing.
E, andando ancora a ritroso, mi chiedo dove sia la grandezza delle generazioni passate se all'unico importante compito alle quali erano state chiamate, non tanto istituzionalmente e socialmente parlando ma a livello puramente biologico, hanno fallito miseramente. Dov'è la loro esperienza? A chi è stata tramandata? Per quale motivo i loro figli non sono stati cresciuti con il culto della lotta, della protesta e del collettivo? Siamo sicuri che due genitori siano più deboli della tv e degli stimoli esterni? Siamo sicuri che se è vero che la mia generazione non ha identità, spirito di condivisione e dignità individuale, questo non sia il frutto della perdita, in primis, di tutto questo da parte di chi ci ha cresciuti? Perché è tanto facile poi, a posteriori, dire che i giovani di adesso sono annoiati, statici, apatici. Ma è così che la maggior parte di noi è stata cresciuta, è così che ci ha voluto la società, ma è anche vero che è così che i nostri genitori ci hanno voluto far diventare. Quindi, prima di innanzi tutto generalizzare e dopodiché attaccare i giovani d'oggi, sarebbe il caso di chiedersi che ruolo si ha avuto all'interno di questo meccanismo di disgregazione del pensiero collettivo e della dignità individuale, che cosa non si è fatto per evitare che ciò accadesse e quali sbagli, come individuo e come generazione che si rappresenta, si sono commessi. E poi, magari, provare a riparare, insieme, senza vedere barriere generazionali. Di barriere ora come ora ce ne sono veramente tante, troppe, ed inserire pure quelle anagrafiche mi sembra piuttosto eccessivo e, ovviamente, controproducente.
Voglio concludere spiegando il perché io abbia cominciato l'articolo citando O cara moglie di Ivan Della Mea. Ecco, questa canzone viene ricordata soprattutto per il suo valore all'interno dell'antologia delle canzoni di protesta, poiché racconta per filo e per segno uno sciopero, i conflitti con i crumiri, l'odio verso il padrone e la differenza di risultati che derivano da una lotta totale che coinvolge tutta la forza lavoro ed una lotta frammentata. Quello che però è il messaggio più importante in questa canzone è il totale stravolgimento dello scenario d'apertura quando si giunge alla fine della canzone. Perché se all'inizio il figlio deve andare a dormire "perché le cose che io ho da dire, non sono cose che deve sentire", alla fine l'operaio si rende conto dell'errore, chiede alla moglie di richiamare il figlio perché "venga a sentire, perché ha da capire che cosa vuol dire lottare per la libertà". Ecco, ecco dove AVETE sbagliato. Vi siete fermati alle strofe centrali, alla lotta, all'estemporaneità dei fatti, senza pensare a ciò che a livello interiore questa potesse portare, ovvero alla comprensione che se è vero che certi argomenti sono difficili, a volte duri, sicuramente di difficile comprensione per un bambino o un ragazzino, questi valgono molto più di tante parole e raccomandazioni che da genitore si fanno, non tanto perché si vuole, ma perché si devono fare, perché fanno parte del ruolo del padre o della madre. Sarebbe invece stato il caso di parlare con i vostri figli di politica, o come minimo discuterne in loro presenza, far emergere le vostre preoccupazioni, i vostri disagi legati magari alle condizioni difficili sul posto di lavoro, all'essere in cassa integrazione, all'essere disoccupati.
Forse si pensa di proteggere i figli mandandoli a dormire, evitando loro i discorsi che "non devon sentire"... ma così facendo non li si protegge, ne si posticipa soltanto il momento in cui saranno carne da macello per questo sistema cannibale.
In occasione del Premio Tenco del 1997, la grande Fernanda Pivano, premiando Fabrizio De André, disse, chiudendo il suo discorso, che se effettivamente c'è una correlazione tra l'opera di De André e quella di Bob Dylan, anziché sostenere che De André sia il Dylan italiano bisognerebbe dire che è Bob Dylan ad essere il Fabrizio americano. La Pivano ha sicuramente ecceduto in campanilismo in quell'occasione, del resto Bob Dylan è emerso prima di Fabrizio, e Fabrizio ha attinto a piene mani dallo stile di Bob per i suoi album degli anni '70, perciò, se proprio si vuol far valere questo paragone, è De André ad essere il Dylan italiano. E comunque non sono totalmente d'accordo, secondo me il nostro Bob Dylan è Guccini, De André è più il nostro Cohen, come, secondo me, Bertoli è il nostro Pete Seeger.
C'è però, secondo me, un De André straniero, un artista che è "arrivato" dopo Faber e che, con il passare degli anni, ha palesato totalmente la sua vena cantautorale, prima con il suo gruppo e poi proseguendo da solo la sua strada. Ci ho messo molto tempo ad accorgermene, un po' meno ad accertarmene, ma il paragone, sia nei contenuti sia nello stile con il quale cerca di esporli (ovviamente al netto della differenza del genere musicale proposto), regge perfettamente, anche prendendo in considerazione l'estrazione sociale dei due soggetti in questione.
Sto, tanto per cambiare, parlando di Roger Waters. Tra la miriade di artisti che dall'estero sono giunti fino a noi attraverso le radio, i vinili ed i tour (per poi passare a Youtube, i cd ed i film al cinema, senza però far decadere i primi tre elementi) l'ex leader dei Pink Floyd è sicuramente quello che più può rappresentare una sorta di De André d'Oltremanica. Entrambi figli della borghesia degli anni '40, De André e Waters hanno in gioventù compiuto cammini simili, ed anche i loro primi album con i rispettivi stili (ovviamente parlando di Waters faccio riferimento alla prima produzione dei Pink Floyd) sono sia innovativi sia acerbi, con uno stile di scrittura abbastanza semplice, nel caso di Fabrizio probabilmente per riuscire a raggiungere nell'immediato gli ascoltatori e nel caso di Waters per conciliare il rock psichedelico ai testi, senza rischiare di perdere il significato ma rispettando una metrica un po' incasinata. Inoltre Waters, facendo parte di una band, doveva anche andare incontro alle esigenze degli altri componenti (e, tra l'altro, nei primissimi album dei Pink Floyd la penna principale era quella di Barrett e non la sua). Con il passare degli anni, però, gli stili dei due artisti sono cambiati e, spesso, assomigliati parecchio: l'utilizzo del concept album, la ricchezza di metafore e il linguaggio spesso criptico ma assolutamente efficace sono tutti elementi che li accomunano, e forse, proprio nei loro concept album più apprezzati e di successo (rispettivamente Storia di un impiegato e The Wall) la loro vicinanza diventa clamorosamente palese. Perché le strutture dei due album sono decisamente simili, i percorsi anche, ed anche a livello musicale, non tanto nei suoni ma nelle atmosfere che puntano a creare, ci sono grandi analogie. Penso all'ultima canzone di Storia di un impiegato, Nella mia ora di libertà, ed a Comfortably numb e le tracce seguenti: due misti di rassegnazione ma anche di speranza, di sconfitta ma anche di ricerca di riscossa, ed una chiusura che però sa anche di apertura, di un urlo silenzioso comune che fa sapere al mondo che "non finisce qui". Outside the wall è questo, come lo è l'ideale rivincita dei prigionieri nei confronti dei secondini durante l'ora di libertà.
E' però secondo me ancora più vicino a Storia di un impiegato l'ultimo disco di Waters con i Pink Floyd: The Final Cut. Un album meraviglioso ma inviso ai fans dei Pink Floyd, che lo vedono come il simbolo della fine dell'amore tra Waters, Gilmour, Mason e Wright (che già era andato via prima delle registrazioni), ma che è forse il più alto punto della storia floydiana per quanto riguarda i testi. Inoltre in quest'album Waters fa emergere totalmente e spudoratamente il suo punto di vista politico, la sua voglia di non stare più al gioco, il suo desiderio di uscire dal muro ed urlare al mondo come la pensa. Ed oltre tutto lo urla nella maniera che meglio conosce: scrivendo dei testi estremamente efficaci, cantando in modo sublime (il miglior Waters al microfono di tutta la sua carriera) e collegandosi allo stile musicale di quel The Wall uscito cinque anni prima che aveva stravolto totalmente, facendolo ampiamente evolvere, il modo di comporre e suonare dei Pink Floyd. Brani come The post war dream, Your possible pasts, The Fletcher memorial home e The final cut hanno parecchi punti di contatto con La bomba in testa, Al ballo mascherato e Verranno a chiederti del nostro amore, tanto che ci si potrebbe quasi domandare se Waters conoscesse Storia di un impiegato. E soprattutto le similitudini tra The Fletcher memorial home e Al ballo mascherato e The final cut e Verranno a chiederti del nostro amore sono lampanti e disarmanti. Perché nel primo caso, se Waters si immagina di concentrare in una singola casa tutti i capitalisti ed i potenti della terra, far loro vivere una sorta di Grande fratello (nell'orwelliana accezione) che li mostri ancora in possesso del potere e poi attuare una soluzione finale, De André concentra in una festa tutte le figure che per due millenni hanno contraddistinto e rafforzato il potere per poi farle saltare in aria; nel secondo caso, invece, ci si trova di fronte a due storie d'amore finite proprio a causa della militanza contro il potere costituito, e ci si rivolge all'oggetto dell'amore perduto con frasi estremamente simili, in alcuni casi dubbiose (in Verranno a chiederti del nostro amore il protagonista si chiede come lei lo dipingerà davanti ai microfoni, mentre in The final cut l'ipotetico io chiede alla sua lei se venderà la loro storia ai giornali), e la presa di coscienza in un certo senso che il sentimento d'amore non cesserà di esistere (sebbene in De André questo avvenga in Nella mia ora di libertà).
Waters ha poi, dopo The Final Cut, continuato, nella sua carriera da solista, a percorrere la strada dei concept album e della critica sociale; De André ha fatto la stessa cosa a più riprese, talvolta con i concept album (L'Indiano, Rimini), talvolta con dischi che presentano tracklist con un filo conduttore meno palese (Vol.8, Le Nuvole ed Anime salve). E Waters, oltre tutto, ha continuato a portare in giro il suo manifesto più grande, quel The Wall che ha riproposto a Berlino in occasione della caduta del Muro, che ha portato più volte in giro negli stadi e nei palazzetti di tutto il mondo e che da ieri ora è al cinema con il film documentario che tratta sia la storia dell'ultimo tour di The Wall sia il pensiero politico-filosofico di Waters. De André ha invece probabilmente lasciato, nel peggiore dei modi, molto lavoro in sospeso, ma fino all'ultimo ha continuato a portare il suo messaggio in giro per l'Italia, consegnandoci poi come testamento tutta la sua produzione, estremamente attuale, bella ed utile.
Per concludere, è necessaria anche una chiosa legata ad un ultimo elemento che li accomuna e che, però, non è oggettivo ma soggettivo. De André e Waters sono gli unici due artisti in grado di commuovermi, smuovermi ed emozionarmi con un'intensità disarmante, in grado di provocarmi lucciconi negli occhi sia per l'emozione legata a certi pezzi sia per lo stupore nell'ascoltare e riascoltare certe frasi che son diamanti di valore immenso ma anche, nel mondo di De André, un letame con il quale coltivare nuove idee, nuovi desideri di lotta, riscossa e ribellione.
Sicuramente non vivrò mai un concerto così intenso e ricco di emozioni come quello di Roger Waters del 28 luglio 2013 a Roma, ma sono altrettanto sicuro che soltanto un altro artista avrebbe potuto eguagliarlo. Fabrizio De André.
In un mondo sempre più ricco di apparenza e, di conseguenza, sempre più povero di sostanza, le mosche bianche, che si distinguono e riescono comunque ad emergere sono ormai poche. Questo vale in tutti gli ambiti: da quello lavorativo a quello politico, da quello amoroso a quello amicale, passando per lo sport, l'arte e la cultura. Ci vuole molto poco a creare dei prodotti ad hoc da propinare alla gente, come ci vuole poco a crearsi una maschera per apparire in modo estremamente diverso (e solitamente migliore) di fronte agli altri.
Anche in un mondo genuino come quello della musica rock non mancano i prodotti studiati a tavolino, spinti dalle case discografiche e propinati alle nuove generazioni, le quali, nei testi, non riescono più a ritrovare i messaggi che una volta contraddistinguevano quello che era il rock: oltre alla musica in sé, anche i testi puntavano a rompere con il passato, con la musica della classe borghese. Si cercava di rispolverare le radici, si cercava di trasmettere dei messaggi nuovi, di protesta, di autodeterminazione, e soprattutto di speranza. Ma il problema non è relativo soltanto alle nuove rockstar, ma ha colpito anche quelle vecchie, alcune di queste storiche, che traviate dal denaro si sono perse un po' per strada, alcune anche rimettendoci la vita. Penso agli Hendrix, ai Morrison, ma anche ad Osbourne o ai Red Hot Chili Peppers: qualcuno è morto per droga, qualcun altro perché non ha saputo reggere alla pressione, qualcun altro è arrivato al punto di bruciarsi totalmente il cervello ed a salvarsi per un pelo.
C'è invece chi da quarant'anni, facendo un percorso dal basso come gli artisti sopra citati, continua ad incarnare quello spirito rock meglio di chiunque altro. Da quarant'anni scrive d'amore, di morte, della vita di tutti i giorni, della sua patria, delle sue radici, dei problemi sociali, delle guerre e della pace. Da quarant'anni sale sui palchi di tutto il mondo per portare a migliaia e migliaia di persone il suo messaggio, armato di una voce graffiante e di una chitarra che spara note su note che arrivano dritte ai cuori. Da quarant'anni, salendo su quei palchi, si diverte, si emoziona suonando accanto ai suoi amici o a quelli che fino a qualche anno fa sembravano miti irraggiungibili. Da quarant'anni è coerente al suo essere nato operaio, figlio di uno Stato ricco di contraddizioni con le quali bisogna convivere, consci però che vanno eliminate, ed in un senso positivo anziché negativo. Da quarant'anni mostra a generazioni e generazioni di aspiranti rockstar qual è la via da seguire per essere sempre fedeli alle motivazioni con le quali per la prima volta ci si è trovati in un garage a suonare con gli amici o in camera, da soli, a scrivere canzoni accompagnandosi con una chitarra di seconda mano.
E fortunatamente alcuni artisti, più giovani di lui, hanno seguito questa strada, eleggendolo a loro guru. Mi vengono in mente i Pearl Jam, giusto per fare un esempio, o i nostri Gang, ma sono sicuro che esempi simili ce ne siano tanti altri ancora. Restano forse la minoranza, ma se oggi si può ancora dire che il rock n' roll non è morto è grazie a lui ed a pochi altri.
Quest'uomo è Bruce Springsteen, signore e signori. Quest'uomo è il Boss. Quest'uomo è il Rock. Perché del rock incarna ogni singolo elemento, del rock è uno degli esponenti più efficaci e continui, del rock è il principe indiscusso. Ed anche se ha sessantasei anni continua a far ballare migliaia e migliaia di persone per tre ore ai suoi concerti, continua a regalarci nuove perle e continua a stupirci, facendoci ancora chiedere come sia possibile che, dopo decenni di carriera, sappia ancora inventare, creare, e soprattutto donare. Certo, si è arricchito. Certo, ha fama e successo. Ma il rock, oltre ad essere uno strumento di protesta e di rottura, è anche un mezzo per l'emancipazione, l'autodeterminazione, il poter vivere grazie alla propria passione. E sono sicuro che chi lo conosce da quaranta/cinquant'anni può confermare che è rimasto lo stesso: un ragazzo innamorato della vita, innamorato della sua patria, innamorato della musica, e desideroso di vivere la prima, rendere migliore la seconda e sposare, giorno dopo giorno, la terza.
Grazie Bruce, per tutto ciò che hai fatto finora, ma soprattutto per ciò che sei e per ciò che rappresenti. E per celebrarti non potrei scegliere altra canzone se non la tua più famosa... ma in una versione un po' particolare, quella che personalmente amo di più. Buon sessantaseiesimo compleanno, giovanotto!!