Racconti, canzoni, riflessioni sull'attualità e sulla storia, su musica e film, su personaggi, società, filosofia...
La mia quotidianità cerebrale da condividere con chi vuole leggere.. e che magari un giorno ascolterà o vedrà.
Il tutto con estrema passione, senza filtro, bandendo ogni moderazione.
Non avevo ancora sei anni quando per la prima vidi il film "The Blues Brothers". In verità con l'universo correlato a questo capolavoro della cinematografia ebbi alcuni contatti già in precedenza, quando ancora abitavo a Torino: probabilmente ne vidi solo alcune scene, ma qualche flash che ha come ambientazione la casa dove ho vissuto per i miei primi quattro anni di vita c'è, anche perché negli anni seguenti avevo spesso il desiderio di vederlo, sebbene logicamente capissi ben poco la trama ed i contenuti. Ma mi piaceva la musica, mi facevano ridere Jack ed Elwood, e poi era sempre un piacere immenso vederlo in casa, sul divano, con i miei genitori.
Ricordo che durante la famosa scena introduttiva del film, quando Jack sta per uscire di prigione e l'agente incaricato di dargli i suoi effetti personali fa l'elenco di tutti gli oggetti dei quali Jack era in possesso quando fu arrestato, mi soffermai sulla parola "profilattico": la mia genuina curiosità, tipica di un bambino di sei anni, mi portò a chiedere ai miei cosa fosse... "E' un cerotto, tesoro!!": fu la risposta di mia madre, che nonostante fosse stata presa in contropiede seppe rifugiarsi abilmente in corner, lasciando che fossero gli anni e l'esperienza ad insegnarmi il vero significato di quella parola. Ciò che poi ha sempre contraddistinto le visioni familiari della pellicola di John Landis furono le risate, i balletti (spesso da seduti ma talvolta da in piedi) improvvisati, le citazioni del film che venivano riproposte ad ogni ora per almeno tutta la settimana successiva. The Blues Brothers ha rappresentato quindi un forte legante tra i miei genitori e me, e crescendo, comprendendo ancora di più certe battute, contestualizzandole, ed apprezzando ulteriormente la colonna sonora, il discorso Blues Brothers è spesso stato trattato con mamma e papà, come è successo per altri film che con loro ho visto ed imparato ad apprezzare.
I Blues Brothers però, forse più di tutti gli altri, oltre a rappresentare un legante è diventato anche un legame tra i miei ed io, per una molteplicità di fattori: innanzi tutto i miei andarono a vedere il film al cinema quando uscì, ed io, venti anni dopo, andai a vederlo nel 2012 al Reposi di Torino con quella che allora era la mia ragazza, ripercorrendo più o meno gli stessi passi che fecero loro due decenni prima; i Blues Brothers è uno di quei film dei quali ho spesso parlato ai miei amici, ad alcuni di loro l'ho fatto vedere e con alcuni di loro mi sono ritrovato a ridere a crepapelle non solo guardandolo ma riproponendo le varie scene per strada, al pub, nei ristoranti. Quando con i miei amici andai a Roma a vedere Roger Waters ovviamente c'erano tante suore per le strade della capitale, e si faticava a trattenere un "Ed allora sono cavoli tuoi, sorella!" ogni volta che ne avvistavamo una! Oppure per fare gli scemi ordinare "Quattro polli fritti ed una coca!", ricevendo sguardi alquanto perplessi dei ristoratori di turno... ma era più forte di noi, e soprattutto con il Biondo una celebrazione settimanale di qualche scena o canzone dei Blues Brothers non può assolutamente mancare. E se poi quando tutto ciò avviene è presente anche mio padre, allora apriti cielo, perché se è vero che il Biondo ed io conosciamo a memoria il film, papà è come se lo avesse scritto, come se fosse stato lui a consigliare a Dan Aykroyd l'intera sceneggiatura.
Si aprì un cerchio diciannove anni fa, quella sera in salotto, mentre la mia famiglia ed io guardavamo i Blues Brothers... e diciannove anni dopo, ieri sera, ci siamo nuovamente ritrovati mamma, papà ed io per gustarci i Blues Brothers: stavolta però erano su un palco, della formazione originale erano rimasti Blue Lou Marini (il sassofonista) e Steve Cropper (il chitarrista col barbone), ma le canzoni erano le stesse, le emozioni erano le stesse, e Piazza San Carlo era diventato il nostro salotto di casa: decisamente affollato con quelle 35000 persone a farci compagnia, ma comunque il senso era lo stesso.
Si è chiuso un cerchio ieri sera in Piazza San Carlo, ma il fatto che la penna abbia compiuto un intero giro non significa che la musica sia finita... le puntine su un vinile fanno centinaia di giri prima che la musica cessi di riecheggiare dalle casse.
E poi, come se non bastasse, c'è sempre il lato B.
Enrico Berlinguer e Roberto Benigni a Roma. 17 giugno 1983
Oggi sarebbe stato il novantatreesimo compleanno di Enrico Berlinguer, uno dei politici più amati dal Dopoguerra ad oggi, secondo forse soltanto a Sandro Pertini. La sua vita è finita a sessantadue anni, a causa di un ictus durante un comizio per il Partito Comunista, del quale è stato segretario per dodici anni, dal '72 all'84. Dalla sua Sardegna al Veneto, da Sassari a Padova il percorso è stato lungo, intenso, pieno di lotte, di scontri con le altre forze politiche ma anche con i propri compagni. Perché se una cosa a sinistra riesce bene è proprio quella di preferire l'immobilismo al compromesso, la scissione alla coesione nonostante. Ora come allora.
Ed ora, a distanza di trent'anni dalla sua morte anche Berlinguer sta subendo l'onta del revisionismo, della decontestualizzazione, della sottolineatura degli errori da lui commessi, diventando anche lui un ingranaggio della ben oliata macchina del fango promossa da coloro che pensano di essere gli eletti, i discendenti di Marx e Lenin, gli unici a poter portare avanti il discorso comunista in Italia. Ma non è di questo che voglio parlare, o meglio questo è solo il punto di partenza della mia esposizione che vuol partire da quegli errori messi in luce con estrema mancanza di rispetto e di cognizione di causa da parte di chi infanga Enrico e che vuole arrivare non solo a giustificarli ma a renderli i punti di forza della politica della maggioranza PCI sotto la guida di Berlinguer.
Perché Berlinguer non era affatto stupido, e la sua non era affatto una politica emergenziale, a breve termine, indirizzata solo al servire per il presente risultando sterile nel futuro. Berlinguer puntava a quella famosa "Città futura" descritta da Gramsci nei suoi appunti, e sapeva che per arrivarci non era sufficiente soddisfare i lavoratori, assecondare le lotte studentesche, cavalcare l'onda dell'entusiasmo delle piazze. Perché Berlinguer sapeva che portare al benessere attraverso le conquiste dei diritti poteva essere un'arma a doppio taglio, sapeva che buona parte dell'elettorato votava PCI non tanto per coscienza politica ma per interesse, e per cui era necessario andare oltre, creare un forte legame tra il partito e l'elettorato, puntando possibilmente a renderlo più vasto, raccogliendo quei consensi che sarebbero sì stati difficili da strappare ma percorrendo la strada non tanto che portava alla pancia dell'elettore quanto a quella della testa. Perché si fa presto a dire che il PCI ha fallito per colpa della classe politica, per colpa anche di Berlinguer, ma forse si sopravvaluta la tenuta morale dell'elettorato che portò il PCI ad essere il primo partito in Italia ed il più forte partito comunista dell'Europa Occidentale: perché è vero, era gente impegnata, come non si è più vista in Italia negli ultimi trentacinque anni, ma bisogna chiedersi il perché di queste loro azioni, di questo loro impegno. Era un impegno strumentalizzato, dettato dalla fame, dalla sopravvivenza, dalla logica necessità di rispetto, di riconoscimento, di acquisizione di determinati diritti. Il problema è che una volta conquistati i diritti a loro cari si sono ritirati, sono tornati a casa, davanti alla TV, sul divano nuovo, e non si sono posti il problema di spiegare la loro storia ai figli, alle nuove generazioni, alla fatica; non hanno motivato le loro scelte politiche, se non dicendo che votavano così perché era l'unico modo per conquistare ciò che desideravano. Si contesta tanto l'elettorato berlusconiano della prima ora, quello di imprenditori e di ladroni vari, ma del resto non hanno agito tanto diversamente: han votato Berlusconi perché Berlusconi garantiva loro le libertà che nessun altro gli avrebbe concesso... o no!?
Berlinguer agì quindi con lungimiranza, prendendo le distanze dai comportamenti dell'Unione Sovietica ma non dagli ideali dell'universo sovietico, e non si pose il problema di contrapporsi per partito preso alla DC perché all'interno della DC c'erano delle correnti che molto avrebbero potuto dare alla causa di sinistra: lo chiamano cattocomunisti gli ottusi di estrema sinistra l'atteggiamento tenuto da Berlinguer, ma in verità era unione di intenti, era solidarietà, era umanesimo volto a dar sostegno ad una battaglia che doveva continuare. Perché c'era il rischio di fare la fine della Grecia dei colonnelli, c'era il rischio di un colpo di Stato, di una guerra civile, di una invasione occidentale. E per cui si arrivò al compromesso storico tra PCI e DC, tra Berlinguer e Moro. e per capire quanto importante e fondamentale poteva essere il compromesso storico, se solo si fosse potuto realizzare, è sufficiente analizzare ciò che è successo nel momento in cui questa ipotesi stava diventando realtà. E' stato architettato il rapimento di Moro da parte delle Brigate Rosse, che poi il 9 maggio si è trasformato in assassinio, e casualmente stanno emergendo tutta una serie di prove che mostrano come quelle non fossero Brigate Rosse e come dietro tutto ciò che stava avvenendo, sia tra i Brigatisti rossi sia tra i fascisti erano presenti il Gladio e la CIA. Perché per l'appunto l'importanza di un evento e/o di una persona si evince anche e soprattutto dalla reazione che questo evento e/o questa persona suscita nei nemici. Ed i nemici hanno deciso di colpire Moro, in modo da non perdere definitivamente le possibilità di ribaltare una situazione che per loro era estremamente difficile, delegittimare totalmente agli occhi dell'opinione pubblica le Brigate Rosse (che, nonostante quel che si racconta ora, godevano di una simpatia non trascurabile tra la popolazione) e far passare per colpevoli tutti i comunisti. Berlinguer compreso. Avessero ucciso Enrico, probabilmente nemmeno un accorato invito a non armarsi come quello fatto da Togliatti dopo l'attentato che lo colpì avrebbe fermato i comunisti di allora. Del resto i servizi segreti vengono spesso chiamati "intelligence" mica per caso...
Ma la cosa più grande di Berlinguer, che va oltre le critiche e non parte da esse, fu la sua capacità di arrivare alla gente come pochi altri, di far leva sulle emozioni della gente: perché il problema di molti politici di sinistra è sempre stato l'apparire burberi, freddi, estremamente pessimisti, pieni di rabbia e rancore di fronte allo sfacelo a loro contemporaneo, e le uniche emozioni che potevano far passare erano quelle di rivincita, di vendetta, di desiderio di lotta. Funzionali al massimo, e del resto i risultati pre-Berlinguer lo dimostrano, ma comunque mai mostravano un qualcosa che andasse oltre tutto ciò: non c'erano molti sorrisi, non c'era la passione, non c'era una forte luce nei loro occhi. Per fare un esempio non c'era l'intensità che era presente in Ernesto Che Guevara o nei suoi compagni cubani, da Fidel Castro a Camilo Cienfuegos. Berlinguer in questo è stato unico prendendo in considerazione il partito comunista italiano, ed è forse proprio questa la sua caratteristica che l'ha portato ad essere giusto un gradino sotto a Pertini nella classifica dei personaggi politici nostrani più amati. Perché come diceva Gaber "Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona"... ed io credo che fosse questo il motivo più importante per il quale essere allora comunisti.
Non per le lotte, non per il pane, non per i diritti. Ma perché si aveva una guida morale meravigliosa, capace di fare politica come pochi altri, appassionato, colto, intelligente... ed estremamente buono. A chi ora cerca di delegittimare tutto ciò che ha fatto, arrivando ad arrogarsi il diritto di negare il suo essere comunista, io voglio soltanto dire che forse non è stato il più grande rivoluzionario, ma se sono i rivoluzionari quelli che aspettate, in un contesto come quello italiano, allora potete continuare a decontestualizzare tutto, e probabilmente arriverete a sputare anche su Che Guevara, su Allende, su tutti quelli che, come Berlinguer, per malattia o uccisi, hanno lottato fino all'ultimo per il bene di tutti, anche a costo di perdere un giorno consensi.
Questo articolo forse verrà tacciato come agiografico, ma a me non interessa. Se Berlinguer ha fallito la colpa è di chi ha smesso di votare PCI, vuoi perché non ne ha sentito più il bisogno o vuoi perché non c'era più Berlinguer... ma allora ditemi, erano veri comunisti quelli che dopo la morte di Berlinguer hanno riposto le bandiere? Erano comunisti quelli che una volta conquistato ciò che a loro interessava hanno smesso di lottare per i diritti di qualcun altro?
Secondo me no...
Berlinguer però lo era, e chi veramente l'ha amato ha continuato ad esserlo. Perché se è vero che Berlinguer era una brava persona, è anche vero che una brava persona piace a persone che sono brave quanto lei.
Quando scrissi le righe che più avanti riporterò c'erano molte differenze rispetto ad ora, era passato meno tempo, non c'era Thor ed il grande amore ed il ricordo che avevo di Duca era ancora intatto, intero e non era stato mai messo alla prova: prima di Thor era stato l'ultimo cane che ho avuto, con lui son cresciuto per tredici anni, l'ho sostanzialmente visto nascere e tredici anni dopo, con le lacrime agli occhi, l'ho seppellito, dandogli l'ultimo saluto, sentendo per l'ultima volta la sua pelle, il suo calore, il suo peso, che però stavolta non mi sbilanciava sulle gambe, quando a peso morto si appoggiava a me per poi cadere e prendersi le coccole... Era l'ultimo saluto, e dopo due anni e mezzo scrissi le righe che seguono, ripensando alla sera prima che morisse:
"Non dimenticherò mai il suo sguardo la notte prima che lasciasse questo mondo.
Era lì, sdraiato sul pavimento della cucina, ansimante e consapevole che il momento di partire per quella sua ultima corsa era ormai prossimo: un ultimo alternarsi nel cielo della Luna e del Sole, ed il viaggio sarebbe cominciato.
Mi fissava con quei suoi occhi scuri, enormi, pieni di tristezza, rassegnazione, ma anche di liberazione. I suoi occhi come i miei lasciavano fluire le lacrime dagli angoli delle orbite, e mi piaceva credere che anche lui stesse ripercorrendo nella mente i tredici anni vissuti insieme: le corse nel giardino, il suo rifugiarsi in camera mia durante i temporali, le tante guerre con la gatta ed i piatti di latte passati sottobanco… e tante, tante altre cose.
Mi ha visto crescere, portare a casa prima amici e poi ragazze, tutti terrorizzati al primo approccio dalla sua irruenza, da quel suo gran vocione che tanto manca nelle silenziose notti di questa piccola frazione dispersa nel nulla.
Sapeva farsi notare, sì con l’irruenza e con il riecheggiare del suo “parlare”, ma anche con la sua bellezza: il suo manto fatto di chiaro-scuri luccicava ai raggi del sole, il suo passo era degno della fierezza dei suoi antenati di montagna, il suo viso era perfettamente simmetrico, con quel piccolo neo sotto l’occhio destro, un po’ come le dive di Hollywood. Il più bell’esemplare della sua razza che io, insieme a tante altre persone, abbia mai visto.
Nel nostro giocare siamo quasi sempre stati leali, nonostante a volte siamo arrivati a farci del male, eppure ci siamo sempre perdonati, ritrovati, come due amici che nonostante tutto continuano a volersi bene, ad affrontare ogni giorno insieme, perché consapevoli di non poter trovare miglior compagno di avventura. E penso a volte di poter rivivere certe cose con i suoi simili guardandoli giocare con chi ha la fortuna di averli accanto, eppure so che non potrà mai esserci un rapporto del genere, perché lui era speciale, lui dopo poche settimane dalla sua nascita già mi seguiva per il giardino, curioso, voglioso di assaporare il mondo, di scoprire cosa c’era oltre la casa di sua mamma. Ed è per questo che fra cinque ho scelto lui, per il suo assomigliarmi, per il suo desiderio di novità.
E poi lui ancora è con me; perché se anche di notte non lo posso più sentire abbaiare a qualche gatto, lo posso vedere nei sogni, dove spesso scodinzolando viene a trovarmi per poter condividere ancora qualche momento insieme, in un universo parallelo dove le persone, gli animali, i luoghi e le cose che ci hanno segnato non muoiono mai."
Dopo un anno e mezzo, che tra l'altro è più o meno lo stesso periodo di tempo che mi vede ora in compagnia di Thor, il discorso non è cambiato, ed anzi si è rafforzato, e non per demeriti di Thor ma perché finalmente ho potuto mettere alla prova i ricordi, le emozioni, l'amore per Duca, che è rimasto imperturbato, intatto, limpido e luminoso, e questa presa di coscienza si è fatta via via più chiara mese dopo mese, che ha portato al migliorarsi del rapporto tra Thor e me, che all'inizio era conflittuale ma che da luglio in poi ha preso una bellissima piega e che nelle ultime settimane lo porta a dormire ai piedi del mio letto, o meglio a vegliare sui miei sogni.
Il 21 maggio era il quarto anniversario della morte di Duca, e proprio quella notte Duca, per l'ennesima volta, ha voluto manifestarsi, è voluto venirmi a trovare in sogno, e l'ha fatto nel modo più bello, ripetendo ciò che tante volte ha fatto in vita: nel sogno ero a letto (e questo contribuì a farmelo sembrare reale), probabilmente era mattina, avevo in mano qualcosa da mangiare, Duca era accanto a me, seduto e scodinzolante, che mi guardava e pretendeva un boccone; io alzai ciò che avevo in mano, mi spostai sul letto, e lui salì, per prenderlo, per sì mangiare ciò che avevo in mano ma soprattutto per giocare, per farsi fare e fare le coccole. Un'altra volta ancora, come quando eravamo entrambi cuccioli, come quando io mi stavo affacciando all'età adulta e lui stava lentamente andando verso la vecchiaia. Come quell'ultima notte, quando mai avrei voluto andare a dormire lontano da lui, quando avrei preferito dormire con la mia testa sul suo corpo, fregandomene del fatto che fosse sporco e maleodorante a causa della malattia che lo stava distruggendo.
Quando scrivo di Duca, quando parlo di Duca, non possono che brillarmi gli occhi, non può che chiudermisi la gola... ma nel brillare dei miei occhi c'è lui, e c'è con una limpidezza sempre più intensa, proprio perché questi miei stessi occhi hanno modo di vedere nella realtà un degno suo erede come Thor, per il quale il mio amore è forte, anche e soprattutto perché ha saputo aspettarmi, anche e soprattutto perché è conscio dell'eredità che ha raccolto. E nonostante questo non ha paura di mettersi in gioco, come non ho paura io di dimenticare... perché dimenticare è impossibile già di suo, dimenticare Duca è nemmeno immaginabile.
Una persona un giorno mi disse che il paradiso degli animali è oltre il ponte dell'arcobaleno, ed è lì che i padroni ed i loro compagni a quattro zampe si ritroveranno... forse è per questo che Duca aveva paura dei temporali, gli piaceva così tanto stare qui che nemmeno voleva vederlo, un arcobaleno. E, pur di essere sicuro di non scorgerlo neppure con la coda dell'occhio, si andava a rifugiare negli angoli più bui della casa, solitamente sotto, da mio zio... Ed ogni volta che vado nel corridoio che porta alla camera dove Duca si rintanava inconsciamente penso di poterlo vedere da un momento all'altro. Ed è proprio quando mi rendo conto che non può essere così mi rendo conto che lui c'è, che è rimasto. E non oltre il ponte dell'arcobaleno, ma qui, con me in me.
Grecia Antica, secoli VI e V Avanti Cristo. Nasceva la filosofia antica, la madre di tutte le scienze, la radice dalla quale si sono poi districate le strade della matematica, della medicina, della psicologia, della biologia. Al suo fianco vi era l'arte della dialettica, che della filosofia si serviva per rafforzare i propri contenuti ma che alla filosofia era necessaria per dar forma ai concetti. Del resto la filosofia si dice sia nata nel preciso istante in cui l'uomo si è trovato a poter dedicare un minimo di tempo libero al pensiero, quando ormai era stanziale ed il linguaggio era andato oltre la sua funzione primaria, ovvero quella della comunicazione basilare e fondamentale, dando vita ad un lessico atto a descrivere l'astratto per spiegare il concreto. Non per nulla certe religioni sono considerate filosofie, e basta pensare a quelle orientali per trovare subito un nesso tra il nostro concetto filosofico e la loro visione religioso-spirituale del mondo.
Ma torniamo alla Grecia Antica, al 600 a.C, al periodo in cui i primi filosofi cercavano di trovare il seme dell'universo, la base dalla quale dipendono tutte le cose, il principio dell'universo... l'archè. Nel loro tentativo di trovare una spiegazione concreta all'esistenza di tutto ciò che ci circonda si differirono dai religiosi, da coloro che invece cercavano in un ambito trascendentale la risposta alle stesse domande. E così i filosofi cominciarono a guardarsi attorno, a riflettere, a cercare la componente fondamentale di tutto ciò che era per loro tangibile, osservabile, percepibile dai sensi. Si arrivò così a trovare negli elementi la radice tetraedrica del cosmo intero: il fuoco, l'acqua, l'aria, la terra. Fu Empedocle per primo a definirli tali tutti e quattro, dato che in precedenza ci fu chi considerò come archè l'acqua, chi l'aria, e chi tutti gli elementi che compongono il reale mischiati però in un brodo primordiale (l'àpeiron). Per Empedocle, dunque, la cooperazione dei quattro elementi portò alla creazione dell'universo, delle stelle, dei pianeti, della vita, e molta della susseguente filosofia ha ripreso le sue posizione per portare avanti discorsi ancora più ampi e più dettagliati.
Non si erano sbagliati più di tanto: fuoco, acqua, terra ed aria interagiscono e modellano il pianeta, forniscono alla vita i mezzi necessari per proliferare, creano e distruggono mantenendo comunque intatta l'energia che li muove e che è soggetta alla loro forza. C'è però un qualcosa che secondo me viene prima, che è davvero alla base di tutto quanto, e che gli antichi Greci non potevano assolutamente constatare poiché non potevano immaginare che cosa realmente fosse. O meglio, potevano immaginarlo ma mai avevano avuto esperienza diretta con questo elemento. Dico che potevano immaginarlo perché comunque il più grande ed inspiegabile evento naturale che ai loro occhi si poneva nella quotidianità era il fulmine, non per nulla poi attribuito alla rabbia del padre degli dei, Zeus, e se alla loro più grande divinità davano la paternità della saetta, probabilmente un occhio di riguardo verso l'elettricità ce l'avevano già allora. E l'origine, l'archè vero e proprio, secondo me non può che essere l'elettricità e tutto ciò che da essa deriva. Pensiamo al magnetismo, alla consistenza delle cose, a come gli atomi si combinino tra di loro. Pensiamo al pensiero, al nostro sistema nervoso, al suolo ruolo fondamentale che ha nella chimica e nella biologia. Perché alla base di ogni cosa che esiste nell'universo c'è un legame, promosso dall'elettricità, che fa sì che due o più oggetti si attraggano, si combinino, si mescolino dando vita a qualcosa di nuovo. E sono questi legami a far sì che tutto ciò che ci circonda sia tangibile, che abbia una forma ed un volume, e che quindi non sia penetrabile, come penetrabili non lo siamo noi. Come sono questi legami, alla loro reazione allo sfregamento con altri oggetti, a dar vita all'attrito, la forza che ci permette di muoverci, di toccare, di sentire sulla pelle il resto del mondo. Tutto ciò che è legato quindi alle forze, dalla centrifuga a quella di gravità passando per quella d'attrazione e quella centripeta, è figlio dell'elettricità, dei legami, di questa estrema forza di energia che è madre unica dell'universo. L'elettricità è il principio, l'origine, l'archè.
Ma forse, sebbene 2600 anni fa non fosse stata presa direttamente in considerazione, il fatto già solo che Empedocle considerasse inscindibile la tetralogia degli elementi si può interpretare come un segnale della presupposizione di un legame tra questi, che l'elettricità rappresenta. Del resto, poi, a termini legati all'elettricità si è ricorsi per definire quelli che sono i più classici degli incontri ricchi di intensità, e di ciò che da questi incontri si viene a stabilire: perché si parla di colpo di fulmine, si parla di scintilla che scocca, si parla di attrazione tra le persone, di affinità (che null'altro è che la compatibilità "biochimica"). E si parla di energia trasmessa, data, creata, a volte distrutta e tolta, ed è un'energia elettrica: perché è l'energia che attiva i neuroni, che a loro volta attivano le ghiandole, ma anche il cervello, il pensiero, come attivano gli arti, le labbra, il corpo tutto. L'elettricità è la forza dell'amore, è la forza della vita, è la forza dell'universo. L'elettricità è amore, è vita, è l'universo tutto.
Tutto questo discorso riguardante l'elettricità è figlio di tanti documentari riguardanti la fisica, gli studi del liceo, ma anche l'analisi del linguaggio, di cosa possa nascondersi dietro l'accezione "colpo di fulmine"... è figlio anche della mia esperienza empirica riguardante tutto ciò che sopra è riportato, perché alla fine il segreto di tutto è dare un senso alle proprie esperienze, a ciò che si è visto, sentito, percepito, detto, fatto, vissuto. I primi filosofi sostanzialmente agivano così, per il puro piacere di scoprirsi, scoprire e far scoprire.
Perché anche scoprire, spostando questo termine in un altro campo semantico e cambiandone così il significato, è un atto che avviene soltanto se c'è elettricità nell'aria...
Avevo argomentato, mesi addietro, riguardo la sterilità della suddivisione in materie sempre più circoscritte e settarie le materie umanistiche. Una sterilità che è difficilmente superabile senza un'adeguata attitudine mentale in grado di creare connessioni tra una disciplina e l'altra, un'epoca e quella successiva o precedente, una nazione e l'altra. E tutto ciò è logicamente voluto per rendere quasi inutile lo studio fine a se stesso, privilegiando quello atto a formare figure in grado di essere super performanti in un ristretto ambito, salvo poi fallire miseramente una volta spostate di qualche centimetro. Del resto gli individui sono visti come serbatoi dai quali principalmente attingere e nei quali dev'esserci lo stretto indispensabile. Perché se in un contenitore ci metti tante cose differenti, se inserisci la mano per pescare ciò che ti serve, è probabilisticamente difficile venire accontentati. Un po' come alla lotteria...
Questo schema è probabilmente alla base di questa nostra società, una società che, come non vuole darci la possibilità di conoscere il modo "universitario" il mondo, non desidera neppure che si sappia riconoscere i veri problemi, il vero male, i veri soprusi in atto in tutto il mondo. Scrivo queste righe oggi perché oggi è la Giornata mondiale contro l'omofobia, ma potrei scriverle ogni settimana, cambiando solo la causa scatenante di queste mie riflessioni.
Definiamo innanzi tutto non tanto cosa sia l'omosessualità ma il perché questa sia motivo di discriminazione: gli omosessuali sono discriminati per un motivo semplice, lampante. Sono in minoranza, e sono diversi. Sono in minoranza e sono diversi come in minoranza e diversi sono gli stranieri, erano gli ebrei in Europa nel '900, erano i neri negli Stati Uniti. La paura del diverso, la xenofobia, è sempre stata la scintilla che ha dato il via ad ogni discriminazione per motivi religiosi, politici, sessuali. Ed oltre tutto c'è una componente aggiuntiva assolutamente da non sottovalutare in tutto questo quadro: oltre ad essere pochi e diversi, sono anche ritenuti più deboli, e quindi facilmente "estirpabili", ma anche ottimi capri espiatori per giustificare una qualsivoglia situazione contingente: "E' colpa degli immigrati se l'Italia va a rotoli"; "E' colpa degli ebrei se c'è la peste"; "E' colpa dell'omosessualità se esiste una crisi dei valori cattolici"... e così via, in ogni tempo ed in ogni spazio. E non facciamo l'errore di vedere il tutto come imposto dall'alto, come se l'idea che la colpa è di questa o quell'altra categoria di essere umani minoritaria ed in posizione di subordinazione sia figlia di decisioni sempre prese a tavolino. Perché se è pur vero che certi messaggi vengono amplificati da chi in quel momento ha la possibilità, ovvero il potere, di farlo, è anche vero che certa gente ha il potere perché qualcuno gliel'ha dato. La politica è questa: gente come Salvini, Giovanardi, La Russa parla al Paese intero perché parte del Paese ha voluto che arrivassero al punto in cui si trovano ora, e per arrivare a questo punto hanno dovuto raccogliere consensi, e per raccogliere consensi hanno portato avanti istanze sentite da parte della popolazione.
Allo stesso tempo, però, fioccano le giornate contro questo tipo di manifestazione di odio pre-concettuale, che può essere espresso a partire dalla violenza verbale, passando per quella psicologica e arrivando a quella fisica: la giornata contro il razzismo, la giornata contro la violenza sulle donne ("categoria" sui generis, che comunque è sempre stata oggetto di vessazioni da parte della società), la giornata contro la fame nel mondo, la giornata contro... Il problema è che queste giornate sono, come l'insegnamento delle scienze umanistiche in modo estremamente settoriale, inutili, fini a se stesse. Sono delle ricorrenze futili e prive di qualsiasi significato, se non il semplice riconoscere l'esistenza di un problema, sottolineare l'impegno primario per debellare questa ingiustizia... e poi, il silenzio. Tanti proclami, tante manifestazioni colorate, e poi la solita indifferenza, perché comunque bisogna prepararsi il discorso e lo stato d'animo per affrontare una nuova giornata contro l'ennesimo sopruso.
Anche perché dati alla mano il razzismo è sempre più una piaga sociale della nostra epoca, i femminicidi continuano ad animare le cronache dei telegiornali, i fascisti continuano a pestare omosessuali una domenica e l'altra pure, le minoranze religiose vengono costantemente additate come causa di una deriva dell'etica morale. Però si è tutti Pilato, in queste situazioni: discorso, commemorazione, cordoglio, sdegno, accenno di forte presa di posizione contro l'ennesima piaga sociale ed infine l'ennesima ammissione di impotenza giustificata con mille frasi di circostanza.
Sarebbe invece molto semplice inculcare nella testa della gente una facile equazione mentale, che di fatto difende ogni categoria sopra citata e condanna ogni nuovo crimine creato ad hoc giusto per fare bella figura in Parlamento. "Ogni tipo di violenza perpetrata nei confronti di un altro individuo è reato penale, a prescindere da ogni motivazione che ha portato a compierlo". FINE. E non si scappa da qui: si insegnerebbe il rispetto per qualsiasi altra persona che ci circonda, che si trova sul nostro stesso suolo giuridico e che mette nella condizione me, italiano, eterossesuale, "cattolico" e maschio a rispettare le stesse leggi di qualsiasi persona che si discosta per una o più caratteristiche dalla mia descrizione. Non è facendo leggi a difesa degli omosessuali, inserendo il reato di femminicidio o la protezione di questo credo o di quella nazionalità che si risolvono le cose, ma anzi si va a creare un pensiero comune che vede paradossalmente l'italiano "standard" in una condizione di apparente discriminazione. E' questo uno dei tanti errori che le sinistre hanno fatto in passato, ovvero quello di affrontare di petto una situazione contingente particolarmente sentita dalla popolazione che ha a cuore la preservazione ed il rispetto di ogni tipo di differenza, dimenticandosi poi di mettere nella condizione la totalità dell'Italia di poter innanzi tutto rispettare se stesso e quindi chiunque ci circonda. E su queste battaglie sterili la sinistra ha perso più e più volte, e le destre si sono rafforzate, raccogliendo sempre più consenso tra gli ottusi ed i bigotti, tra i reazionari ed i xenofobi, sfruttando la loro forte opposizione ad ogni equiparazione tra "noi" ed i "loro" di turno per poi fare i propri porci comodi in sede economico-sociale.
Spero che presto si arrivi alla presa di coscienza del fatto che più che una giornata di commemorazione o ricordo per questa o quella categoria oggetto di discriminazione sia necessario agire trecentosessantacinque giornate all'anno per la parità di diritti di ogni singolo individuo di questo Stato. Sia esso gay, nero, ebreo, donna... Questo sarà l'unico modo per raggiungere un reale progresso, un effettivo benessere diffuso ed una assoluta presa di coscienza che la diversità non è un fatto biologico ma puramente economico. Perché, sotto sotto, tutto ciò che è dettato, dal basso verso e l'alto e viceversa, in questa società, ha una matrice meramente finanziaria.
La cosa che a me spaventa molto, che mi da ribrezzo, è il buio che avvolge il cervello, lo sguardo, il cuore di milioni di persone che abitano il mio stesso Paese, e queste tenebre si sono prese possesso sia di chi da sempre si è negato la luce sia di chi la luce l'hanno accolta soltanto finché è stata loro utile, per poi rinnegarla una volta cessata la sua funzione. Sì, ho paura del buio.
Illustrazione estemporanea di Giulio Peranzoni durante "Sai com'è" dei Gang & Gaetano Liguori, alla fine dello spettacolo di Daniele Biacchessi "Giovanni e Nori. Storie d'Amore e Resistenza"
12 maggio 2015. Alba, provincia di Cuneo. Sala Beppe Fenoglio. Alba-Fenoglio è uno di quei binomi che rimarranno nell'eternità delle memorie, della letteratura, della Resistenza. Perché Fenoglio prima di diventare un partigiano, uno scrittore, un narratore della lotta partigiana era un intellettuale, amante della filosofia, della lettura, della conoscenza. Ed era nato ad Alba, nel 1922, da una famiglia come tante, di classe sociale medio-bassa, che però desiderava dare ai propri figli una vita migliore insegnando loro la cultura sì del lavoro, ma anche della lotta sociale in nome del progresso comune. E questa è una storia comune, una radice propria di tanti giovani che, dopo il '43, si sono diretti verso le colline, con qualche vecchio fucile in spalla, poche cartucce nelle tasche ma una volontà, una passione ed un amore nel cuore più grandi di ogni fatica, di ogni sacrificio, di ogni paura. Fenoglio era ad Alba il 10 ottobre del 1944, quando "la presero in duemila", ed ad Alba era quando il 2 novembre "la persero in duecento". L'occupazione partigiana di Alba durò per meno di un mese, ma la sconfitta albese è una di quelle battaglie perse che non sono sinonimo di sconfitta in guerra. Perché a distanza di cinque mesi l'Italia sarebbe stata finalmente liberata, e Beppe, come altri intellettuali che hanno combattuto, ha raccontato nei suoi libri le sue esperienze, le sue lotte, gli intrecci continui tra amicizie, amori, fughe, avanzate. Il sapore del fango, l'umidità dei boschi alpini, la ricerca del cibo, l'assistenza dei tanti paesani che in quei giovani di grandi speranze ci credevano fermamente. Dopo la fine della guerra Fenoglio ebbe modo di conoscere Calvino, Vittorini, Natalia Ginzburg, grandi autori ma soprattutto grandi personaggi estremamente attivi durante la Resistenza. E nacquero così nuovi intrecci, reciproci aiuti, reciproche attenzioni, perché prima di qualsiasi altra cosa era fondamentale attestare ciò che in quegli anni successe: le generazioni future dovevano sapere, ricordare, tramandare ciò che era stato il Ventennio Fascista e cosa fu necessario per porre a questo nefasto periodo la parola fine.
Sono degli intrecci, intrecci che sono alla base delle storie, da quelle più recenti alle più antiche della storia dell'uomo. Ed è una storia di intrecci quella che il 12 maggio 2015, ad Alba, nella Sala Beppe Fenoglio, è stata raccontata da Daniele Biacchessi: intrecci che, se osservati in modo superficiale, possono apparire casuali, ricchi di coincidenze, alquanto fortuiti. La verità è che ad avvicinare i fili delle vite dei personaggi che animano questa storia sono la Resistenza, l'amore per la propria patria, per i propri ideali; e l'amore nato tra i due protagonisti di questa "Storia d'amore e Resistenza" è stato partorito da un grembo fertile figlio anch'esso degli amori che hanno portato non solo i due fili ad incontrarsi ma ad intrecciarsi, perdersi, ritrovarsi per poi non lasciarsi più. Perché questa è la storia del compagno Giovanni Pesce e della compagna Onorina Brambilla: lui alessandrino, lei milanese. Pesce era emigrato con la famiglia in Francia durante i primi anni del Ventennio perché il padre, socialista, si trovò obbligato a lasciare l'Italia per dare un futuro alla propria famiglia. In Francia Pesce conobbe le miniere, le storie dei minatori, molti di loro come lui esuli, ed una volta maturo decise di partire per combattere la sua prima Resistenza, quella spagnola, con le Brigate internazionali e contro i Franchisti ed i nazi-fascisti. La perse la sua prima Resistenza, ed una volta tornato in Italia, poco dopo l'inizio della Seconda Guerra Mondiale, venne incarcerato a Ventotene perché antifascista. In prigione ebbe modo di arricchire ulteriormente la sua coscienza politico-sociale grazie ad uno strumento che ormai è fuori moda, ovvero il libro, ovvero il pensiero filosofico, ovvero la base di ogni grande azione dell'uomo. Dopo l'Armistizio raggiunse Torino e si unì ai GAP del capoluogo piemontese, e fu tra i più grandi partigiani che la città sabauda poté ammirare. E sicuramente ebbe paura più di una volta, sicuramente fu condizionato dall'incertezza di premere o meno un grilletto o di posizionare o meno un ordigno, ma la sua volontà, la sua voglia di libertà, la sua tenacia lo portarono ad agire sempre nel modo giusto. A Milano ci arrivò nel maggio del '44, dopo che, con il grande Dante Di Nanni, aveva sabotato un'antenna presieduta dai fascisti che disturbava le frequenze di Radio Londra. Di Dante Di Danni ho già parlato prima del 25 aprile, ma è fondamentale mettere in luce anche in questo caso un altro intreccio: quello che ha portato a combattere fianco a fianco due grandi partigiani, quello che ha fatto sì che la memoria del partigiano caduto potesse venir raccontata grazie al ricordo del partigiano sopravvissuto e che fino all'ultimo ha cercato di salvare la vita al proprio compagno.
A Milano Pesce riorganizzò il gap locale, prese contatti con gli altri partigiani, cominciò a pianificare la resistenza. E conobbe Onorina, "Nori", una compagna che sarebbe diventata la SUA compagna. Nori fu però arrestata e portata nei campi di concentramento di Bolzano, Pesce rimase fino al giorno della Liberazione a Milano, continuando a combattere, con il cuore mosso non solo più dall'amore per la libertà ma anche dall'amore per la donna amata. Il 25 aprile 1945 Milano festeggiò la Liberazione, e pochi giorni dopo anche Nori poté raggiungere la città: perché i nazisti abbandonarono Bolzano, liberarono i detenuti, e per Nori, come se non fosse successo nulla nei venti anni precedenti, fu semplicissimo raggiungere il capoluogo longobardo: stazione di Bolzano, treno, Milano, tram, sede del GAP. Giovanni.
Giovanni e Nori si sposarono due mesi dopo, e sebbene deposero i loro fucili mai smisero di maneggiare le armi della lotta sociale, della memoria, dell'impegno. Entrambi si impegnarono anima e corpo per l'ideale comunista, ma finalmente potevano farlo sempre insieme, fianco a fianco, fino alla fine dei loro giorni.
Questa è la storia di Giovanni e Nori, questa è la storia che ci è stata raccontata da Daniele Biacchessi ad Alba. E limitarmi a citare soltanto la penna e poi voce che ci ha accompagnato lungo i fili delle vite di Giovanni Pesce ed Onorina Brambilla sarebbe uno sbaglio, perché porterebbe alla non citazione di un altro intreccio. Quello tra la letteratura e la lettura, rappresentate da Daniele Biacchessi, la musica dei Gang e di Gaetano Liguori e le illustrazioni di Giulio Peranzoni: un'opera multimediale quella andata in scena alla Sala Beppe Fenoglio, che ha coinvolto, commosso, scosso, e spero risvegliato in chi ancora ce l'aveva sopito il senso della propria esistenza, della propria voglia di essere, esistere, resistere.
E, giusto per sottolineare una volta in più l'importanza degli intrecci, intrecci che sostanzialmente condizionano estremamente il processo del filo che ognuno di noi rappresenta, è importante sottolineare come le canzoni eseguite dai Gang siano esemplari per sì raccontare la Resistenza, ma anche per mostrare in quanti alla Resistenza hanno dedicato le loro note e le loro parole. Perché oltre a La pianura dei sette fratelli, brano immancabile quando si parla di Lotta partigiana e scritto dai Gang stessi, sono state cantate Dante di Nanni degli Stormy Six, Su in collina di Guccini, Sai com'è (testo scritto da Lolli) ed Eurialo e Niso di Bubola.
La vita di ognuno di noi è il prodotto di milioni di intrecci, e la morale di questa storia risiede nel ricordare le storie di ieri, le memorie, gli avvenimenti che hanno fatto sì che ad un certo punto del nostro filo sia presente un nodo: uno dei tanti, forse, ma fondamentale per spiegare il motivo, insieme a tutti gli altri nodi, per il quale noi, adesso, in questo preciso istante, siamo quelli che siamo.
Grazie a Daniele Biacchessi, ai Gang, a Giulio Peranzoni, a Gateano Liguori per il meraviglioso spettacolo, per avermi commosso nuovamente con le storie della Lotta partigiana che tanto amo leggere e raccontare ma che, mostrate così, hanno tutto un altro sapore. Grazie ad Alba che si è dimostrata sempre attenta al suo passato, alla memoria di uno dei suoi migliori figli e di ciò che lui, Beppe, ha rappresentato per Alba e per l'Italia intera.
E grazie a voi, grandi uomini e donne che soprattutto tra il '43 ed il '45, ma anche prima e dopo, avete fatto sì che in Italia si possa ancora provare a pensare, a raccontare, a ricordare, a sperare, a vivere.
Non posso che chiudere questo mio post con la canzone che raccoglie tutta la storia, che la sintetizza e ne mostra la morale più profonda, più intensa, più vera. Giovanni e Nori. Storia d'amore e resistenza, non poteva che concludersi con l'esaltazione di queste due sfumature di rosso, che da sempre e per sempre determineranno il percorso del mio filo e ne detteranno i futuri intrecci.
Esiste sempre un luogo, o meglio un locale, al quale leghi parte della tua vita, della tua storia, e che quindi, implicitamente, contribuisce alla tua formazione, alla tua crescita, determinando in più modi l'essenza del tuo Io. Basta pensare al fatto che quando abitualmente si frequenta un locale inevitabilmente si ha modo di entrare in contatto con chi, come te, lo vive soventemente: la clientela, i baristi, chi va a suonarci. E per cui si viene a creare una vera e propria cerchia di conoscenze, che gravita attorno a questo posto, che contribuisce al rendere allo stesso tempo il posto in questione migliore o peggiore.
Da circa otto anni L'Orso di Vigone è per me questo luogo: è il ritrovo, è la base dalla quale partire con gli amici per altri posti, altri paesi, a volte altre regioni; ma spesso oltre che essere il ritrovo è anche e soprattutto la meta delle mie serate, delle serate con i miei amici più cari, che con il passare dei mesi diventano sempre più numerosi proprio perché lì, nel dehor o ai tavolini fuori dall'entrata, ci siamo conosciuti, abbiamo cominciato a scherzare insieme, a bere insieme, e poi a parlare di cose più serie. Ne è un esempio lampante il molto citato (nelle pagine di questo blog) Ivan, che se non fosse stato per l'Orso probabilmente non avrei mai conosciuto, ed il discorso riguardante Ivan vale anche per Valentina, Beppone, Sara, Bruno, Annalisa e via dicendo. Ed anche l'Orso è arrivato un po' per caso nella mia vita: erano le prime sere che si usciva anche in settimana, nonostante la scuola, ed ovviamente anziché andare fino a Saluzzo si preferiva restare nei paraggi, anche perché ancora si era senza macchina ed a turno il padre mio o del Biondo doveva venirci a prendere. L'Orso era uno dei due locali che frequentavamo in quel periodo, e quando chiuse l'altro ovviamente si fecero più frequenti le nostre serate all'Orso. Quando poi finalmente si ebbe per le mani quella tessera rosa che è sinonimo di indipendenza, l'Orso divenne una costante delle nostre settimane. Anche perché già avevamo alcuni amici di Vigone e dintorni, e per cui trovarsi lì era la cosa migliore, perché oltre tutto si riusciva ad unire il bello dell'essere con CHI si voleva essere ed il bello dell'essere DOVE si voleva essere. Eravamo ancora tutto sommato dei giovincelli, ma a forza di passare lì buona parte delle nostre serate ci ritrovammo ad avere la possibilità di interagire con gente più grande, e così più generazioni si erano trovate a venire a contatto, a scambiarsi le esperienze, a darsi consigli, a confrontarsi. Perché spesso ad un tavolo ci si ritrova con alcuni che hanno qualche anno in meno di noi ed altri che ne hanno anche venti in più, e per cui, dato che spesso si parla di musica, sentirsi raccontare il tour degli Iron Maiden del 1986 o il concerto dei Pink Floyd del 1994 è qualcosa di meraviglioso. Perché comunque l'Orso, forse non tanto per scelta ma perché così è andata, è frequentato da persone che hanno tante cose da dire, da raccontare, da condividere, e bene o male un po' tutti noi ci siamo arricchiti ed abbiamo arricchito chi ci ha ascoltato, e soprattutto abbiamo reso l'Orso un bel posto dove chiacchierare, scherzare, a volte cantare, altre suonare.
Ma in verità la gran parte del merito dell'Orso e del suo successo in questi suoi vent'anni, che sabato sera si sono solennemente ed alcolicamente celebrati, sta in chi l'Orso l'ha fatto nascere, sta nella voglia di renderlo ogni giorno più accogliente, più piacevole, mettendo spesso nella condizione molti di noi a chiedersi perché si dovrebbe andare da qualche altra parte quando c'è l'Orso? Perché l'Orso è come una seconda casa, è quel posto in cui a qualsiasi ora del giorno o della sera sai che puoi fare quel bel discorso, come quelli che spesso mi capita di fare con Angelo, ma allo stesso tempo puoi parlare dei buoni vecchi Litfiba con Domenico ed Alessio, di calcio, e di mille sciocchezze ma anche tantissime cose interessanti. E poi si beve bene, spesso e volentieri, si bevono i migliori mojito della zona che nulla hanno da invidiare a quelli di alcuni locali di Torino, si mangia bene, e per cui cosa manca all'Orso per essere considerato una seconda casa?
Nulla, anche perché, almeno per quanto mi riguarda, anche quando si parla di politica mi trovo spesso d'accordo con chi l'Orso lo gestisce e buona parte delle persone che lo frequentano, rendendolo quindi un perfetto luogo in cui dar vita a dei Simposi, più alcolici che mangerecci, che talvolta durano per ore intere, anche dopo l'orario di chiusura. Perché ormai ci si conosce quasi tutti, ed anche quando pensi di rimanere da solo al tavolo spunta sempre un volto amico a farti compagnia... e se proprio questo non succede, dietro al bancone c'è sempre un buon amico, oltre che un ottimo barista, con cui fare due chiacchiere e sentirti, ancora, nuovamente, a casa.
Tra l'altro, l'altra sera, ripensando ad alcuni bar che nelle canzoni, nella letteratura e nei film vanno a rappresentare il tipico luogo in cui ci si trova e si passa parecchio tempo insieme, non ho potuto non paragonare l'Orso a quello dei quattro pensionati seduti al tavolino della Vecchia Città di De André, o al bar di Guccini nel film Radiofreccia, o ancora a quel famoso "Stessa storia, stesso posto, stesso bar" degli 883. E quando, soprattutto nelle canzoni, i contorni immaginari dei luoghi descritti vanno a coincidere con quelli reali dei luoghi che frequenti, allora non vi è alcun dubbio che quel posto, ormai, è parte integrante della tua storia, della tua vita, del tuo Io.
Grazie all'Orso, grazie a Domenico, ad Angelo, ad Alessio, a Massimo, a Ricu, grazie alle cameriere, da Saieda a Federica, grazie a chi lo frequenta. Grazie, ed auguroni, sperando che tra trent'anni ci si ritrovi a festeggiare il cinquantenario! Magari Claudio, Biondo, Simo ed io non saremo pensionati, ma saremo comunque mezzi avvelenati... come i pensionati di De André!!!