giovedì 15 ottobre 2015

Giovani assopiti: il fallimento delle generazioni precedenti.






La canzone O cara moglie di Ivan Della Mea è del 1966. Una canzone ambientata nel periodo dei grandi scioperi, dei picchetti ai cancelli delle fabbriche, delle lotte tra gli operai ed i capi, ma anche tra scioperanti e crumiri. 

Era un periodo profondamente democratico, molto più democratico di quello che stiamo vivendo adesso. Perché è vero, molti diritti non erano ancora stati conquistati (o forse concessi!?), in determinati campi (libertà sessuale, libertà di scelta riguardo ad aborto e divorzio) eravamo ancora estremamente indietro, ma ai tempi valeva la legge del 50% più uno: se per un determinato diritto si mobilitava la maggioranza, che fosse a livello microsociale (un'azienda, una località) o macrosociale (lo Stato intero), questo diritto facilmente veniva conquistato. E non sono così convinto che, ai tempi, si combattesse per determinati diritti perché ci si ritrovava ridotti alla fame o perché non si riusciva a sopperire ai propri bisogni con gli status quo che sussistevano allora. Credo invece che, tra gli anni '60 e gli anni '70, c'era un senso di collettivo, di appartenenza ad una determinata classe sociale, c'era il desiderio di anteporre il bisogno di tutti a quello individuale, senza mai comunque perdere di vista la dignità del singolo individuo, cosa che invece è venuta a mancare nel momento in cui l'opportunismo, la necessità del superfluo e la prevaricazione sono entrati nella mente di tanti che fino a poco prima avevano combattuto per giuste cause. Come cantava Pietrangeli, del resto, "Se il vento fischiava ora fischia più forte, le idee di rivolta non sono mai morte,se c'è chi lo afferma non state a sentire, è uno che vuole soltanto tradire; se c'è chi lo afferma sputategli addosso, la bandiera rossa gettato ha in un fosso", e perciò, forse forse, socialisti, questi, non erano mai stati. 

Ma lasciando perdere chi ha cambiato colore man mano che è riuscito ad ottenere ciò di cui necessitava sfruttando qualsiasi mezzo a sua disposizione, vorrei soffermarmi sulla tanto paventata crisi di valori degli ultimi anni, soprattutto nella generazione che rappresento, quella dei giovani tra i venti ed i trent'anni. Noi siamo cresciuti nel ventennio berlusconiano, abbiamo avuto modo di sentire man mano, crescendo, le ripercussioni di politiche distruttive, le quali hanno minato alla base lo stato sociale, la scuola, la libertà d'informazione, la capacità di discernere tra il giusto e lo sbagliato. Siamo cresciuti nell'opulenza, e chi più chi meno abbiamo comunque assorbito un certo modo di vivere, di pensare, di agire. Tutto questo è sicuramente frutto di vent'anni di mal governo, che è però riuscito a destabilizzare così audacemente tutto ciò che poteva darci una cultura di base che siamo cresciuti sostanzialmente ignoranti, privi di reali interessi, assuefatti dalla televisione e dalle vane promesse di Silvio e soci. 

E' vero, siamo ignoranti, privi di stimoli, incapaci di agire in senso collettivo, abbiamo perso ogni contatto con le realtà di insieme: in primis quelle che riguardano i nostri comuni, le nostre regioni, poi quelle che riguardano il nostro Stato, infine quelle che riguardano il mondo intero. E' vero, ci facciamo abbindolare, dobbiamo avere paura dell'Isis, fidarci degli Stati Uniti, lodare la Germania, guardare con sospetto Grecia e Russia, ed intanto farci dare i soldi dai nostri genitori o investire buona parte dei nostri stipendi da stagisti/apprendisti per comprare il nuovo I-Phone. Siamo un gregge, non c'è dubbio. Siamo un gregge come la generazione che ci ha anticipato, quella che ora ha tra i trenta ed i quarantacinque anni: quella che si è convinta che i contratti flessibili, i part-time fossero positivi perché davano libertà di azione. Peccato che questa libertà d'azione era sempre e comunque vincolata dal datore di lavoro di turno, quindi era immaginaria; quella che si è convinta che era bello poter avere a disposizione una pay tv attraverso la quale vedere le partite, i film in prima visione esclusiva ed assoluta, senza rendersi conto che così facendo ora sui canali in chiaro non danno più niente di nuovo perché i diritti sono quasi tutti di Sky o Mediaset Premium, e magari si lamentano anche del canone Rai; quella che si è venduta in toto, lasciandosi indirizzare verso il consumo folle incentivato dalle offerte, dalle rate, dagli abbonamenti, dai leasing.

E, andando ancora a ritroso, mi chiedo dove sia la grandezza delle generazioni passate se all'unico importante compito alle quali erano state chiamate, non tanto istituzionalmente e socialmente parlando ma a livello puramente biologico, hanno fallito miseramente. Dov'è la loro esperienza? A chi è stata tramandata? Per quale motivo i loro figli non sono stati cresciuti con il culto della lotta, della protesta e del collettivo? Siamo sicuri che due genitori siano più deboli della tv e degli stimoli esterni? Siamo sicuri che se è vero che la mia generazione non ha identità, spirito di condivisione e dignità individuale, questo non sia il frutto della perdita, in primis, di tutto questo da parte di chi ci ha cresciuti? Perché è tanto facile poi, a posteriori, dire che i giovani di adesso sono annoiati, statici, apatici. Ma è così che la maggior parte di noi è stata cresciuta, è così che ci ha voluto la società, ma è anche vero che è così che i nostri genitori ci hanno voluto far diventare. Quindi, prima di innanzi tutto generalizzare e dopodiché attaccare i giovani d'oggi, sarebbe il caso di chiedersi che ruolo si ha avuto all'interno di questo meccanismo di disgregazione del pensiero collettivo e della dignità individuale, che cosa non si è fatto per evitare che ciò accadesse e quali sbagli, come individuo e come generazione che si rappresenta, si sono commessi. E poi, magari, provare a riparare, insieme, senza vedere barriere generazionali. Di barriere ora come ora ce ne sono veramente tante, troppe, ed inserire pure quelle anagrafiche mi sembra piuttosto eccessivo e, ovviamente, controproducente.

Voglio concludere spiegando il perché io abbia cominciato l'articolo citando O cara moglie di Ivan Della Mea. Ecco, questa canzone viene ricordata soprattutto per il suo valore all'interno dell'antologia delle canzoni di protesta, poiché racconta per filo e per segno uno sciopero, i conflitti con i crumiri, l'odio verso il padrone e la differenza di risultati che derivano da una lotta totale che coinvolge tutta la forza lavoro ed una lotta frammentata. Quello che però è il messaggio più importante in questa canzone è il totale stravolgimento dello scenario d'apertura quando si giunge alla fine della canzone. Perché se all'inizio il figlio deve andare a dormire "perché le cose che io ho da dire, non sono cose che deve sentire", alla fine l'operaio si rende conto dell'errore, chiede alla moglie di richiamare il figlio perché "venga a sentire, perché ha da capire che cosa vuol dire lottare per la libertà". Ecco, ecco dove AVETE sbagliato. Vi siete fermati alle strofe centrali, alla lotta, all'estemporaneità dei fatti, senza pensare a ciò che a livello interiore questa potesse portare, ovvero alla comprensione che se è vero che certi argomenti sono difficili, a volte duri, sicuramente di difficile comprensione per un bambino o un ragazzino, questi valgono molto più di tante parole e raccomandazioni che da genitore si fanno, non tanto perché si vuole, ma perché si devono fare, perché fanno parte del ruolo del padre o della madre. Sarebbe invece stato il caso di parlare con i vostri figli di politica, o come minimo discuterne in loro presenza, far emergere le vostre preoccupazioni, i vostri disagi legati magari alle condizioni difficili sul posto di lavoro, all'essere in cassa integrazione, all'essere disoccupati. 

Forse si pensa di proteggere i figli mandandoli a dormire, evitando loro i discorsi che "non devon sentire"... ma così facendo non li si protegge, ne si posticipa soltanto il momento in cui saranno carne da macello per questo sistema cannibale.





Stefano Tortelli

mercoledì 30 settembre 2015

Fabrizio De André - Roger Waters: poesia e musica al servizio della ribellione





In occasione del Premio Tenco del 1997, la grande Fernanda Pivano, premiando Fabrizio De André, disse, chiudendo il suo discorso, che se effettivamente c'è una correlazione tra l'opera di De André e quella di Bob Dylan, anziché sostenere che De André sia il Dylan italiano bisognerebbe dire che è Bob Dylan ad essere il Fabrizio americano. La Pivano ha sicuramente ecceduto in campanilismo in quell'occasione, del resto Bob Dylan è emerso prima di Fabrizio, e Fabrizio ha attinto a piene mani dallo stile di Bob per i suoi album degli anni '70, perciò, se proprio si vuol far valere questo paragone, è De André ad essere il Dylan italiano. E comunque non sono totalmente d'accordo, secondo me il nostro Bob Dylan è Guccini, De André è più il nostro Cohen, come, secondo me, Bertoli è il nostro Pete Seeger. 

C'è però, secondo me, un De André straniero, un artista che è "arrivato" dopo Faber e che, con il passare degli anni, ha palesato totalmente la sua vena cantautorale, prima con il suo gruppo e poi proseguendo da solo la sua strada. Ci ho messo molto tempo ad accorgermene, un po' meno ad accertarmene, ma il paragone, sia nei contenuti sia nello stile con il quale cerca di esporli (ovviamente al netto della differenza del genere musicale proposto), regge perfettamente, anche prendendo in considerazione l'estrazione sociale dei due soggetti in questione.
  

Sto, tanto per cambiare, parlando di Roger Waters. Tra la miriade di artisti che dall'estero sono giunti fino a noi attraverso le radio, i vinili ed i tour (per poi passare a Youtube, i cd ed i film al cinema, senza però far decadere i primi tre elementi) l'ex leader dei Pink Floyd è sicuramente quello che più può rappresentare una sorta di De André d'Oltremanica. Entrambi figli della borghesia degli anni '40, De André e Waters hanno in gioventù compiuto cammini simili, ed anche i loro primi album con i rispettivi stili (ovviamente parlando di Waters faccio riferimento alla prima produzione dei Pink Floyd) sono sia innovativi sia acerbi, con uno stile di scrittura abbastanza semplice, nel caso di Fabrizio probabilmente per riuscire a raggiungere nell'immediato gli ascoltatori e nel caso di Waters per conciliare il rock psichedelico ai testi, senza rischiare di perdere il significato ma rispettando una metrica un po' incasinata. Inoltre Waters, facendo parte di una band, doveva anche andare incontro alle esigenze degli altri componenti (e, tra l'altro, nei primissimi album dei Pink Floyd la penna principale era quella di Barrett e non la sua). Con il passare degli anni, però, gli stili dei due artisti sono cambiati e, spesso, assomigliati parecchio: l'utilizzo del concept album, la ricchezza di metafore e il linguaggio spesso criptico ma assolutamente efficace sono tutti elementi che li accomunano, e forse, proprio nei loro concept album più apprezzati e di successo (rispettivamente Storia di un impiegato e The Wall) la loro vicinanza diventa clamorosamente palese. Perché le strutture dei due album sono decisamente simili, i percorsi anche, ed anche a livello musicale, non tanto nei suoni ma nelle atmosfere che puntano a creare, ci sono grandi analogie. Penso all'ultima canzone di Storia di un impiegato, Nella mia ora di libertà, ed a Comfortably numb e le tracce seguenti: due misti di rassegnazione ma anche di speranza, di sconfitta ma anche di ricerca di riscossa, ed una chiusura che però sa anche di apertura, di un urlo silenzioso comune che fa sapere al mondo che "non finisce qui". Outside the wall è questo, come lo è l'ideale rivincita dei prigionieri nei confronti dei secondini durante l'ora di libertà. 

E' però secondo me ancora più vicino a Storia di un impiegato l'ultimo disco di Waters con i Pink Floyd: The Final Cut. Un album meraviglioso ma inviso ai fans dei Pink Floyd, che lo vedono come il simbolo della fine dell'amore tra Waters, Gilmour, Mason e Wright (che già era andato via prima delle registrazioni), ma che è forse il più alto punto della storia floydiana per quanto riguarda i testi. Inoltre in quest'album Waters fa emergere totalmente e spudoratamente il suo punto di vista politico, la sua voglia di non stare più al gioco, il suo desiderio di uscire dal muro ed urlare al mondo come la pensa. Ed oltre tutto lo urla nella maniera che meglio conosce: scrivendo dei testi estremamente efficaci, cantando in modo sublime (il miglior Waters al microfono di tutta la sua carriera) e collegandosi allo stile musicale di quel The Wall uscito cinque anni prima che aveva stravolto totalmente, facendolo ampiamente evolvere, il modo di comporre e suonare dei Pink Floyd. Brani come The post war dream, Your possible pasts, The Fletcher memorial home e The final cut hanno parecchi punti di contatto con La bomba in testa, Al ballo mascherato e Verranno a chiederti del nostro amore, tanto che ci si potrebbe quasi domandare se Waters conoscesse Storia di un impiegato. E soprattutto le similitudini tra The Fletcher memorial home e Al ballo mascherato e The final cut e Verranno a chiederti del nostro amore sono lampanti e disarmanti. Perché nel primo caso, se Waters si immagina di concentrare in una singola casa tutti i capitalisti ed i potenti della terra, far loro vivere una sorta di Grande fratello (nell'orwelliana accezione) che li mostri ancora in possesso del potere e poi attuare una soluzione finale, De André concentra in una festa tutte le figure che per due millenni hanno contraddistinto e rafforzato il potere per poi farle saltare in aria; nel secondo caso, invece, ci si trova di fronte a due storie d'amore finite proprio a causa della militanza contro il potere costituito, e ci si rivolge all'oggetto dell'amore perduto con frasi estremamente simili, in alcuni casi dubbiose (in Verranno a chiederti del nostro amore il protagonista si chiede come lei lo dipingerà davanti ai microfoni, mentre in The final cut l'ipotetico io chiede alla sua lei se venderà la loro storia ai giornali), e la presa di coscienza in un certo senso che il sentimento d'amore non cesserà di esistere (sebbene in De André questo avvenga in Nella mia ora di libertà).

Waters ha poi, dopo The Final Cut, continuato, nella sua carriera da solista, a percorrere la strada dei concept album e della critica sociale; De André ha fatto la stessa cosa a più riprese, talvolta con i concept album (L'Indiano, Rimini), talvolta con dischi che presentano tracklist con un filo conduttore meno palese (Vol.8, Le Nuvole ed Anime salve). E Waters, oltre tutto, ha continuato a portare in giro il suo manifesto più grande, quel The Wall che ha riproposto a Berlino in occasione della caduta del Muro, che ha portato più volte in giro negli stadi e nei palazzetti di tutto il mondo e che da ieri ora è al cinema con il film documentario che tratta sia la storia dell'ultimo tour di The Wall sia il pensiero politico-filosofico di Waters. De André ha invece probabilmente lasciato, nel peggiore dei modi, molto lavoro in sospeso, ma fino all'ultimo ha continuato a portare il suo messaggio in giro per l'Italia, consegnandoci poi come testamento tutta la sua produzione, estremamente attuale, bella ed utile. 

Per concludere, è necessaria anche una chiosa legata ad un ultimo elemento che li accomuna e che, però, non è oggettivo ma soggettivo. De André e Waters sono gli unici due artisti in grado di commuovermi, smuovermi ed emozionarmi con un'intensità disarmante, in grado di provocarmi lucciconi negli occhi sia per l'emozione legata a certi pezzi sia per lo stupore nell'ascoltare e riascoltare certe frasi che son diamanti di valore immenso ma anche, nel mondo di De André, un letame con il quale coltivare nuove idee, nuovi desideri di lotta, riscossa e ribellione. 

Sicuramente non vivrò mai un concerto così intenso e ricco di emozioni come quello di Roger Waters del 28 luglio 2013 a Roma, ma sono altrettanto sicuro che soltanto un altro artista avrebbe potuto eguagliarlo. Fabrizio De André.




giovedì 24 settembre 2015

Bruce Springsteen: Il Rock.




In un mondo sempre più ricco di apparenza e, di conseguenza, sempre più povero di sostanza, le mosche bianche, che si distinguono e riescono comunque ad emergere sono ormai poche. Questo vale in tutti gli ambiti: da quello lavorativo a quello politico, da quello amoroso a quello amicale, passando per lo sport, l'arte e la cultura. Ci vuole molto poco a creare dei prodotti ad hoc da propinare alla gente, come ci vuole poco a crearsi una maschera per apparire in modo estremamente diverso (e solitamente migliore) di fronte agli altri. 

Anche in un mondo genuino come quello della musica rock non mancano i prodotti studiati a tavolino, spinti dalle case discografiche e propinati alle nuove generazioni, le quali, nei testi, non riescono più a ritrovare i messaggi che una volta contraddistinguevano quello che era il rock: oltre alla musica in sé, anche i testi puntavano a rompere con il passato, con la musica della classe borghese. Si cercava di rispolverare le radici, si cercava di trasmettere dei messaggi nuovi, di protesta, di autodeterminazione, e soprattutto di speranza. Ma il problema non è relativo soltanto alle nuove rockstar, ma ha colpito anche quelle vecchie, alcune di queste storiche, che traviate dal denaro si sono perse un po' per strada, alcune anche rimettendoci la vita. Penso agli Hendrix, ai Morrison, ma anche ad Osbourne o ai Red Hot Chili Peppers: qualcuno è morto per droga, qualcun altro perché non ha saputo reggere alla pressione, qualcun altro è arrivato al punto di bruciarsi totalmente il cervello ed a salvarsi per un pelo. 

C'è invece chi da quarant'anni, facendo un percorso dal basso come gli artisti sopra citati, continua ad incarnare quello spirito rock meglio di chiunque altro. Da quarant'anni scrive d'amore, di morte, della vita di tutti i giorni, della sua patria, delle sue radici, dei problemi sociali, delle guerre e della pace. Da quarant'anni sale sui palchi di tutto il mondo per portare a migliaia e migliaia di persone il suo messaggio, armato di una voce graffiante e di una chitarra che spara note su note che arrivano dritte ai cuori. Da quarant'anni, salendo su quei palchi, si diverte, si emoziona suonando accanto ai suoi amici o a quelli che fino a qualche anno fa sembravano miti irraggiungibili. Da quarant'anni è coerente al suo essere nato operaio, figlio di uno Stato ricco di contraddizioni con le quali bisogna convivere, consci però che vanno eliminate, ed in un senso positivo anziché negativo. Da quarant'anni mostra a generazioni e generazioni di aspiranti rockstar qual è la via da seguire per essere sempre fedeli alle motivazioni con le quali per la prima volta ci si è trovati in un garage a suonare con gli amici o in camera, da soli, a scrivere canzoni accompagnandosi con una chitarra di seconda mano. 

E fortunatamente alcuni artisti, più giovani di lui, hanno seguito questa strada, eleggendolo a loro guru. Mi vengono in mente i Pearl Jam, giusto per fare un esempio, o i nostri Gang, ma sono sicuro che esempi simili ce ne siano tanti altri ancora. Restano forse la minoranza, ma se oggi si può ancora dire che il rock n' roll non è morto è grazie a lui ed a pochi altri. 

Quest'uomo è Bruce Springsteen, signore e signori. Quest'uomo è il Boss. Quest'uomo è il Rock. Perché del rock incarna ogni singolo elemento, del rock è uno degli esponenti più efficaci e continui, del rock è il principe indiscusso. Ed anche se ha sessantasei anni continua a far ballare migliaia e migliaia di persone per tre ore ai suoi concerti, continua a regalarci nuove perle e continua a stupirci, facendoci ancora chiedere come sia possibile che, dopo decenni di carriera, sappia ancora inventare, creare, e soprattutto donare. Certo, si è arricchito. Certo, ha fama e successo. Ma il rock, oltre ad essere uno strumento di protesta e di rottura, è anche un mezzo per l'emancipazione, l'autodeterminazione, il poter vivere grazie alla propria passione. E sono sicuro che chi lo conosce da quaranta/cinquant'anni può confermare che è rimasto lo stesso: un ragazzo innamorato della vita, innamorato della sua patria, innamorato della musica, e desideroso di vivere la prima, rendere migliore la seconda e sposare, giorno dopo giorno, la terza. 

Grazie Bruce, per tutto ciò che hai fatto finora, ma soprattutto per ciò che sei e per ciò che rappresenti. E per celebrarti non potrei scegliere altra canzone se non la tua più famosa... ma in una versione un po' particolare, quella che personalmente amo di più. Buon sessantaseiesimo compleanno, giovanotto!! 



martedì 22 settembre 2015

Col fuoco e col vento




Col fuoco e col vento


Stanno costruendo muri in tutto il mondo,
banconota su banconota, 
per proteggere i loro castelli di carta,
cercando di convincerci con falsi proclami
stampati a caratteri cubitali sulle pagine dei giornali.

Le loro maschere di cera compaiono nei nostri schermi,
le loro parole vuote riecheggiano nelle radio,
vogliono circondarci per farci sentire sicuri,
dicendo che il nemico è dall'altra parte
ed intanto affilano i loro denti assetati.

Siamo noi il loro pasto prelibato,
noi che siamo chiusi nella loro tana:
d'oro le mura, di diamanti il soffitto,
delle nostre paure le fondamenta.
E' pronta la cena, tutti a tavola.

Ma noi siamo tanti, le loro bocche sono poche
ed al di là delle mura si sente parlare la nostra stessa lingua.
Il nemico non è alle porte, il nemico ha le chiavi.
Si addormenterà, gliele prenderemo.
Ed aprendo la porta ci specchieremo nei visi dei liberatori.

Ed allora soffierà il vento che spazzerà via le falsità,
ed allora divamperà il fuoco che brucerà i muri a nove zeri,
ed allora crollerà il castello,
privato delle sue fondamenta.

Perché non avremo più paura.


Stefano Tortelli

martedì 18 agosto 2015

La seconda guerra mondiale in musica: "Un biglietto del tram" degli Stormy Six





Ieri sono tornato in Piemonte, tra i campi di granturco, dopo aver passato qualche giorno in Toscana tra i castagni. In Garfagnana, tra le colline delle Alpi Apuane, ritrovo le mie radici, forti e vive come quelle dei vecchi castagni che rigogliosi crescono nei boschi che circondano il piccolo borgo nel quale la mia famiglia paterna è nata e cresciuta, sebbene mia nonna e mio nonno si innamorarono a Torino per via di numerose coincidenze, ma questa è un'altra storia...

Casatico, frazione di Camporgiano, è all'incirca a metà strada tra Lucca ed Aulla: ad ovest la Lunigiana, a sud-est la Versilia. Al centro la Garfagnana. Ed a pochi chilometri, in una direzione o nell'altra, ci sono alcuni luoghi che sono diventati tristemente famosi ai tempi della Linea gotica, Stazzema e Vinca su tutti. Ma se la prima località è più o meno conosciuta da tutti, a causa del film di Spike Lee e delle celebrazioni che almeno fino a qualche anno fa hanno avuto una forte cassa di risonanza a livello mediatico (a ragion veduta, dato che vennero massacrate e violentate cinquecentosessanta persone, di cui 130 bambini, dalle SS che stavano ripiegando verso nord), Vinca è pressoché sconosciuta alla maggior parte delle persone. E c'è modo e modo per avere modo di conoscere una nuova storia: c'è chi sfoglia enciclopedie alternative, chi si affida a siti internet di settore, chi ai film.. io, nonostante abbia le mie radici a circa quaranta chilometri da Vinca, ho conosciuto i fatti del 24 agosto 1944 grazie all'album che meglio di tutti racconta la storia della seconda guerra mondiale: Un biglietto del tram degli Stormy Six. 

Un biglietto del tram è il classico album progressive italiano: un concept, che segue un filo conduttore il quale lega storie, luoghi, ma soprattutto testi e musiche. Nonostante manchi un tema musicale ricorrente nelle diverse tracce, il fatto che l'album in questione sia un concept è facilmente intuibile dai titoli delle canzoni: sono nomi di persone, di località e di realtà che hanno avuto una valenza enorme durante la seconda guerra mondiale, ed in particolare durante la resistenza europea al nazi-fascismo: Dante Di Nanni e Gianfranco Mattei, Stalingrado e Vinca, la fabbrica ed il tram che porta a Piazzale Loreto. Come ogni storia, Un biglietto del tram ha un inizio, uno svolgimento ed una fine. E l'inizio è ad appannaggio di due canzoni che in realtà danno vita ad una suite: questo perché si è voluto dare una continuità, un senso di unità, di correlazione, di un unico inizio benché collocato in due nazioni e due realtà ben diverse. Perché abbiamo nella prima parte il racconto dell'assedio spezzato di Stalingrado, la vittoria dell'Armata Rossa contro il contingente nazi-fascista inviato in Russia, l'inizio della fine dei regimi di estrema destra; mentre nella seconda parte è raccontato l'inizio della Resistenza: prima del governo Badoglio, prima dell'Armistizio, prima della corsa alle montagne e della nascita delle Brigate di Liberazione, la resistenza ha cominciato a fermentare nelle fabbriche, grazie agli scioperi di Torino, Milano, Genova e di tutte le grandi città italiane. Ed infatti gli ultimi versi di Stalingrado, prima dello strumentale atto a legare la prima canzone a La fabbrica, recitano "Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa, d'ora in poi troverà Stalingrado in ogni città". E le nostre prime Stalingrado furono proprio nelle grandi città industriali del nord-Italia, e famoso (e citato nella seconda canzone) è lo sciopero alla FIAT di Torino, quando centinaia di migliaia di lavoratori scioperarono e si rivoltarono alle camicie nere mandate a reprimere i manifestanti. "E come a Stalingrado i nazisti son crollati, alla preda rossa in sciopero i fascisti son crollati"...

A scombinare però i piani della Resistenza, dei liberatori della patria, fu l'invasione del Sud Italia degli anglo-americani. La loro descrizione lascia ben poco all'immaginazione: la vana speranza di liberazione dal nazi-fascismo, la falsa promessa di una rinascita dell'Italia intera è racchiusa in tavolette di cioccolato che hanno solo il sapore di libertà. Ma la verità è Anzio, è l'Abbazia di Montecassino, è la non volontà di interferire troppo con i partner economici italo-tedeschi frenando l'avanzata e permettendo ai nazisti di riprendere Roma... Perché ok liberare l'Italia, ma prima lasciamo che i nazi-fascisti facciano fuori un po' di comunisti, che non si sa mai...

Arriva l'8 settembre, lo scenario politico nazionale cambia totalmente, ma ciò che è allucinante è che non solo l'Italia è divisa in due tra fascisti e partigiani. Ad essere divisi tra fascisti e partigiani sono tutti i comuni e tutte le città d'Italia, tanto da dar vita a scontri fratricidi, a faide, a rappresaglie spesso dettate non da motivi politici ma da motivi personali. Da una parte e dall'altra. Perché come c'erano camicie nere buone (ma sicuramente un po' ingenue), c'erano anche partigiani che volevano approfittare della situazione caotica per perseguire i propri interessi. 

E quindi eccoci a Vinca, ad una delle tante rappresaglie dei nazi-fascisti contro i partigiani, ad uno di quegli eccidi che sono passati alla storia per la loro efferatezza, per la loro crudeltà. "Fanno tiro a segno, cani macellai, ma che bella mira, non la sbaglian mai, non la sbaglian mai". Funzionava così nel biennio '43-'45: i partigiani combattevano per la libertà, si rifugiavano nei boschi per non mettere in pericolo le famiglie, ma c'era sempre qualche fascista pronto a dire chi era nella brigata e dove vivevano i suoi figli, e subito le SS o i fascisti arrivavano per la rappresaglia. Dieci a uno, se andava bene... a Vinca morirono in 170 per l'assalto ad un camion... 

I luoghi spesso diventano famosi in base a chi vi è nato, vissuto, morto: Vinci non sarebbe che uno dei tanti paesi della Toscana non fosse stato per Leonardo... Borgo San Paolo ha un'eco particolare per i cultori della Resistenza grazie a Dante Di Nanni, del quale ampiamente parlai in un mio post precedente (accompagnato oltre tutto dalla canzone di quest'album). A lui è stata dedicata questa canzone, di lui è raccontata la storia, ma sostanzialmente nella figura di Dante Di Nanni è racchiusa l'essenza di ogni partigiano comunista morto per la libertà, per la propria patria. Ogni singolo partigiano caduto non è caduto invano, ogni partigiano morto non è morto veramente, perché nel suo sacrificio, nell'esempio che ha dato ad altri giovani in Italia e nel mondo (la nostra Resistenza è invidiata da tutti gli Stati che hanno conosciuto l'egemonia fascista, in Europa e non solo...)  risiede il suo essere immortale, il suo essere ancora presente per le strade dei luoghi che l'han visto lottare, vivere, resistere e morire in nome della nostra libertà. 

La seconda figura raccontata è quella di Gianfranco Mattei, ebreo e comunista, professore di chimica che diede appoggio alle brigate partigiane romane prima come fabbricante di ordigni esplosivi ed in seguito come esecutore materiale di azioni contro i nazi-fascisti. E non è un pezzo superfluo all'interno dell'album, non va a creare una rottura nella linea narrativa, perché descrive una particolare figura di partigiano. Se Dante Di Nanni era un giovane operaio, Gianfranco Mattei era un professore universitario affermato; se Dante Di Nanni era figlio del proletariato immigrato, Gianfranco Mattei era figlio della borghesia romana ed ebrea. Ma il suo essere di una classe sociale superiore non gli ha impedito di prendere parte alla resistenza: le idee, ed in questo caso il voler proteggere la propria identità religiosa, l'hanno portato ad essere idealmente al fianco di Dante Di Nanni. Due diverse culture, due diverse estrazioni, due diverse città: lo stesso destino, la stessa immortalità. 

Arriva il 25 aprile, l'Italia è libera. Tra macerie e festeggiamenti giunge anche l'ora di dover seppellire i propri morti, e ciò rende la gioia non totalmente completa. Da una parte e dall'altra della barricata è tempo di ricostruire, ma anche di scavare, di dar degna sepoltura ai cari periti durante gli scontri. Camicie nere o fazzoletti rossi il dolore è lo stesso e parla italiano. Non tedesco, non inglese. Italiano. E si fa un salto in avanti, si arriva all'illusione degli anni '60, al boom economico che sembra far dimenticare ciò che fu soltanto vent'anni prima. Ma è per l'appunto un'illusione perché i fascisti ci sono ancora, Ordine Nuovo e compagnia bella fanno saltare in aria banche, treni e stazioni, anarchici e comunisti vengono uccisi o "suicidati"... ma è il boom economico, si sta bene, il dolore è solo un ricordo che deve rimanere sotto terra... 

Un biglietto del tram, album del 1975, finisce con l'omonima canzone che fa riferimento al "suo" presente. La gente è distratta, pensa alla quotidianità, ma l'Italia è comunque in subbuglio, perché oltre alla crescita economica c'è anche il fermento delle proteste, delle manifestazioni. Sono gli anni di piombo, è il periodo in cui diventano famosi i celerini, e sebbene in tanti non vogliono ricordare ci sono luoghi, simboli che devono rievocare nella mente delle persone un passato che sebbene può sembrare remoto ha ancora i suoi strascichi nel presente. Il brano è ambientato a Milano, ed il biglietto del tram serve per andare a Piazzale Loreto: di Piazzale Loreto ci viene soltanto raccontato "quello" della fine di aprile del 1945, quando Mussolini e la Petacci vennero esposti a testa in giù insieme ai cadaveri di altri gerarchi nazisti... ma non ci viene raccontata tutta la storia, le radici di questo comunque ignobile gesto, che di per sé è una rappresaglia all'oltraggio che un anno prima venne perpetrato ai cadaveri di diversi partigiani lasciati legati per i piedi nello stesso luogo per più giorni, come monito ai compagni dei caduti... Ecco perché Piazzale Loreto è la destinazione, la fine della storia della Seconda Guerra Mondiale raccontataci dagli Stormy Six: a Piazzale Loreto prima si era cercato di spezzare le ali alla resistenza e poi, benché in un modo piuttosto discutibile, mostrata la fine dell'incubo.

Un biglietto del tram degli Stormy Six è un album che racconta molte storie: alcune di queste vanno di diritto in quella che Marino Severini dei Gang ama definire l'epica della Resistenza, altre si collocano nell'ambito delle canzoni a tema storico, altre ancora hanno avuto lo scopo di raccontare ai contemporanei che di lavoro da fare ce n'era ancora molto. L'album intero va invece di diritto in quella raccolta di dischi estremamente utili a ridestare le coscienze, a smuoverle ed a portarle ad agire, mostrando come per cominciare a resistere non bisogna aspettare l'ultimo momento, mostrando come per cominciare a resistere bisogna sapersi organizzare, riuscire a pianificare, agire. E soprattutto porta a ricordare che gli anni tra il 1940 ed il 1945 sono lontani solo qualche decennio: tre o sette non fa differenza. Sono dietro l'angolo, sono storia di ieri. 




Stefano Tortelli




mercoledì 22 luglio 2015

La piccola storia ignobile della ragazza della Fortezza




Provo a buttare giù due righe riguardo la sentenza di secondo grado riguardante lo “stupro della Fortezza”, avvenuto a Firenze nel 2008. Sto ascoltando Guccini, l’album Via Paolo Fabbri 43, che si apre con la canzone Piccola storia ignobile: argomento della canzone è l’aborto, la libertà sessuale ancora non totalmente conquistata per le donne, che ad inizio anni ’70 ricoprivano ancora il ruolo di mere riproduttrici o intrattenitrici del partner. E non importava che questo fosse il marito, il fidanzato, l’amante, il tizio di turno o il cliente. Tu, donna, non avevi diritto all’orgasmo. Tu, donna, non avevi diritto a provare piacere. Il piacere era appannaggio dell’uomo. E se qualcosa andava storto, se rimanevi incinta, beh, i problemi erano tutti tuoi.

E la sentenza emanata pochi giorni fa, dopo sette anni, ci riporta indietro, ci riporta a quell’epoca. Perché questa ragazza non solo non è stata ripagata dalla giustizia della violenza della quale è stata vittima, non solo i sette ragazzi sono stati assolti e non saranno più perseguiti, ma addirittura nella motivazione della sentenza a salire sul banco degli imputati, in sostanza, è lei. 

Tu, ragazza, hai subito violenza, il referto medico lo riporta, ma eri ubriaca, quindi te la sei cercata. 
Tu, ragazza, hai subito violenza, il referto medico lo riporta, ma hai in passato avuto facili costumi, e quindi, sostanzialmente, te la sei cercata, e magari ti è pure piaciuto. 
Tu, ragazza, hai subito violenza, il referto medico lo riporta, ma forse eri consenziente e giusto per nascondere un tuo attimo di debolezza, dato che eri fidanzata ai tempi, hai cercato di scaricare la tua colpa su qualcun altro. 
Tu, ragazza, hai subito violenza, il referto medico lo riporta, ma ti sei ripresa in fretta, già dopo tre anni su Facebook postavi foto in cui sorridevi, quindi tutto sommato questa cosa non ti ha segnato, e per cui ti sarà sicuramente piaciuto. 
Tu, ragazza, hai subito violenza, il referto medico lo riporta, ma vedi, dici di essere bisessuale, e quindi a voi che avete gusti “strani” vi va sicuramente bene tutto, e che ci sarà mai di male? Per l’appunto te la sei cercata.

Questa è la sentenza, e questo è ciò che pensa tanta gente di questa ragazza. Ma ecco, questa gente che pensa ciò della ragazza in questione è composta dalle seguenti categorie: uomini, bigotti e frustrate. Aveva bevuto, sì. Aveva avuto un passato fatto di relazioni occasionali ed incontri omosessuali, sì. E quindi? Di ragazze bisessuali o che sono o sono state libertine ne ho conosciute e ne conosco, di ragazze che bevendo un bicchiere di più sono meno inibite e più facili ne conosco, ma mai ho pensato da solo, men che meno con i miei amici, di prenderle, sbatterle in una macchina ed avere un rapporto con loro. E comunque non è questo il discorso: c’è un referto medico, c’è scritto che è stata violentata, e non ha importanza se la violenza è cominciata subito o nel mentre, quando magari si è resa conto, quando stava magari rinsavendo. Non ha un cazzo d’importanza! Se c’è stato un no, e se quindi da quel momento è cominciata la violenza, allora è stupro. Le attenuanti, le stronzate portate avanti prima dai difensori e poi accolte dal giudice non contano niente. Perché è stupro anche se è tua moglie o la tua ragazza una sera a dirti di no e tu pretendi un rapporto, è stupro anche se la donna in questione è una prostituta alla quale non vuoi pagare il conto. Stupro è stupro, punto e basta. 

Tra chi da addosso alla ragazza, come dicevo prima, vi sono uomini, frustrate e bigotti. Ecco, ora pensate se al posto di sei ragazzi facoltosi di Firenze più un brasiliano (già assolto in primo grado) ci fossero stati dei figli di operai o, ancor peggio, degli immigrati, magari extracomunitari, magari clandestini. Apriti cielo, sarebbe partita la nuova crociata di Lega e Fratelli d’Italia, si sarebbe fomentato odio verso i soliti, e questa ragazza sarebbe stata una martire.

Qui invece abbiamo dei giovani rampolli della Firenze da Bene, e quindi… quindi oh, se l’è cercata sta puttanella bisessuale, e ora son solo fatti suoi. Ha cercato di suicidarsi più volte, è stata in depressione per anni, ma oh, in quella foto su Facebook sorrideva, ciò fa di lei una troia. 

Va beh, è tardi, L’avvelenata sta in parte condizionando il mio modo di scrivere, ma ecco, queste cose sono veramente assurde. Un consiglio alle ragazze che in passato hanno sperimentato relazioni omosessuali o sono state di "facili costumi" (e magari ora sono felicemente e fedelmente legate ad un solo uomo): se venite stuprate, non cercate di ricostruirvi una vita, non cercate di andare oltre, e soprattutto non mostratevi nuovamente forti, perché non siete credibili già per il vostro passato, figuriamoci se trovate la forza di risorgere; e comunque non fatevi stuprare da gente con i soldi, scegliete i figli di disoccupati, o di operai, o ancor meglio di stranieri, a quel punto forse potete avere la giustizia che vi meritate. Per le ragazze “moralmente impeccabili”, invece, l’unico consiglio è avere dei testimoni, perché comunque non dimenticatevi che siete donne, e quindi, tutto sommato, non vi crede nessuno, la vostra parola è niente.



"Ma che piccola storia ignobile sei venuta a raccontarmi
non vedo proprio cosa posso fare
dirti qualche frase usata per provare a consolarti
o dirti: "è fatta ormai, non ci pensare"
è una cosa che non serve a una canzone di successo
non vale due colonne sul giornale
se tu te la sei voluta cosa vuoi mai farci adesso
e i politici han ben altro a cui pensare
e i politici han ben altro a cui pensare
e i politici han ben altro a cui pensare"





Stefano Tortelli

martedì 21 luglio 2015

Soruç: sorrisi indelebili e frontiere cancellate






Roma, la nostra capitale, e Suruç sono divise da cinque ore e mezza di aereo e tremila chilometri in linea d'aria. Senza scali, senza tappe intermedie, nel giro di un pomeriggio si può arrivare dall'Italia alla frontiera tra Turchia e Siria, laddove veramente esiste una resistenza all'Isis, a quest'evoluzione di Al Qaeda nata in Iraq e poi diffusasi in buona parte del Medio Oriente islamico. Credo sia importante sottolineare l'origine dell'Isis, il suo essere figlia di Al Qaeda, quell'Al Qaeda che tanto terrorizzava l'occidente quindici anni fa e che a New York nel 2001, il probabile suo coinvolgimento a Madrid nel 2004 ed a Londra nel 2005. E le origini di Al Qaeda ormai ben si conoscono: alla fine degli anni '80 la CIA assoldò ed armò migliaia di mujahidin per contrastare l'Unione Sovietica in particolari zone strategiche come l'Iraq, il Kuwuait e l'Afghanistan, in seguito all'invasione da parte dei sovietici di quest'ultimo Stato; al database che raccoglieva i dati di questi mujahidin venne dato il nome Al-Qaeda, che per l'appunto in lingua araba è il corrispondente di database stesso. Crollata l'Urss, respinta l'invasione, queste armi rimasero in mano agli arabi, talvolta organizzati in gruppi paramilitari, talvolta affiliati ad eserciti regolari. Fatto sta che il resto è storia: Prima guerra del Golfo dopo l'invasione del Kuwuait da parte di Saddam Hussein, guerra in Afghanistan dopo l'attentato alle Torri Gemelle, seconda guerra del Golfo nel 2003. Gli statunitensi si son trovati in questi conflitti a combattere con armi che il proprio governo aveva fornito non più di vent'anni prima a quelli che ora erano i loro nemici, ma non c'è da stupirsi, non è stata la prima volta e non sarà nemmeno l'ultima. Del resto, durante la seconda guerra mondiale, mentre i caccia americani cominciavano ad intraprendere battaglie aeree contro gli aerei nazisti, le compagnie petrolifere stringevano accordi con Berlino per fornire loro il petrolio necessario ad alimentare l'aviazione tedesca: due bandiere differenti sulle fusiolere, stesso carburante nei serbatoi. Niente di nuovo sul fronte a stelle e strisce.

L'Isis, come Al Qaeda, in quanto creazioni degli Stati Uniti, nonostante i grandi proclami e le continue denunce nei confronti delle atrocità commesse dai terroristi prima e dallo Stato Islamico poi, non verrà ostacolato dall'Occidente, almeno fino a quando l'Occidente stesso non ne verrà toccato. E non tanto perché alle grandi potenze del mondo interessi l'incolumità dei loro cittadini, ma più che altro perché a quel punto comincerebbe a non sussistere più un unione di interessi tra quelli che diventerebbero, a quel punto, i due schieramenti. Ed allora chi può fermare l'avanzata di questo esercito? Torniamo così alla frontiera tra Turchia e Siria, in quel punto in cui termina definitivamente l'Europa e comincia l'Asia Minore. Al di là della frontiera, in Siria, i combattimenti sono duri, l'Isis è spietato, la resistenza è difficile. Ed a coprire il ruolo principale nella resistenza allo Stato Islamico sono i curdi, i quali rappresentano il 5% della popolazione siriana e che a fine giugno hanno riconquistato Kobane, città poco distante dalla frontiera turco-siriana. Ma i curdi sono osteggiati per più motivi: sono una minoranza religiosa, sono una minoranza della popolazione... e sono prevalentemente socialisti. Tanto che il capo del governo turco, Erdogan, sarebbe più propenso di avere oltre la frontiera il Califfato piuttosto che uno Stato autonomo curdo. Questione di priorità, questione di interessi. 

Ed è così che si arriva a ieri, al 20 luglio, all'attentato kamikaze ai danni di un raduno di socialisti curdi a Soruç e che ha causato la morte di trentadue ragazzi ed il ferimento di un altro centinaio. Erano ragazzi, ragazzi come me, ragazzi con il sorriso sulle labbra e la consapevolezza che per garantire l'incolumità di migliaia, milioni di persone, bisognava mettere a repentaglio la propria. Sarebbero infatti presto partiti per la Siria, avrebbero valicato la frontiera, sarebbero giunti in un territorio che da amico poteva diventare nemico da un momento all'altro, ed il loro scopo era poterlo rendere amico definitivamente, dando supporto alla resistenza, sospinti dalle loro idee di libertà ed uguaglianza. Ma di fatto, in Turchia, si trovavano già in territorio nemico, o meglio il nemico era riuscito ad avvicinarsi a loro. Troppo. E poco è stato fatto per garantire la loro incolumità. Del resto se Erdogan non vuole uno stato curdo oltre la frontiera, beh, meglio prevenire che curare... 

E così, in nome dei benifici di poco a discapito della maggior parte degli abitanti di questo pianeta, altri giovani volenterosi e dalle belle speranze sono morti perché desideravano la libertà. Avevano sui vent'anni, come i nostri partigiani della Resistenza, come i ragazzi di tutta Europa che durante la Guerra civile in Spagna si unirono contro Franco. Ma a noi europei tutto sembra molto distante: e se non è il tempo a farci sembrare un avvenimento qualcosa di lontano, distaccato, allora è la distanza geografica a portarci a pensare che questa è una guerra che non ci tocca.

Ma in una realtà globalizzata come la nostra le distanze non esistono più.. La memoria hanno cercato di disintegrarla, ma abbattendo anche le distanze ora tutto il mondo è Paese. La frontiera tra Turchia e Siria, quella frontiera che ha visto da vicino morire trentadue giovani socialisti curdi è soltanto un'invenzione, una barriera che vuol far credere che da una parte c'è X e dall'altra c'è Y, e che quindi dove c'è X vige il potere di X e dove c'è Y vige il potere di Y. Ma la realtà è molto più contorta, ed allo stesso tempo molto più semplice. La realtà vede i fondamentalismi, i poteri reazionari e quelli capitalistici da una parte, e dall'altra... dall'altra ci dovremmo essere noi, tutti noi.

Tremila chilometri, cinque ore e mezza. Roma-Soruç. E' come dire ad un romano che a Torino sono morti trentadue ragazzi, uccisi perché socialisti e con idee diverse da chi li ha voluti morti. Le distanze son diverse, ma il tempo no. E del resto anche la Siria si affaccia sul Mar Mediterraneo, il Mare Nostrum, perciò volerla vedere distante è come non avere coscienza di che posto occupiamo nel mondo. 

Per ricordare i compagni curdi non posso che ripensare alla canzone degli Area intitolata Luglio, Agosto, Settembre (nero). Ai tempi fu dedicata alla resistenza palestinese nei confronti di Israele, ma credo che oggi si possa tranquillamente ascoltare pensando a quei ventisette ragazzi, a quei sorrisi, a quel desiderio di libertà, di pace, di giustizia, di uguaglianza. 



Stefano Tortelli

domenica 19 luglio 2015

Razzismo: la paura di vedere il proprio futuro in faccia





Per combattere un nemico bisogna conoscerlo, e conoscerlo bene. E' necessario entrare nella sua psiche, comprendere al meglio i suoi pensieri, tentare di ragionare come lui, capire cosa lo spaventa, cosa lo emoziona, ed infine combatterlo, avendo così buone chance per sconfiggerlo. Perché se ancora non è chiaro, cari miei, siamo in guerra: una guerra psicologica, una guerra di emozioni, di consensi, di mal di pancia, che talvolta, come a Roma e Treviso, sfocia in guerra fisica. Leggo e sento pareri discordanti riguardanti ogni cosa che avviene attorno a noi, ed il concetto di "attorno a noi" è esteso al mondo intero, e non solo al nostro paese, al nostro quartiere, alla nostra città, alla nostra nazione. L'avete voluta la globalizzazione, l'avete voluto il libero mercato? Bene, allora anche la vostra mente dovrebbe agire senza frontiere. E le frontiere più difficili da abbattere sono innanzi tutto quelle dell'Io, perché alla fine ogni azione che svolgiamo, a livello individuale o collettivo, è figlia di un impulso egoistico da soddisfare. 

C'è chi si ascolta un disco, chi va ad un concerto con gli amici, chi partecipa ad una manifestazione, chi si prende cura degli animali, chi si "accontenta" di fare l'amore tutto il giorno con la persona che ama o di passare la giornata insieme ai figli in un parco o a legger loro storie... e poi ci sono quelli che credono che il loro obiettivo sia combattere il diverso, lo straniero, il differente. Lo combattono a parole, lo combattono sbraitando su facebook o parlando con i propri conoscenti, e per molti è sufficiente questo: si liberano, si sentono appagati, hanno dato sfogo alle loro voglie (di ben più bassa lega di quelle di Bocca di rosa, ma ragazzi, degustibus!!). E poi c'è chi passa al livello successivo, dando fuoco ai letti dei profughi o insultando diciannove disperati che null'altro chiedono che un posto dove dormire e qualcosa da mangiare.

Un posto dove dormire, qualcosa da mangiare. Molti di loro argomentano che di sto passo arriveremo anche noi a quel punto, a non saper più dove dormire, a non aver più nulla da mangiare, a non poter più soddisfare i propri bisogni primari. Hanno ragione. Il problema però è un altro. Innanzi tutto i bisogni primari dell'uomo medio occidentale sono molti di più che mangiare e dormire, e ben pochi di questi sono funzionali ad un progetto a medio-lungo termine. "Cazzo, mi han tagliato lo stipendio, ora mi tocca scegliere tra fare l'abbonamento a Sky o quello ad Internet"; "Ora che non posso più fare gli straordinari sarà difficile riuscire ad andare in vacanza in Egitto quest'anno"; "Ma guarda te, io non posso permettermi una casa più grande ed a QUELLI danno una camera d'albergo, che vergogna!!": questi sono i bisogni primari della gente che si lamenta degli stranieri.. e come dar loro torto, dico io!! Solo che la responsabilità di tutto ciò che sta accadendo alla classe media europea non è causato dagli immigrati, bensì da chi prima l'ha abituata a questo stile di vita, ovvero quello del superfluo, e poi pian piano le sta togliendo tutto. Ma prima di toglierle queste cose veramente superflue le ha tolto tutto il resto, a partire dall'autodeterminazione, dalla coscienza di se stesso, dalla capacità di vedere oltre il dopodomani. E' chi sta sopra alla classe media che la sta fregando, non chi sta sotto o, tutt'al più, alla pari. Non è il compagno di lavoro il nemico, non è la vicina di casa immigrata, non è il vagabondo alla stazione che chiede due spiccioli. Sono i padroni, sono i politici, sono le classi privilegiate e false: mi viene sempre in mente l'esempio dei ginecologi obiettori di coscienza che poi fanno abortire le donne nel loro studio privato. Questi sono i nemici, non i fratelli. 

Ma le guerre tra poveri sono famose, ci sono sempre state, sempre ci saranno. Anche perché l'uomo è guidato da due istinti che sono diametralmente opposti: vuole essere superiore a qualcun altro ed allo stesso tempo annientare chi è a loro inferiore. E' la natura, è umanità. Per questo detesto il concetto di umanità applicato agli atti caritatevoli: se spesso sono stati affibiati ad una divinità o alla santità di una persona, un motivo ci sarà, no? E' proprio perché sono inumani che sono così eccezionali, questi atti, e rendono qualcosa di altro dall'essere umano colui che mette in atto questi gesti. Ma non perdiamoci nel discorso umanità perché ci sarebbe da parlarne per giorni... Come dicevo, le guerre tra poveri ci sono sempre state, e questa, questa battaglia apparentemente razzista, è soltanto l'ultima di una lunga serie. Queste persone, questi razzisti, probabilmente si comporterebbero nello stesso modo se in una situazione simile si trovassero i francesi, gli austriaci, e non mi stupirei se un giorno, se la situazione della Grecia dovesse peggiorare, leggeremo o sentiremo frasi come "Greco di merda, tornatene nella tua Acropoli".

Tutto questo non è per sminuire il concetto di razzismo, ma per provare a spiegarlo, per provare a renderlo qualcosa di ancora più ampio, collocandolo in un errore madornale della normale lotta tra classi, che però vede la classe medio bassa combattere con chi è addirittura allo stesso livello ed ancor più in basso anziché volgere le proprie ire e la propria bellicosità verso l'alto. Tutto questo succede perché nel diverso, in queste persone che parlano un'altra lingua, che hanno una fisionomia diversa (il colore è molto relativo, albanesi e rumeni, ad esempio, non sono poi così diversi di noi per quanto riguarda la carnagione) il razzista ha la visione di se stesso tra qualche anno, nel momento in cui avrà lasciato portarsi via anche l'ultimo diritto, l'ultimo pezzo di pane, l'ultimo metro quadro di tegole sopra la propria testa. Questa visione spaventa il razzista ed allora vuole allontanarla dalla propria vista, evitarla, distruggerla. Perché il futuro lo spaventa, ed allora non deve pensarci, ed allora per non pensarci deve concentrare le sue energie su un obiettivo facile, che oltre tutto è lo specchio della sua esistenza futura, del suo futuro... futuro al quale non ha mai pensato perché troppo concentrato a guardarsi i telefilm su sky, a fare shopping per le vie del centro, a cercare di assomigliare a chi sta sopra di lui non perché in questo modo diventa come i suoi nemici irraggiungibili, ma perché almeno, nello specchio della proprio casa, può vedersi, ora, come loro. Non è loro, ma gli assomiglia, e questo gli basta.

Gli immigrati non sono solo un capro espiatorio, non sono solo uno specchietto per le allodole, ma sono anche lo specchio del nostro futuro se continueremo a stare seduti con le mani in mano e tenendo la testa bassa, incazzandoci e bevendoci su una birra per non pensarci ulteriormente, guardando lo show del sabato sera o andando in discoteca per non farci prendere dai dubbi e dalle perplessità, in modo da non arrivare a dire: "Oh merda, ma ci hanno preso per il culo fino ad oggi quelli sopra di noi". 

Oggi sono gli immigrati a spaventarvi, domani sarà un'epidemia e chi è affetto da questa malattia, dopodomani saranno gli statali perché avranno agevolazioni per andare in pensione o aumenti di stipendio. E la gente se la prenderà con gli appestati, e così la gente diventerà epidemista, poi se la prenderà con statali e diventerà statalista.. 

Capri espiatori per branchi di pecore che non attivano il cervello, che non vogliono guardare il futuro in faccia, che non sanno riconoscere il vero nemico. 

Quando poi, forse forse, il vero nemico di ognuna di queste persone è se stessa, perché son stati loro a stare con le chiappe ben comode sul divano. Belle larghe, ma comode. 

Io mi chiedo... solo ora brucia? Non sarà mica che, sotto sotto, tutto questo (schifo) piace? 

Eccolo il razzista in tutta la sua malata psicologia e la sua totale mancanza di lungimiranza, di coscienza di sé e di come va il mondo a lui circostante, eccolo il razzista che pur di non vedere il proprio triste futuro cerca di allontanarlo o distruggerlo. Eccolo il razzista, che non ne fa una questione di razza (ecco perché spesso si legge "non sono razzista ma"), di colore, di provenienza geografica. Si alimenta degli stereotipi, molto simili a quelli che riconosce in lui stesso, per avere un movente per la sua crociata verso il diverso oggi ma uguale domani. Il razzismo non è razzismo, il razzismo è classismo mascherato, colorato, è una lotta di classe verso il basso, che porterà ancor più giù chi la combatte. Sia il razzista sia l'obiettivo del suo odio.

Vogliamo combattere il razzismo? Pensiamo al futuro e pensiamoci tutti insieme. Il domani è tutto ciò che abbiamo, e dobbiamo difenderlo da chi ce lo vuole togliere ed ha la forza per farlo. Ovvero chi detiene il potere. Ed il domani, il domani egualitario e giusto, è sempre stato la direzione, l'obiettivo di un'unica ideologia, quella dell'uomo che disse che per essere un buon rivoluzionario occorresse sentire nel profondo di noi stessi ogni ingiustizia perpetrata nei confronti di un nostro simile. Quella di un certo Ernesto "Che" Guevara.





Stefano Tortelli

martedì 14 luglio 2015

"Storia di un impiegato" di Fabrizio De André




Il vero peccato non è fare del male, il vero peccato è non fare del bene. Credo che con questa semplice frase si possa riassumere il pensiero racchiuso da Fabrizio De André nel suo "Storia di un impiegato". Era il 1973, Fabrizio stava cominciando ad avere un peso rilevante nel panorama cantautorale italiano, e con il suo sesto album andava idealmente a chiudere un secondo capitolo della sua discografia, ovvero quello dei concept album. E se "La buona novella" rappresenta uno dei suoi dischi più controversi e di difficile lettura (ed io in un post di aprile ho provato a dargli una mia personalissima interpretazione), se in "Non al denaro non all'amore né al cielo" ha cercato di definire, utilizzando le poesie di Edgar Lee Masters tradotte divinamente da Fernanda Pivano, gli archetipi delle persone che vivono il nostro tempo, con "Storia di un impiegato" ha sostanzialmente descritto il processo mentale che un uomo della classe media percorre dal momento in cui abbraccia la lotta di classe al momento in cui, dopo aver perso tutto, anche la libertà fisica e l'amore, riesca comunque a sentirsi vincente. Perché è vero, è stato sconfitto su tutti i fronti: ma ci ha provato. Ha perso, ma ci ha provato.

Doveva essere una storia comune quella raccontata da Fabrizio quando lui prese carta, penna e chitarra per dar vita a questo capolavoro. Erano gli anni delle contestazioni studentesche, delle occupazioni, degli scioperi e dei picchetti davanti alle fabbriche. Spesso mio padre mi racconta di quegli anni: lui a diciotto anni ed un mese entrò in Fiat, ed a quei tempi la fabbrica era non solo il primo motore dell'economia italiana, ma anche la fucina di giovani menti che avrebbero potuto e dovuto, ma soprattutto voluto, portare avanti la lotta, la stessa lotta che trent'anni prima mise sotto scacco il fascismo con i famosi scioperi di Mirafiori che coinvolsero centinaia di migliaia di lavoratori. Non era una passeggiata il lavoro in fabbrica, non lo è mai stato, ma in quel periodo c'era ancora la speranza, c'era la consapevolezza che si poteva anche cambiare lavoro, perché di lavoro ce n'era fuori dalle mura degli stabilimenti. Chi restava lo faceva quasi per scelta, e spesso questa scelta era dettata dalla consapevolezza, dall'identità operaia: sì, quella classe operaia che è stata sistematicamente distrutta negli ultimi anni per rendere arido il terreno più fertile per i semi del socialismo, della lotta di classe, della guerra senza quartiere nei confronti del sistema capitalista. Lotta che dalle fabbriche, allora, si estese alle università, agli uffici, a quelle realtà che prima d'allora mai, più di tanto, si erano interessate ad un certo tipo di pensiero politico e sociale: gli anni a cavallo dei '60 e '70 del secolo scorso hanno in un certo senso rappresentato un nuovo illuminismo, illuminismo che coinvolse anche il protagonista della storia di Fabrizio. Perché l'impiegato del quale vengono narrati gli ultimi mesi di libertà fisica e del suo processo di liberazione mentale era un piccolo borghese, che nulla aveva da chiedere alla vita perché la vita già gli aveva dato tutto. Eppure, ad un certo punto, si rese conto che gente meno fortunata di 
lui, sebbene calpestata, rinchiusa, picchiata, vessata stava vivendo, stava respirando, e respirando dava vita ad un vento nuovo, un vento forte, un vento fresco; lui invece in quella bambagia stava sopravvivendo, i giorni erano tutti uguali. Se ne rese conto, e decise di unirsi alla lotta. Decise di vivere. Decise di decidere. Ma per fare ciò doveva sostanzialmente distruggere ciò che fino a quel momento l'aveva oppresso: non era la mancanza di denaro ad averlo distrutto, ma la monotonia della sua vita, i miti con i quali era stato cresciuto, quelle figure che danzano mascherate nel suo sogno. Andavano distrutte, andavano fatte esplodere. Ed andavano ripudiate anche le sue origini: la madre, il padre. E soprattutto andava sabotato alle radici il sistema: quello giudiziario, quello economico, quello politico. 

E pensare che questo processo mentale è stato "inizializzato" da un canto di protesta che ripeteva ad ogni strofa il coinvolgimento dell'uomo medio nell'oppressione delle lotte, delle rimostranze, dei soprusi ai danni delle classi più colpite dal sistema vigente. La Canzone del maggio fu l'incipit, fu la sveglia per questo impiegato trentenne, che si è trovato a ragionare più e più volte su cosa fosse giusto fare: i suoi dubbi, i suoi timori, la sua voglia di riscatto, il suo desiderio di dare un contributo ne tormentavano i giorni e le notti, fino a decidere di abbracciare la causa, e di armarla. E così cominciò a sognare, ad immaginarsi in diversi contesti, ad affrontare i suoi nuovi nemici, figure che fino a poco tempo prima lo affascinavano e ne edulcoravano l'esistenza. Ma lo stesso destino toccava anche a chi l'aveva, secondo il suo giudizio, cresciuto nella tranquillità abituandolo ad ogni agio, ma di fatto rendendolo ignorante ed indifferente alle giuste cause. Arrivò poi il momento della resa dei conti, il momento di agire, il momento di far saltare il simbolo del potere. Ma l'attentato non ha successo, portandolo quindi a perdere la sua libertà fisica, la sua vita, il suo amore. Ed è l'amore la cosa alla quale non avrebbe mai voluto rinunciare, ed è la sua amata la persona alla quale più spesso si ritrovò a dedicare i pensieri, immaginandola sommersa di domande, ripercorrendo la vita passata insieme a lei, ragionando su ciò che lei avrebbe potuto fare dopo la fine forzata della loro storia d'amore. Ed in quel "Continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?" c'è un significato più profondo di quello puramente legato all'amore: c'è anche un significato legato ad ogni potere decisionale di ogni individuo, spesso delegato a qualcun altro, qualcuno più forte di noi, qualcuno che apparentemente è più autorevole (ed in una realtà in cui la donna era ancora estremamente subordinata all'uomo il potere decisionale che l'impiegato sperava potesse finalmente essere esclusivamente nelle mani di sua moglie rappresenta l'emancipazione dei più deboli dai dettami di chi detiene il potere) e che, in seguito alle prese di coscienza del protagonista di questa storia, non doveva essere d'altra persona se non di lei.

Ma la storia dell'impiegato non è finita qui. Anzi, la storia di questo piccolo borghese diventato rivoluzionario non ha una fine. Perché sebbene fosse finito in carcere, sebbene fosse stato privato di ogni libertà d'azione, il nostro eroe sfortunato non perse ciò che finalmente aveva conquistato: la libertà di pensiero, e di conseguenza la vita. Finora non ho accennato minimamente alla musica che accompagna le parole di Fabrizio De André, ma in questo caso è doveroso: il nostro eroe è stato imprigionato, ha sostanzialmente perso, teoricamente ci si dovrebbe aspettare una musica cupa, triste, carica di dolore. E invece no, l'atmosfera creata è ariosa, serena, forse un po' rassegnata, ma che da un senso di libertà. La stessa libertà che poteva respirare durante l'ora d'aria, ora d'aria che decise però di disertare perché non voleva condividere quel cortile con un secondino, ovvero con il simbolo dell'oppressione, del sistema, del potere. Fedele alla linea fino in fondo, e così si limitava a ragionare su tutto ciò che gli era capitato, a come con orgoglio rivendicava ogni sua azione, ogni sua presa di posizione, di coscienza, difendendo così, di fatto, la sua libertà mentale, che pian piano si stava diffondendo tra i suoi compagni di reclusione. Tanto da rinchiudere il secondino durante l'ora di libertà, rivoluzionando così le gerarchie, sebbene per poco tempo, sebbene per uno spazio limitato. E rivendicando anche quell'azione, cantando ancora una volta, un'altra volta ancora, e chissà quante altre volte: "Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti".

Questo è "Storia di un impiegato", un album che per decenni è stato censurato, nascosto ed anche raramente proposto nei live. Un disco anarchico, un disco che mette al centro la libertà decisionale di ogni singolo individuo, una libertà decisionale che, se incanalata nel verso giusto, non può che contribuire al bene di tutti. Perché lottare è una scelta, lottare è fare il bene, e facendo il bene si fa la cosa giusta. Altrimenti si può rimanere a guardare, si può assistere, si può vivere da spettatori non paganti, limitandosi a sopravvivere, a discolparsi, a pensare che tutto sommato va bene così... 

Sono ancora estremamente attuali queste canzoni di Fabrizio De André, e benché questo lo renda ancora vivo e presente, penso che non sia poi così felice di sapere che c'è ancora bisogno di ascoltare questo disco... significa che in quarant'anni non è cambiato niente, anzi... e significa che probabilmente queste canzoni non sono state poi così utili... fino ad ora...





Stefano Tortelli

C'era una volta l'Internazionale



Torno a scrivere dopo quaranta giorni circa, una Quaresima dettata da un intervento chirurgico, e delle placche alla gola, ma anche dal caldo opprimente che nelle settimane passate ha contribuito non poco a rendere arido il fiume delle idee. Più volte ho provato a scrivere qualcosa, gli spunti non sono mai mancati, ma ho sempre trovato qualche difficoltà a dar loro forma, ad aumentarne la sostanza, a dar loro un'ordine. Già di loro, solitamente, sono anarchiche... figuriamoci nelle settimane appena trascorse.

Ma ora sono tornato, ed in un certo senso aspettavo questa giornata per riprendere in mano i "fogli" di questo blog, le pagine bianche ancora da scrivere e questa penna che in sé contiene tutti i caratteri dell'alfabeto. Perché oggi è l'anniversario della Rivoluzione Francese, di quel secondo atto di ribellione agli antichi poteri che ormai da secoli guidavano l'andamento dell'Europa e non solo. Dico secondo perché prima dei moti dei fautori della I Repubblica francese vi furono le lotte d'indipendenza dei coloni nordamericani contro la Corona inglese, sfociati in una guerra che portò successivamente alla stesura della prima Costituzione ed alla formazione degli Stati Uniti d'America. Erano partiti bene gli States, ma poi si son persi strada facendo... il loro però fu un esempio per i rivoluzionari d'Oltralpe, i quali costrinsero alla fuga il re, delegittimarono i nobili ed il clero, si costituirono in Repubblica, diedero un'identità di cittadino francese ad ogni individuo che partecipasse attivamente alla vita della neonata repubblica ed ispirarono, nei decenni successivi, rivoluzioni simili in altre aree del Vecchio Continente. E sarebbe stato bello fare un articolo dedicato alla Rivoluzione Francese, tema che mi è sempre stato a cuore sin dalla quinta elementare, quando portai l'argomento all'esame (un po' come fece Max Collini degli Offlaga Disco Pax, solo che lo fece qualche anno prima, ed in terza elementare), ma alla luce dei recenti avvenimenti è soltanto uno spunto per parlare dell'attualità, di ciò che sta succedendo non oltre i nostri monti ma oltre il mare che ci bagna sulla costa orientale. Perché se non c'è nulla di nuovo sul fronte occidentale, su quello orientale c'è una polveriera che sta per esplodere... e la colpa è di tutti noi, di tutta l'Europa, sia, ovviamente, delle destre capitaliste, sia, e nemmeno troppo a sorpresa, delle sinistre più radicali.

C'era una volta l'Internazionale. Siamo nel 1864, i moti rivoluzionari del 1848, sebbene con alterne fortune, avevano fortemente modificato l'opinione pubblica, o, ancor meglio, l'avevano creata, soprattutto nelle fasce medio basse della popolazione, le quali necessitavano di organismi che dessero voce alle loro istanze per poi mettere nella condizione i poteri forti di accorgersi del fatto che le acciaierie non funzionavano da sole, nemmeno le miniere, e nemmeno i raccolti erano spontanei. Spesso furono alcuni borghesi illuminati a farsi portavoce degli ammutoliti operai e contadini, e così poterono pian piano nascere i primi sindacati riconosciuti, i primi partiti realmente democratici, dove il concetto di democrazia non era "potere al popolo" inteso come "il popolo elegge e poi chi viene eletto fa gli affari propri" ma "potere al popolo" inteso come "il potere viene dato in mano alla massa, alla realtà più rappresentata". E la realtà più rappresentata non poteva che essere quella dei cittadini operai e dei contadini di campagna. Nacque così la classe operaia, nacque così il proletariato. O meglio, nacquero la presa di coscienza di essere parte di un'entità grandissima, potenzialmente imbattibile. Sempre nel 1848 Karl Marx e Friedrich Engels pubblicarono "Il manifesto del Partito Comunista", vero e proprio programma di partito di quella che fu la prima realtà politica comunista, la Lega dei comunisti. Dopo sedici anni, tornando così al punto iniziale della nostra storia, nacque quella che noi conosciamo come Prima Internazionale, ovvero l'Associazione internazionale dei lavoratori. In essa confluivano tutte le realtà politiche che si erano rese conto di come, per poter reggere un'economia già allora traballante (nel 1857 ci fu la prima crisi del sistema capitalistico), era necessario garantire una buona condizione di vita alla stragrande maggioranza della popolazione: perché vedete, se non fossimo così asfissiati da terminologie tecniche e da prese di posizione dovute a pregiudizi, e si volesse in modo molto semplicistico spiegare le varie correnti politiche, quella migliore per definire le sinistre è quella pocanzi descritta...

L'Internazionale aveva lo scopo di mettere a confronto le varie esperienze locali dei vari Stati, aveva la missione di dare un'organizzazione sovranazionale alle lotte politiche, ed al centro di ogni discussione vi era il popolo, e non l'equilibrio politico, non la questione morale, non esisteva una bilancia sulla quale pesare i pro ed i contro. La Prima Internazionale racchiudeva in sé non solo partiti chiaramente comunisti, ma anche laburisti, social democratici, anarchici, e sebbene spesso non andassero d'accordo avevano comunque il modo di parlarsi, di spiegarsi, talvolta di mandarsi a quel paese, ma per lo meno esisteva un confronto, quasi sempre produttivo. L'esperimento della Prima Internazionale si concluse nel 1872. Nel 1896 vi fu la Seconda Internazionale, che divenne sempre più potente, raccoglieva sempre più consensi, tant'è che per stroncarla, vent'anni dopo, si diede vita alla Prima Guerra Mondiale... ma non ditelo in giro, queste cose non si devono sapere... 

Nel primo dopoguerra vi fu la prima grande scissione, ovvero quella tra l'Internazionale, che divenne Internazionale Socialista, ed il Comintern, che raggruppava tutte le potenze comuniste del mondo. Ma il senso era sempre quello: confrontarsi, parlarsi, aiutarsi, imparare. Famosi sono i viaggi di Togliatti in terra sovietica, molto lui imparò dagli eroi della Rivoluzione d'Ottobre e molto i russi impararono da lui, tanto da dedicargli una città: c'era Stalingrado, c'era Leningrado, c'era (e c'è) Togliattigrado. Ed anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, quella guerra che vide l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche disintegrare il nazismo e dare una seria lezione all'Occidente capitalista, Comintern e Internazionale socialista continuarono ad operare, risultando sempre un ottimo laboratorio di idee, un ottimo utero dal quale poi partorire tanti figlie quante le lotte da combattere per conquistare i diritti nei vari Stati...

Sembra preistoria, ma alla fine stiamo parlando di cinquant'anni fa... ed ora cosa c'è? Ora c'è un povero socialista in Grecia che, solo contro tutti, abbandonato da qualsiasi possibile alleato di ogni Stato europeo, abbandonato anche dai comunisti della nazione ellenica, viene bersagliato da destra e sinistra per il fatto che ha accettato un patto che lo mette con le spalle al muro, in ginocchio la Grecia, ma in un certo senso salva il culo a tutti quei partiti delle altre nazioni che possono ancora vendere fumo negli occhi ai propri elettori dicendo che comunque dalla crisi si potrà uscire... perché se la Grecia fosse caduta, se Tsipras non avesse accettato, l'effetto domino sarebbe iniziato: Grecia, poi Italia, poi Spagna, poi Irlanda, poi Portogallo. I primi a cadere, proprio perché sacrificabili. E poi la Francia, poi le piccole nazioni... Perché il capitalismo è così, più mangia e più vorrebbe mangiare, e di certo non si ferma per pietà o perché sazio. 

Si sarebbe potuto evitare tutto questo? Certo, si sarebbe potuto evitare, ed in un modo anche molto semplice. Se è pur vero che il motto dividi et impera è estremamente valido, è anche vero che dividere qualcosa di fortemente coeso è molto difficile, se non impossibile. Se le potenze di sinistra d'Europa avessero appoggiato Syriza non solo a parole ma anche a fatti avrebbero potuto far sentire la loro voce nel contesto nazionale, e poi a Bruxelles ed a Strasburgo. Ovviamente sorge spontaneo il discorso relativo all'assenza di un partito di sinistra in Italia, ad esempio. Già, è vero, qui di Democratico c'è solo il nome, ma tutte le realtà extraparlamentari che finora hanno fatto a gara a chi aveva il martello più lungo o la falce più larga, se si fossero messe d'accordo avrebbero potuto dire: "Bene, ad alcuni di noi Syriza piace, ad altri no. Ma ora questo è l'esempio più a sinistra, o vista in un altro modo meno a destra, nella politica europea attuale. Proviamo a dar loro una mano, facciamo in modo che abbia successo, perché così il popolo greco ci guadagna ed intanto la nostra realtà comincia a riprendere una forma... e chissà che un giorno possa avere successo anche qui, in Italia, quel Paese che non meno di quarant'anni fa aveva il partito comunista più forte dell'Europa occidentale".

L'han fatto!? L'ha fatto qualcuno in altri Stati europei? No...

Qui giocano tutti con la nostra pelle, da Grillo a Salvini a Renzi a Rizzo e via dicendo... Questi stanno ore a parlare nei loro palazzi, durante i loro comizi, firmano accordi, li rispettano, li annullano, li aggirano... ma a loro poco cambia, se non l'acquisizione o la perdita di prestigio... e noi li guardiamo in tv, mentre proviamo a mettere insieme il pranzo con la cena, cercando di capire quale sarà il nostro boia...

E pensare che basterebbe un minimo di organizzazione... ci riuscivano Marx ed i suoi compagni di tutta Europa quando c'era solo il telegrafo ed i treni non superavano le 50 miglia orarie, per quale motivo non ci dovremmo riuscire noi!? 

Sarà che, tutto sommato, sentiamo ancora poco i morsi della fame... 




Stefano Tortelli

sabato 6 giugno 2015

Occhi e cuore a Berlino: finale di Champions League

La seconda Coppa dei Campioni vinta dalla Juventus, nel '96 a Roma, contro l'Ajax.





Inutile nascondersi, inutile fare tanti giri di parole. Stasera, alle 20:45, i miei occhi fisseranno il prato dell'Olympiastadion di Berlino: c'è Juventus - Barcellona, finale della sessantesima Coppa dei Campioni. Sarà la quinta finale della coppa dalle grande orecchie che vedrò giocare dalla squadra della quale sono tifoso da sempre, o meglio, da quando ho ammirato da piccolissimo le gesta di Baggio in televisione. Ma paradossalmente Baggio non giocò nemmeno una di queste finali: a giocarle fu colui che ereditò il mio cuore di juventino, quell'Alessandro Del Piero che ha fatto la storia della Juventus e che è sempre stato in campo, fino a tre anni fa, con la numero di 10 che fu di Platini sulle spalle. 

Il mio primo ricordo calcistico fu però la finale di Coppa del Mondo del '94, quella maledetta finale persa ai rigori con il Brasile negli Stati Uniti: ci eravamo da poco trasferiti qui a Villafranca da Torino, era una serata di luglio non molto afosa ed i miei portarono fuori la televisione per guardarla all'aperto. C'erano loro, mio zio, mia nonna, i miei zii di Torino e mia cugina. Tutto quello che allora era il mio mondo era con me a guardare quella partita, e la stessa cosa capitò molte altre volte da allora: il quarto di finale con la Francia nel '98, la finale degli Europei del 2000, la finale degli Europei del 2012 sono le partite più importanti viste con loro. Mia nonna era quella che mi "cissava" di più durante le partite, e lei è in un ricordo molto vivo della mia infanzia legata al calcio: lei mi trasmise oltre alla passione per il pallone anche quella per le parole crociate, ed un giorno d'estate di almeno diciassette-diciotto anni fa, facendo con lei un cruciverba, c'era la definizione "Soprannome di Alessandro Del Piero". Io non lo sapevo, ma lei ovviamente sì: PINTURICCHIO. Ed ora, ogni volta che sento questo appellativo, o semplicemente mi capita di vedere delle opere del pittore, non posso che pensare a lei. Mio zio invece mi ha insegnato la storia della Juve, oltre che quella del campionato in generale, con lui ho visto decine di partite e con lui son stato allo stadio per la prima volta in vita mia. Con mio padre invece non può che esserci forte rivalità: lui viola-granata, io bianconero, e per cui inevitabilmente gli scontri verbali non potevano e non possono assolutamente mancare. Ma è una sana rivalità, intrisa di rispetto, tant'è che alla fine, tolte le sfide tra la mia squadra e le sue, Torino e Fiorentina mi stanno comunque molto a cuore. Infine, mia cugina, quando Baggio fu venduto al Milan, non restò fedele alla maglia: restò fedele a lui, diventando anche lei prima del Milan e poi, quando il Divin Codino passò all'Inter, complice la presenza di Zanetti nella rosa neroazzurra, si innamorò della squadra di Milano. Ora, per altri motivi, è della Sampdoria, ma da quando ha lasciato la Juve non perde occasione di gufarla!!!! 

Stasera, almeno per il primo tempo, la formazione qui a casa mia non cambierà di molto: non c'è più mia nonna (che comunque c'è.....), mio zio è al mare, ma per il resto siamo noi.. anzi, ci sarà anche la piccola Selene, la figlia di mia cugina, la mia "nipotina"...

Parlando invece del campo, mi ricordo come accolsi la notizia dell'approdo di Allegri alla Juventus. Parlandone con mio zio, dissi: "Sai cosa? Quest'anno probabilmente non faremo molto bene in campionato, però la Roma ed il Napoli hanno le coppe e per cui facilmente anche loro non faranno grandi exploit... in Champions, invece, non mi stupirei se andassimo avanti... Conte aveva grinta, ma Allegri c'ha testa...". Quando dissi tutto ciò pensavo più che altro ai quarti di finale, e come la stragrande maggioranza degli appassionati di calcio non mi sarei mai immaginato la Juve in finale. Ho cominciato a crederci quando la Juve vinse tre a zero a Dortmund, perché sì, avremmo potuto incontrare altre squadre anziché il Monaco ai quarti, ma vedevo che la squadra sapeva reagire, e soprattutto non perdere la testa; sapeva colpire non dovendo per forza correre per novantacinque minuti; sapeva gestire, senza comunque rinunciare ad attaccare. Quando fu la volta del Real Madrid ero certo che saremmo andati in finale: niente scaramanzia, niente storie, per me eravamo già a Berlino, ed anche sull'1-0 al Bernabeu non ebbi assolutamente paura. Ero appena arrivato all'Orso quando segnarono i madridisti, ma avevo la certezza che non sarebbe finita così, e che se ci fossero eventualmente stati i supplementari ad uscire indenni dallo scontro saremmo stati noi. Tant'è che al 90' me ne fregai dello sterile forcing del Madrid: "Ivan, vado a fumare una sigaretta"... 

Stasera sarà difficile, difficilissima, ma ho buone sensazioni, sogni premonitori mi han detto che andrà bene, e poi Berlino va conquistata un'altra volta. Dopo l'Armata Rossa nel '45, gli Azzurri nel 2006, ora tocca al battaglione bianco-nero. E poi ho già visto perdere la Juve tre volte in finale, delle quali due in modo assolutamente immeritato... stavolta sarebbe bello che le parti si invertissero: vincerla, da sfavoriti, magari nemmeno meritando... l'importante è portarla a casa. 

Primo tempo a casa, il secondo all'Orso. Primo tempo con la famiglia naturale, secondo con quella che mi sono scelto. Io voglio crederci, e, comunque vada, saranno gli eroi del giorno... anzi, della stagione.



Stefano Tortelli