lunedì 30 marzo 2015

"La buona novella" di Fabrizio De André

La prima copertina di La buona novella (1970)



Ieri era la Domenica delle Palme, giorno in cui comincia la settimana santa, i sette giorni più importanti del Nuovo Testamento, quelli in cui Gesù è finalmente giunto a Gerusalemme, pronto a predicare nella capitale di Israele. A Gerusalemme però troverà la morte, ucciso dai Romani per volere dei Farisei, tradito dal suo amico Giuda e rinnegato da Pietro, colui che da più tempo lo seguiva e che di lui prenderà, per primo, il testimone. Potrà sembrare paradossale, ma è proprio in questi pochi giorni che emerge secondo me la natura umana, terrena e temporale della figura di Gesù. Non i miracoli, non la discendenza diretta da Dio, non le sue parole apparentemente trascendentali sono il cardine delle sue ultime ore, ma elementi comuni nella vita di ognuno di noi. Il tradimento da parte di un amico, l'apprensione di chi ci ama per il nostro futuro, la disperazione di una madre e di una compagna di fronte alla morte del figlio e del partner, il disprezzo e l'odio di chi teme un individuo così speciale, così carismatico, così "potente". E la morte in sé, propria di ogni essere vivente, elemento imprescindibile di ogni realtà che può esser definita tale. Ciò che vive deve morire, poiché se non muore presumibilmente non ha mai vissuto. E' biologia, è scienza. 

Gesù come uomo, come uno di noi, come persona che nasce, vive, muore e lascia un ricordo immortale, tanto da risorgere ogni giorno nella mente di miliardi di persone. Ed è su questo che gioca Fabrizio De André, è la natura umana del Cristo che risalta ne "La buona novella", l'album che l'ha sostanzialmente consacrato nel panorama del cantautorato italiano. Parla di Gesù questo disco, ma parla di Gesù attraverso le bocche di chi gli ha dato vita, di chi l'ha cresciuto, di chi l'ha visto morire, di chi, con un solo sguardo, condividendo con lui il momento più tragico della propria esistenza, l'ha capito ed apprezzato, ammirato, tanto da rimanere lui stesso impresso, per sempre, nella mente del Cristo. Di fatto, Gesù non viene mai nominato in tutto l'album ma è presente in ogni singola canzone. Gesù ce lo immaginiamo come naturale conseguenza al matrimonio combinato tra Maria, ancora bambina, e Giuseppe, lo vediamo tra le mani di Giuseppe piene attorno ai fianchi di Maria prima che lei racconti il suo sogno, prima che lei, di fatto, confessi il suo tradimento, è nella dolcezza di Ave Maria, dove viene cantata la meraviglia della gravidanza, del parto, del passare dall'essere femmina all'essere madre. Un inno alle donne e, per inciso, la più bella canzone che mai sia stata scritta per l'altra metà del cielo. E c'è poi nel presagio di morte che viene scandito dal ritmo marziale che accompagna il dialogo tra Maria ed il falegname che sta ultimando le croci sulle quali moriranno Gesù, Tito e Dimaco, nella frenesia e nella tensione delle ultime ore, che nonostante glorifichino ciò che di grande quell'uomo aveva fatto ed i semi che aveva seminato per l'avvenire mettono in luce la naturale paura della morte, il suo rifiuto, la voglia di vivere ancora. Cosa c'è di più umano e naturale di tutto ciò? C'è il dolore di tre madri che devono sopravvivere ai rispettivi figli, che vedono il loro amore ed i loro sforzi agonizzare in croce. E c'è il porsi quesiti fino all'ultimo secondo di vita di un uomo, che dieci volte si chiede il senso di regole divine che, di fatto, non vengono rispettate in primis da chi queste leggi vuol fare rispettare. 

Non è Dio e non è la religione che trionfa, ma l'uomo, la sua capacità di autodeterminazione, la sua emotività, il suo errare ed il suo desiderare, il suo non voler sottostare non tanto a leggi divine ma leggi naturali. Ed a spiegare il corpus di questo disco sono la prima e l'ultima traccia, simili nella melodia ma totalmente opposte nel contenuto, nel testo, nel titolo. Da "Laudate dominum" a "Laudate hominem" il passo è breve, dal voler vedere lontano e trascendentale una figura come Gesù al sentirla realmente come un nostro fratello è sufficiente prendere coscienza della realtà storica del Cristo, immortale non tanto perché semidivina ma perché sulla Terra ha lasciato un ricordo indelebile, indimenticabile. 

De André ha raccontato vita e morte di Gesù, ha fatto risaltare la sua grandezza attraverso l'amore ed il dolore della madre, la stima di Tito, il fermento che ne ha caratterizzato la fine. E probabilmente non sarebbe stato tanto diverso come disco se al posto di Gesù ci fosse stato un altro grande personaggio della storia dell'uomo, ma umanizzando Gesù ha eliminato ogni scusa ad ogni uomo di non dover provare ad essere migliore solo perché non divino. Del resto questi sono alcuni dei cardini dell'anarchia: l'autodeterminazione, la libertà che finisce dove inizia quella di un altro individuo, il divincolarsi da schemi malati e precostruiti, che siano questi di natura religiosa o temporale. 

"Storia di un impiegato" sarà sì estremamente diretto e senza fronzoli, ma "La buona novella" è ancor più ricco di significato, è ancor più politico, è soprattutto è più attuale. Più reale. 

E come ogni anno, sotto Pasqua, eccomi ad ascoltare "La buona novella". Un rito ateo, un ossimoro. Ma, come la religione, quando viene messa in gioco l'emotività, c'è poco da sindacare. Resta solo da premere play.




Stefano Tortelli

sabato 21 marzo 2015

Sfogo di primavera




In queste due settimane di blocco totale del traffico di parole tra il cervello e le mani più di una volta ho provato a forzare questa condizione di stand by, aprendo il blog, prendendo in mano una penna, cercando qualche cosa da scrivere, da descrivere, da imprimere nella carta o sullo schermo. Ma non c'è stato verso, e dopo aver tentato diverse volte, in diversi modi, un approccio con la scrittura, ho lasciato perdere, guardando semplicemente i giorni passare e lasciando muti inchiostro e tasti. Ce la si prende sempre con il buio, ma un foglio bianco sul quale non si sa mettere in fila più di tre parole fa molta più paura delle notti più scure, anche perché nell'oscurità spesso si accende la luce dei pensieri, mentre di fronte alla lucentezza dello schermo o di una pagina ancora vuota i ragionamenti, talvolta, si nascondono tra le pieghe della corteccia cerebrale. 

Oggi è il primo giorno di primavera, e l'ultima cosa che dovrei fare è pensare a com'era un anno fa, a cosa stavo facendo, a cosa stavo aspettando, a come mi stavo preparando per una nuova esperienza che stava per fiorire con il primo caldo dei primi giorni di aprile. Troppa è la distanza tra ora ed allora, e non tanto di tempo quanto di umore, di sensazioni, di sentimenti, di desideri, di sogni. Ma molta è la distanza anche rispetto ad un mese fa, ed è su questo che vorrei riflettere, è riguardo a ciò che vorrei scrivere, per spiegarmi cosa può essere successo e darmi un suggerimento per come uscire da questa attuale condizione. Dopo aver dato l'esame a metà febbraio mi ero già pianificato i prossimi sei mesi: dare gli ultimi esami, laurearmi, i concerti a cui andare, le esperienze da vivere, le persone da conoscere e da ritrovare. Era tutto troppo bello, ero troppo pieno di energia, era tutto troppo facile. E paradossalmente era una delle prime volte che mi pianificavo il futuro con così tanta determinazione, proprio perché stavo facendo tutto per conto mio, senza basarmi sui desideri altrui, che fossero della famiglia, degli amici o di una ragazza. Erano cose mie, sono cose mie, che finalmente avevo deciso di programmarmi senza più ulteriori strappi, ritardi, rimandi. Mi alternavo tra la vita di studente e di docente, di amico e figlio, di scrittore e cantante senza far fatica, senza problemi. 

Quando si scrive all'imperfetto ed in positivo prima o poi deve arrivare un ma, e logicamente eccolo che compare a negare, di fatto, tutto ciò che finora ho scritto. Il riacutizzarsi di un dolore che per circa un anno sembrava sopito ha innanzi tutto sabotato la mia condizione fisica, i miei cicli circadiani, permettendomi di dormire quando gli antidolorifici fanno effetto e non quando effettivamente vorrei dormire; il riemergere di diverse paure legate a questo dolore, mai veramente studiato a fondo dai dottori perché ritenuto non particolarmente debilitante, ma che di fatto può limitare enormemente i miei sogni, i miei desideri, il mio futuro; ed il dispiacere nel rendermi conto che il mio silenzio non turba più di tanto, se non per quanto concerne il proprio personale ritorno e non tanto alla luce di una mia effettiva assenza. Son giusto un paio le persone che si sono preoccupate, che mi hanno chiesto, ed il paradosso è che una la conosco da giusto un paio di mesi e l'altra, sebbene faccia parte della mia vita da diverso tempo, non mi conosce chissà quanto ma forse ha veramente il piacere di volermi conoscere fino in fondo. Allo stesso tempo è anche vero che io quando ho bisogno non cerco, tento di fare meno rumore possibile, dando vita a compartimenti stagni nei quali isolo i miei problemi quando ho a che fare con situazioni o persone che, con i miei problemi, non c'entrano assolutamente, ma di fatto, che fossero le ragazze passate o i miei amici, quando ho provato a chiedere aiuto ho quasi sempre trovato la persona in questione intenta a costruire un muro: di silenzio, di accuse, di non voglia di esserci. Salvo poi sentirmi dire che mai mi han visto piangere, mai mi han percepito disperato, mai si sarebbero immaginati un dolore così grande dietro le mie battute, le mie lotte, i miei sorrisi, i miei "va tutto bene". E probabilmente questo è dovuto anche al fatto che di persone disposte a fare le due fasi ce ne sono poche: farsi aiutare più aiutare è alquanto complicato per molti mentre è normale per pochi. Forse è un'altra sfaccettatura di quella "storia sbagliata" cantata da De André, ma come mi ha detto una mia cara amica "Tu finché non ti sfracelli al suolo ti preoccupi più degli altri che sono lontani un chilometro dal baratro piuttosto che fermarti un secondo a cercare la corda per aprire il paracadute". Già, e probabilmente l'errore mio sta proprio qui: pensare che gli altri pensino come penso io, credere che le persone possano comprendere i miei silenzi come io comprendo i loro, sperare che l'empatia che è propria del mio essere sia propria anche di chi mi circonda. Sbaglio, e sbagliando mi illudo, ed illudendomi rimango deluso, e nella delusione nascono la rabbia, il dolore, la tristezza. Circa un anno fa scrivevo alcune mie riflessioni riguardanti il "Ti voglio bene", e mai come ora mi rendo conto di quanto sia falsa questa formula. 

Spero veramente che questo dolore che sento a livello fisico non sia l'anticamera per il più grande dolore che posso immaginare a livello psicofisico per il mio futuro, spero davvero che quando il ventiquattro aprirò la busta degli esiti io possa sorridere e tirare un sospiro di sollievo. Anche perché, se così non fosse, se il danno fosse tra l'altro permanente e non passeggero, davvero non saprei dove potrei trovare un minimo di conforto. 

Anche perché al momento non lo trovo nella musica, non lo trovo nello scrivere, non lo trovo in tutto ciò che dipende esclusivamente da me... e le motivazioni a tutto questo, a tempo debito, se sarà necessario, verranno fuori. 




Stefano Tortelli

sabato 7 marzo 2015

La giornata per le donne e contro gli stereotipi ed i luoghi comuni





Domani sarà l'8 marzo, la "Festa della Donna", una ricorrenza che ha importanza storica e politica, un giorno nel quale si dovrebbero esaltare le conquiste fatte in campo lavorativo e sociale da parte delle donne e degli uomini che con loro e per loro hanno lottato. Dovrebbe dunque essere un giorno di estrema unione tra le due "parti", una data sul calendario nella quale manifestare insieme l'uguaglianza sociale che riguarda le femmine ed i maschi. Dovrebbe essere questo, ma in verità è tutt'altro. E forse, in parte, è anche dovuto ad una parola che è stata mantenuta al singolare anziché venir riportata al plurale: "Festa della Donna" anziché "Festa delle Donne". Potrebbe anche sembrare un dettaglio, ma sottovalutare il potere della parola è un errore estremamente pericoloso. 

Di fatto, la prima Festa della donna è da collocarsi a New York e si è tenuta il 28 febbraio 1909, in seguito alle forti lotte sindacali che animarono la città statunitense già dal novembre dell'anno precedente: uno sciopero voluto dal Partito socialista americano che coinvolse principalmente ventimila camiciaie e che fu una delle prime grandi mobilitazioni "di genere" avvenuta dopo il VII congresso della II internazionale socialista del 1907, che si prefisse come obiettivi principali l'estensione dei diritti civili, lavorativi e sociali alle donne. Donne in quanto lavoratrici come i loro colleghi uomini, non donne in quanto femmine, visto che si chiedeva alle donne lavoratrici di allearsi agli uomini della stessa classe per conseguire i propri obiettivi e non appoggiandosi alle borghesi che reclamano il diritto di voto non tanto perché femmine quanto perché ricche. L'8 marzo 1917 scesero in piazza, a San Pietroburgo, migliaia di donne che reclamavano la fine della prima guerra mondiale e che vengono ricordate, per la loro azione e per quelle che ne seguirono, come le eroine della Rivoluzione di febbraio. E' quindi molto più probabile che l'8 marzo sia stato scelto per queste ragioni e non per commemorare la morte di 123 donne durante un incendio in una fabbrica newyorkese (che non si è verificato un 8 marzo ma il 25 marzo del 1911). Solo che farla passare come la ricorrenza delll'accidentale morte di donne operaie, per di più immigrate, negli Stati Uniti anziché riportare la verità ed asserire che ricorda la Rivoluzione di febbraio che diede il via alla Rivoluzione bolscevica ed al successo del comunismo in Russia non fa comodo a nessuno.

E dopo aver demolito il luogo comune in ambito storico, credo sia giusto passare alla questione principale, a quella del primo capoverso, al Donna anziché Donne. Come in tutte le cose, parlare al singolare di una categoria, che sia di persone, di oggetti o di idee e pensieri, porta inevitabilmente ad una generalizzazione, ad una stereotipizzazione, al crollo delle individualità e dei vari casi che animano la categoria in nome del cliché che si vuole promuovere. Ed è così che la donna che va celebrata cambia a seconda della situazione storica: se prima si esaltava la donna lavoratrice, che combatteva fianco a fianco all'uomo per conquistare un bene comune, che poteva, partendo da una situazione di parità, ambire, utilizzando gli stessi canali di accesso, ad una posizione lavorativa, allo studio, al diritto di manifestarsi dove più desiderava e venendo valutata soltanto in base alle capacità che dimostrava di avere per un determinato impiego, ora si celebra la donna arrivista, prevaricante, che attraverso il suo essere femmina può scalare le posizioni comportandosi secondo i cliché che hanno gettato un'onta millenaria su tutte le donne del mondo. Le donne sono sempre state insultate, come nella religione così nella dimensione temporale, e sempre si sono trovate in una posizione di subordinazione nei confronti dell'uomo in quanto padre-marito-padrone, unico membro della famiglia ad avere diritti nella società ed unico detentore di diritti nell'ambito familiare. Servitore della patria ma re della famiglia. E le donne erano schiave, erano oggetti, erano troie, erano streghe, erano veicoli di malattie. Erano volgari, immorali. Erano il male. 

C'è una cosa che mi fa profondamente tristezza ma che tutto sommato non mi stupisce dato il nuovo Medio Evo nel quale ci troviamo. Domani sera parecchie donne, come se fossero in permesso premio dalla galera della vita quotidiana, andranno a festeggiare la Festa della Donna con un rancore enorme dentro, comportandosi come da copione, esaltando gli stereotipi che da sempre le perseguitano ma sapendo che, per un giorno all'anno, godono di totale immunità. Insulteranno gli uomini, li malediranno, li useranno come oggetti, attuando la classica eccezione che conferma la regola, dando adito agli uomini gli altri trecentosessantaquattro giorni di fare ciò che è loro solito fare perché consapevoli che senza il giogo che sempre mettono alla loro donna, questa si comporta nel peggiore dei modi. Ed io mi chiedo: ma che bisogno c'è? E' così difficile comportarsi come i MIGLIORI umani (siano uomini o donne) ogni giorno e deprecare i comportamenti delle peggiori donne, non difendendole a prescindere perché femmine ma denigrandole in quanto essere umani che agiscono in modo sbagliato? E' così complicato per una donna giusta trovare l'uomo giusto e non dover così subire imposizioni, costrizioni, non dovendo così delegare ad un'altra persona il proprio potere decisionale? Dove sta l'inghippo, qual è il reale problema? 

Il reale problema sta nella mancanza di valori bipartisan che attanaglia gli ultimi trent'anni, la continua ricerca di un nemico comune da distruggere, senza pensare alle persone con le quali ci si schiera e senza considerare che forse anziché distruggere bisognerebbe prima di tutto migliorare se stessi. E migliorare se stessi significa lasciar cadere gli stereotipi che per anni hanno rivestito la persona in questione, che sia la donna, l'operaio, il comunista, lo studente, significa autodeterminarsi secondo la propria coscienza e non perché facenti parte di una categoria. E significa saper distinguere i comportamenti positivi e negativi della fazione a noi avversa per comprendere cosa veramente combattere, e quindi chi veramente combattere, e cosa invece mutuare, e quindi chi invece considerare proprio alleato anche se diverso da noi. 

Le donne non sono tutte puttane e gli uomini non sono tutti stronzi. Ci sono tante donne migliori di tanti uomini e tanti uomini migliori di tante donne. E non in base alla loro appartenenza ad un genere anziché un altro, ma in base alle proprie facoltà intellettive, alle proprie conoscenze, alla propria sensibilità, alla propria consapevolezza di sé. 

Farne una questione di genere è l'ennesimo errore, è stato il fallimento del femminismo, è stato l'ennesimo sbaglio di un certo tipo di fare politica. "Siamo donne, oltre le gambe c'è di più". E' vero in tanti casi... ma è proprio durante la Festa delle donne che si dovrebbe esaltare ancora di più questo slogan. 

E per finire, io continuo a pensarla come i latini che coniarono, seppur non letteralmente, il detto "Dietro ad ogni grande uomo c'è una grande donna", e che sarebbe meraviglioso potesse diventare simmetrico. E se guardo la mia biografia, le mie radici, il mio vissuto, di grandi donne ce ne sono state e ce ne sono. A partire da mia madre e dalle mie nonne, donne estremamente forti, coraggiose, intelligenti, dedite al lavoro, alla famiglia, alle passioni; mia zia Daniela, che nonostante abbia avuto una vita difficile in infanzia ha saputo autodeterminarsi, affermarsi, trovare l'uomo giusto e creare una bellissima famiglia dalla quale è nata mia cugina Silvia, che come tanti giovani combatte ma che non si è mai arresa; ad alcune delle ragazze che ho frequentato e che mentre erano con me hanno perseguito i loro sogni, i loro obiettivi, e non importa che si siano poi arenate, ma mi hanno mostrato come in tutto e per tutto erano come me, che di differenze non ce n'erano; o come la mia amica Chiara, che ha saputo affrontare dei dolori enormi con grande forza, con estrema intensità, trovando sempre un motivo per sorridere, o come Corinne che da quando è nata ha un sogno e che finalmente sta per raggiungerlo dopo aver lottato e combattuto per poterlo realizzare. Grandi donne ci sono state e ci sono ad animare le mie giornate, e spero che troverò altre grandi donne lungo il mio cammino. 

Alcune c'erano già, altre si son fermate per un periodo, altre ancora ci sono da tanto. Altre ancora verranno, passeranno, si fermeranno, resteranno. Ed a tutte le Donne con la D maiuscola, e non solo quelle pensate con amore, "io dedico questa canzone".





Stefano Tortelli


venerdì 6 marzo 2015

La sacra legge del gol







Sono sempre molto curiose le coincidenze nelle quali ci si imbatte durante il proprio cammino, soprattutto quando arricchiscono di ulteriori significati un dato momento, un evento, un qualcosa che ci si appresta a fare. Non sapevo che ieri sarebbe stato il compleanno di Pier Paolo Pasolini, e non ero neppure al corrente della sua passione per il calcio, un amore che superficialmente ben poco si sposava con le sue idee politiche, con le sue arti, con il suo essere fuori dagli schemi. Che poi gli schemi chi li decide? Se è pur vero che l'italiano medio è invasato di calcio, dove sta scritto che chi è considerato o si autodefinisce pecora nera o mosca bianca debba per forza di cosa disinteressarsi allo sport nazionale, o tuttalpiù tifare realtà tutt'altro che vincenti? Togliatti era juventino, ed appena risvegliatosi in seguito all'intervento subito dopo l'attentato di cui era stato oggetto chiese informazioni sulla partita, Berlinguer seguiva il calcio con estrema passione, Pertini... Pertini sappiamo tutti con che gioia partecipò ai festeggiamenti del mondiale vinto nel 1982. Questi sono gli esempi più lampanti e forse più significativi, perché nelle tre figure più importanti della sinistra italiana del dopoguerra la passione per il calcio era forte. Il caso di Togliatti poi è emblematico: il comunista più potente dell'Europa filo-americana, l'uomo che avrebbe potuto dare il via ad una nuova rivoluzione, colui che ha permesso al partito comunista di prosperare per circa trentacinque anni era tifoso della squadra degli Agnelli, dell'emblema della potenza del capitalismo, del simbolo del potere e della subordinazione nel mondo calcistico. 

Ieri sera sono andato a vedere con mio padre quello che in casa è il derby, la partita più sentita, quella della quale si parla per settimane prima che venga giocata e per altre settimane dopo che è stata disputata: Juventus-Fiorentina. Lui fiorentino e simpatizzante torinista, io juventino atipico, sempre felice nel vedere piccole realtà affermarsi (squadre come Empoli, Sassuolo, Livorno, Cesena) e non particolarmente ostile nei confronti degli storici nemici della Fiorentina e dei cugini torinisti: anzi, il fatto che al momento Torino sia la capitale italiana del calcio, così come lo è stata negli ultimi due anni, è per me una grande soddisfazione, e parte del merito va anche ai granata, che mai come negli ultimi anni sono stati così competitivi dagli anni '90 ad oggi. E' stata la prima volta che sono andato allo stadio con mio padre, e per lui è stata la prima volta che è andato allo stadio con il biglietto (lontani sono i tempi in cui, al Comunale, si poteva entrare a metà del secondo tempo quando venivano aperti i cancelli, facendo diventare così uno spazio libero ed uno spettacolo per tutti la partita di calcio; altri tempi, altra cultura, altra gente). Ho deciso di comprare i biglietti l'indomani la vittoria della Fiorentina nei quarti sulla Roma, con l'intenzione di fare a mio padre un regalo diverso per la festa del papà. Un po' in anticipo, ma le date, come le regole, son fatte per non essere rispettate. Ed è così che ieri sera eravamo allo Juventus Stadium, fianco a fianco, a guardare la partita: lui a gioire (sebbene dovendosi contenere) ed io ad inveire nei confronti dei giocatori della Juve che mai hanno dimostrato di voler e poter vincere la partita. Ma va bene così, perché altrimenti sarebbe stato un regalo a metà, un dono agrodolce, un piacere in parte limitato. Entrambi però osservavamo nello stesso modo le dinamiche che animano lo stadio, le due curve, la tribuna, gli spalti dedicati ai vip ed ai facoltosi, notando i tempi ed i modi che interessavano questo o quell'altro settore. Le tribune, ovvero i settori dedicati ai "normali" spettatori, erano già affollati quando, un'ora prima del fischio di inizio, abbiamo preso posto: abbonati, frequentatori dello stadio occasionali, famiglie e tifosi "in borghese" erano i principali animatori di questi spazi; le curve, sia quella sud del tifo organizzato juventino sia quella del settore ospiti si sono riempite pochi minuti prima del fischio di inizio, ed in base all'andamento della partita e del comportamento della curva rivale modificavano il loro atteggiamento, quasi mai indipendente dalla gara e dagli stimoli dei tifosi avversari; la tribuna d'onore è stata semivuota per almeno dieci minuti dopo il fischio di inizio, si è svuotata a pochi minuti dall'intervallo e si è di nuovo riempita giusto in tempo per assistere al secondo gol di Salah: l'importante non era essere della partita, l'importante era, per loro, avere il biglietto in tasca ed un posto riservato, il resto contava relativamente. Faceva poi specie notare poi come la coscienza individuale, una volta preso il proprio posto a sedere, fosse stata delegata allo speaker, ai capi ultrà, a ciò che in campo e sugli spalti succedeva. E tutto quanto è facilmente paragonabile ai meccanismi che animano sia una religione sia i suoi principali eventi, cioè i riti. Come ci si alza in piedi per il Padre Nostro o per un canto, ci si alza in piedi per recitare i nomi dei giocatori e cantare l'inno della squadra, come ci si chiude in se stessi nei momenti di preghiera lo si fa quando sta per cominciare la partita, come si discute fuori dalla chiesa, finita la messa, della predica domenicale, lo si fa fuori dallo stadio o tra gli amici della prestazione della squadra. Ed entrambi sono universi che noi non possiamo fino in fondo vivere, poiché in entrambi i casi ne siamo principalmente spettatori e non attori, per quanto comunque, se solo ne fossimo totalmente consapevoli, potremmo influire e non poco in entrambe le situazioni. Il discorso di Durkheim riguardante il sacro ed i riti è applicabile al calcio, dunque, come lo è per i concerti. Sostanzialmente, è applicabile a tutte quelle situazioni in cui l'uomo cede la sua individualità alla collettività, delegando ad altri o ad altro il suo potere decisionale. Si può definire questo un comportamento da pecoroni, da bigotti. Io preferisco limitarmi a dire che è un comportamento privo di alcuna visione critica di ciò che succede, che addirittura porta alla deformazione della realtà. E chi di calcio mangia lo sa, e non mi riferisco ai calciatori o alle società ma soprattutto ai giornalisti che sanno benissimo con chi hanno a che fare e sono in grado di farti vedere un fuorigioco che non c'è o negare un fallo di mano, come sanno ben cucire ad una squadra degli stereotipi o qualità immense ad un giocatore o ad un allenatore. E non c'è nulla di diverso da quello che succede nelle religioni quando i potenti di un credo fanno passare per mostri quelli che credono in qualcos'altro: i processi sono gli stessi, e per fare un esempio, se nel calcio i ladri sono gli juventini nelle religioni sono gli ebrei, ovviamente secondo gli occhi di chi è contro gli juventini e di chi è contro gli ebrei.

Non so se mai si arriverà a fare una guerra per il calcio come si è fatta per la religione. Di certo di gente che è rimasta uccisa in nome del pallone ce n'è stata, ce n'è e ce ne sarà, perché a quanto pare una sciarpa di un colore diverso rende una persona diversa da te: la rende nemica, la rende inferiore, la rende cattiva, la rende degna di sofferenza e morte. E sono sufficienti i cori negli stadi ed i commenti nei forum di calcio (ma vale anche per tutti gli sport più seguiti) per capire che queste righe non sono poi così lontane dalla realtà dei fatti.

Il calcio, in quanto sport (e come il calcio tanti altri), null'altro è che una guerra figurata. I giocatori scendono in campo, entrambe le squadre hanno una zona da difendere, hanno un qualcosa da controllare, hanno uomini il cui scopo è attaccare ed un unico obiettivo: perforare la difesa e mettere a segno il punto. Calcio, tennis, pallavolo, pallacanestro, ping pong e così via. E c'è chi vince, c'è chi perde e c'è chi pareggia. Come nei conflitti armati. Ed i conflitti armati sono spesso stati veicoli sui quali ha trovato posto una religione, pronta a viaggiare per raggiungere e colonizzare i nuovi territori conquistati, animati da altre persone, con lo scopo di aumentare la propria sfera di influenza, il proprio dominio spirituale. E come il cristianesimo è la religione che ha più credenti perché è quella che si è schierata più spesso dalla parte dei vincenti nelle guerre, la Juventus in Italia è quella con più tifosi perché ha vinto più scudetti, vincendo quindi più partite, vincendole sia in casa, difendendo le mura amiche, sia in trasferta, assediando gli stadi altrui.

"Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l'unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro", scrisse Pasolini. Aggiungerei anche l'aspetto bellico a quello sacro, sottolineando come tutto sia facilmente interscambiabile, interconnesso, trasportabile da una all'altra dimensione. Perché la religione è sacra di suo, il calcio ne ha assunto i contorni simili, la guerra ne adotta la terminologia o è adottata dalla religione per i suoi scopi.

Sarebbe bello che le parole di Pasolini valessero per quello che sono, per il significato più profondo che contengono, ovvero per come sia una fonte di estrema passione positiva uno sport, una passione che oltre tutto si condivide e non si vive da soli, che porta all'interazione, alla coesione, ma soprattutto alla consapevolezza che sebbene gli altri decidano di tifare un'altra squadra sono comunque movimentati dalla nostra stessa passione. Soltanto colorata diversamente. E sarebbe bello che si capisse che chiunque, a prescindere dal pensiero politico, dalla classe sociale di appartenenza, dal modo di essere che è proprio del suo io possa tifare questa o quella squadra, svincolandosi almeno in questo da tutto ciò che lo influenza nella vita di tutti i giorni, facendo sì che in quei novanta minuti sia lì, in trepidante attesa di un gol, come chiunque altro sia attaccato alla radio, alla televisione o seduto allo stadio. Lo sport teoricamente dovrebbe funzionare da livellatore delle classi sociali, sia per chi lo pratica sia per chi lo tifa, e fino ad un po' di anni fa era così, fino a quando si è semplicemente considerato un divertimento, una passione, un'evasione.

Perché per ora, in questa società, tutto ciò che assume importanza finisce per venire massacrato dagli interessi e dall'ignoranza. E' successo alle arti, è successo alla politica, è successo allo sport.

Io continuerò a tifare Juve fino alla morte, così come continuerò a portare avanti le mie idee ed a coltivare le mie passioni. E sarò ben contento di confrontarmi con chi, come mio padre, può essere in questo o quel settore di una "fazione" diversa ma mosso dalle mie stesse emozioni. Ecco perché Togliatti, Berlinguer e Pertini erano così legati al calcio nonostante la loro storia politica. Ecco perché Pasolini lo seguiva e lo praticava nonostante il suo mondo fosse apparentemente tanto diverso dal calcio. Nulla è razionalizzabile quando ha a che fare con le emozioni, e nulla dovrebbe essere assoggettato a delle leggi di mercato o a degli interessi quando il suo scopo primo è emozionare. Ma se son riusciti a farlo con l'amore, era ovvio che ci sarebbero riusciti con il calcio...

In ogni caso, comunque vada, come la si pensi... Forza Juve, fino alla fine!!!!


(PS: "Fino alla fine Forza Juventus", "Hasta la victoria siempre"... trovatemi le differenze)



Stefano Tortelli

lunedì 2 marzo 2015

Canzone della sera #7 - L'arte del dar voce agli oggetti






In letteratura ci sono tanti modi di esporre un racconto. Il narratore esterno, la narrazione in terza persona, il prologo in prima e la narrazione in terza per poi chiudere nuovamente in prima persona (o viceversa), un racconto che vive attraverso i dialoghi (tipico del teatro e delle opere liriche), e così via. Lo scrittore, dunque, come si usa principalmente dalla nascita della letteratura moderna, scrivendo ci racconta ciò che succede, come se fosse uno spettatore privilegiato, un cronista, un giornalista, ci riporta i dialoghi dei protagonisti, ed ha il potere di entrare nella mente delle persone, di descriverne le sensazioni, di leggere i loro pensieri. A volte invece si immedesima in uno dei protagonisti, raccontando dal suo punto di vista la storia, centralizzando tutta la vicenda attorno al narratore-attore: da vita così ad una specie di diario, dove vengono riportati minuziosamente i suoi scambi di parole e di opinioni con le persone che lo circondano, spesso accompagnati da commenti favorevoli o di biasimo, proprio come se, in fin dei conti, oltre a narrare ed a calarsi nella parte del protagonista giudicasse i vari personaggi da lui stesso creati, lasciando ben poco spazio all'interpretazione del lettore. 

Ciò che accomuna queste tecniche di racconto è il narrare in quanto umani, riportare ciò che altri umani vivono, pensano e dicono, e tutto ciò per far sì che altri umani leggano, si emozionino, pensino, interpretino la storia dandole un proprio senso, cercandole una morale, fino ad immedesimarsi in uno o più personaggi. Nelle favole e nelle fiabe spesso i protagonisti sono invece gli animali, e da Esopo a Sepulveda, passando per Kipling e buona parte della filmografia della Disney, altri esseri animati sono protagonisti di allegorie che trasportano nel regno animale tipiche situazioni della nostra realtà, a volte prendendo spunto, come per Il Re Leone, dalla letteratura che invece vedeva come protagonisti i nostri simili (Il Re Leone attinge a piene mani dai lavori di Shakespeare). Viene quindi sì data voce a chi non ne ha, ma lo si fa in ottica allegorica, spesso arricchita da una morale da trasmettere, dando così vita ad un processo che non si allontana poi molto dallo spostare in uno spazio immaginario o in un'altra epoca una vicenda che è propria della contemporaneità (ovvero ciò che fece Manzoni con I promessi sposi, trasportando e camuffando le problematiche del suo tempo due secoli indietro, facendo così una disamina politico-culturale dell'800 raccontando una storia ambientata nel '600). 

Probabilmente tutto questo è implicito nell'arte stessa del raccontare, e quindi non è nella forma del racconto che si può trovare la totale meraviglia che è propria del dar voce a chi o a cosa non ne ha. Tutta questa disamina è quindi pressoché inutile al mio scopo, ovvero al mettere in luce quanto sia meraviglioso trovarsi a leggere o ad ascoltare parole che idealmente escono da un'immaginaria bocca di un oggetto o di un'entità non animata. Tutto ciò lo si può riscontrare nella poesia ed in tutte le composizioni che hanno uno stile poetico. Come le canzoni. E credo che la composizione che più esalta questa stupenda arte sia la canzone Joan d'Arc di Leonard Cohen. Si può dar voce al fuoco e renderlo un amante passionale e desideroso di impossessarsi della carne della propria amata? Si può immaginare Giovanna d'Arco, in procinto di essere bruciata, affascinata dalle fiamme che la avvolgono come se fossero le braccia di un uomo durante l'amplesso? E si può credere al fatto che Giovanna si confidi e si sfoghi proprio con il Fuoco, che è lì sì per ucciderla, ma anche per ascoltarla, per consolarla, per amarla, ma anche per domarla e renderla umana, incenerendo di fatto le accuse che l'avevano portata sul rogo? Sì, si può. Immaginando si può far tutto ciò che si desidera, soprattutto se il mezzo per realizzare i  le immaginazioni è  è una forma d'arte. 

Credo non vi sia altra composizione al mondo che al meglio possa descrivere la purezza, l'intensità, l'importanza, la grandezza e la meraviglia che risiede nell'amore e nella sua più spontanea e naturale esposizione, ovvero l'atto d'amore, ovvero l'unione dei due corpi e delle due anime. E sarà pur vero che Giovanna d'Arco muore, uccisa dal Fuoco, vittima del suo amante, sarà pur vero quindi che Giovanna d'Arco muore per amore (e del resto il suo patriottismo cos'altro era se non amore per la sua terra, per il suo popolo, per la libertà?), ma a morire con lei, subito dopo, è il Fuoco stesso. Senza il combustibile, senza l'oggetto dell'amore, senza l'amore, anche il fuoco, anche l'altro amante, non può che seguire la stessa sorte svanendo, nascondendosi tra le ceneri dell'amata.

Ed il fumo che sale verso il cielo è il prodotto di quel rapporto carnale, ed in quel fumo ci sono sia Giovanna che il Fuoco, ed in quel fumo le due anime sono un tutt'uno, ormai mischiatesi, e probabilmente felici. Nonostante la fine, nonostante il non più esistere, nonostante la morte. 

Se poi, come se non bastasse la versione in lingua originale di Cohen, ci si aggiunge la traduzione in italiano di De André, allora si raggiunge l'apoteosi, la perfezione. Ed è così che oggi si raddoppia: perché parlare d'amore, cantare d'amore, fare l'amore è bello, ma poter far tutto ciò più volte, in molti modi, è meraviglioso.








Stefano Tortelli







domenica 1 marzo 2015

Non è patriota il nazionalista.






Ovunque ci si giri, qui in Italia, il messaggio che principalmente si riceve è: “Se vuoi sopravvivere, se vuoi realizzarti, vai via di qui, vai all’estero”. Curioso come questo sia, probabilmente, il messaggio che muove migliaia di persone verso le nostre coste. La differenza tra “noi” e “loro” è che “noi” alla peggio veniamo insultati e, non riuscendo ad affermarci oltre i confini, torniamo a casa, ritrovando la famiglia, ritrovando ciò che avevamo lasciato pressoché immutato. “Loro” invece, se sopravvivono alla traversata, devono conoscere i CIE, devono scappare dalla polizia, devono vivere come irregolari, o meglio sopravvivere come irregolari. E vengono sfruttati, e vengono derisi, e diventano criminali, tanto quanto un assassino o uno stupratore, per il solo fatto di aver poggiato i piedi sul territorio italiano. E, paradossalmente, loro a casa non possono tornare nemmeno se lo desiderano, e tra l’altro, spesso, l’Italia non è la loro destinazione: è uno scalo, come può esserlo un aeroporto di un’altra Nazione per noi. Nessuno ci proibisce di imbarcarci su un altro aereo e raggiungere la meta desiderata; a loro invece è proibito raggiungere il loro fine, ed è pure negato il diritto di stare nell’”aeroporto”. Tutto questo è regolato da leggi ben studiate nei Paesi confinanti con l’Italia e da una politica puramente emergenziale nostrana, mossa dal desiderio di autoconservazione anziché da vere logiche politico-sociali ed economiche.

Il tutto è stato facilitato in maniera mostruosa dalla vanificazione del confine tra il concetto di patriottismo e quello di nazionalismo, estremizzando così le posizioni, relegando ad una sola corrente di pensiero l’orgoglio di essere parte di un popolo, di esser fieri delle proprie tradizioni, di preservare e promuovere la propria cultura. Sono tanti i paradossi che come parassiti si sono diffusi nella società contemporanea, tant’è che ci si trova movimenti nazionalisti che si fanno promotori dell’identità italiana quando ben poco conoscono la nostra storia, quando l’ignoranza la fa da padrona ad ogni livello della loro composizione, che siano i grandi capi o che siano gli elettori.

Il messaggio che passa però è questo, ed una certa sinistra non fa nulla per contrastare la cosa. Che poi… trovo difficile definire di sinistra un pensiero populista fatto di lamentele, di disfattismo, di autocommiserazione, come se veramente non esistesse più il concetto di umanità, come se non esistesse più la solidarietà che ne è figlia, come se, piuttosto che rimboccarsi le maniche per raddrizzare l’Italia sia più facile dire: “Ma sai che c’è? Me ne vado all’Estero”. E pensare che il patriottismo che muove le masse e che spesso sfocia in situazioni di guerriglia viene appoggiato totalmente, se fuori dal nostro contesto, se oltre i nostri confini. Pieno appoggio all’IRA, all’ETA, ai Palestinesi, si guarda con romanticismo all’identità occitana che vuol essere riconosciuta, al grande popolo sardo (se vogliamo fare un esempio nostrano ma comunque isolato perché isolano), ma per quanto riguarda l’identità italiana, in quanto popolo unito, tutto tace. Probabilmente il problema risale alla difficoltà storica di riunire sotto lo stesso vessillo, cioè il tricolore, tutti quelli che dal 1861 erano definiti cittadini italiani. “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”, disse Massimo D’Azeglio, e probabilmente, nonostante centocinquantaquattro anni di storia, il popolo italiano ancora fatica a riconoscersi negli stessi valori, rifugiandosi invece nelle identità regionali, tutt’al più in quelle areali (settentrione/meridione/area Tosco-Umbro-Laziale). L’identità italiana, tolto il periodo fascista, in cui il tutto ruotava attorno ad un sentimento nazionalista che elevava sopra ogni altra nazionalità quella italiana, si è manifestata soltanto durante la Resistenza ed i primi anni del dopoguerra, quando la ricostruzione delle città bombardate, dal nord al sud, aveva unito l’intero Paese nel conseguimento dello stesso scopo: la rinascita.

Siamo rinati tutti insieme, Milano come Catania e come tutte le città italiane colpite dalle bombe durante il secondo conflitto mondiale sono state liberate nuovamente, stavolta dalle macerie, ed ad ogni latitudine dello stivale gli italiani hanno riportato allo splendore l’Italia. Un nuovo risorgimento, questa volta tricolore ovunque. Una volta però raggiunto un minimo di benessere ecco che di nuovo il patriottismo e l’orgoglio di far parte di una Nazione è andato a perdersi, e non sono stati sufficienti i mezzi di comunicazione di massa ad unire il Paese. Certo, parliamo, chi meglio chi peggio, tutti la stessa lingua, ma come un’arma a doppio taglio le televisioni e le radio sono state usate per acuire ulteriormente le differenze. “Noi” e “loro”, prima che sottintendesse “italiani” e “immigrati”, erano sinonimi polivalenti per definire i meridionali ed i settentrionali, con accezioni negative per i “loro” di turno. C’erano (e tutto sommato ci sono ancora) italiani di serie A e di serie B, ed il capovolgimento delle gerarchie si verificava spostandosi principalmente latitudinalmente, e talvolta longitudinalmente, all’interno dello Stivale.

Ci è stato fatto passare il messaggio che per il bene dell’Italia intera una parte o l’altra della Nazione doveva compiere dei sacrifici: prima il sud doveva emigrare al nord per far sì che il nord compiesse il miracolo economico che poi avrebbe pervaso tutta l’Italia, poi il nord doveva finanziare il sud per far sì che potesse colmare il gap con le regioni settentrionali. Tutte balle. Hanno voluto dividere gli italiani secondo il detto di cesarea memoria “Dividi et impera”, e l’han fatto sfruttando il più facile elemento a loro disposizione: la distanza geografica e culturale tra “ciò” che sta sopra il Tevere e “ciò” che sta sotto. In questo sì che ci sono riusciti, allontanando di molto il raggiungimento di un sentimento patriottico, ovvero il piacere e l’orgoglio di essere italiani, e fomentando invece i regionalismi ed i campanilismi. Ora a nord abbiamo la Lega che da ormai vent’anni vive di questi meccanismi, ampliati alla difesa dei valori cristiani ed occidentali, al sud non si è mai sopito il desiderio di tornare all’epoca pre-Risorgimento, al dominio dei Borboni, e pur di sottostare allo Stato italiano si sopporta l’ingerenza delle mafie e della criminalità organizzata.

Io sono sempre stato abituato a guardare l’Italia come un blocco monolitico, come ad un’entità unica con una propria identità, con dei propri valori, con delle radici ben definite. Con una cultura immensa, impareggiabile da ogni altro Stato mondiale, con una storia millenaria e continua. Ovunque voi andiate in giro per l’Italia, che si parli di Verga, di Leonardo, di Gramsci, di Marco Polo, la prima cosa che sentirete sarà: era uno scrittore, un inventore, un politico, un commerciante ITALIANO. Perché della nostra storia e della nostra cultura siamo tutti orgogliosi, della grandezza e dell’importanza che da ormai tremila anni l’Italia ha nel mondo anche, e ce ne freghiamo della regione dalla quale proveniva questo o quel grande genio che tutto il mondo ci invidia. Lui era figlio dell’Italia come tutti noi.

Questo è essere patrioti, questo è essere italiani. E nel presente, nel presente essere italiani significa restare qui a lottare, a diffondere idee giuste, ad essere solidali nei confronti dei nostri connazionali che soffrono e di chi, una volta giunto qui, soffre come noi, perché come noi calca la stessa terra, abita le stesse città, osserva lo stesso cielo. La differenza sta qui: il nazionalismo punta a chiudersi ed ad arroccarsi, proprio come la Lega al nord o i nostalgici dei Borboni al sud, vomitando su tutto ciò che è diverso e lontano e che si offre a noi. Il patriota è colui che difende la propria terra, ma difendendo la propria terra difende anche chi ci si trova a viverci, a prescindere dal colore della pelle, della lingua che parla, della nazione di provenienza.
Cerchiamo di essere credibili, per una volta. Se volete la parità di diritti per tutti, prima di tutto riconoscete il vostro status di essere italiani. Altrimenti che coerenza c’è tra il vomitare sulla nostra carta d’identità, sulla nostra bandiera, e voler far sì che lo ius sanguinis cessi di esistere per lasciar spazio al più giusto ius soli!? A livello puramente logico, volete male agli stranieri più dei leghisti e dei fascisti…


Io amo l’Italia, e proprio perché la amo voglio contribuire a cambiarla, a migliorarla. Proprio perché la amo, voglio restare. E proprio perché la amo voglio che vengano lasciate aperte le porte a chiunque desideri partecipare al suo miglioramento. Scappando, invece, non si risolve nulla.

E quindi, prima di urlare con superficialità dettata dalla distanza "Viva l'Irlanda libera", "Viva i Paesi Baschi", "Viva la Palestina", impariamo a dire "Viva l'Italia". E non soltanto quando trionfa negli sport.... E' l'unico modo per legittimare ogni altra istanza che si vuol portare avanti oltre le Alpi ed oltre il Mediterraneo.





Stefano Tortelli