Sono sempre molto curiose le coincidenze nelle quali ci si imbatte durante il proprio cammino, soprattutto quando arricchiscono di ulteriori significati un dato momento, un evento, un qualcosa che ci si appresta a fare. Non sapevo che ieri sarebbe stato il compleanno di Pier Paolo Pasolini, e non ero neppure al corrente della sua passione per il calcio, un amore che superficialmente ben poco si sposava con le sue idee politiche, con le sue arti, con il suo essere fuori dagli schemi. Che poi gli schemi chi li decide? Se è pur vero che l'italiano medio è invasato di calcio, dove sta scritto che chi è considerato o si autodefinisce pecora nera o mosca bianca debba per forza di cosa disinteressarsi allo sport nazionale, o tuttalpiù tifare realtà tutt'altro che vincenti? Togliatti era juventino, ed appena risvegliatosi in seguito all'intervento subito dopo l'attentato di cui era stato oggetto chiese informazioni sulla partita, Berlinguer seguiva il calcio con estrema passione, Pertini... Pertini sappiamo tutti con che gioia partecipò ai festeggiamenti del mondiale vinto nel 1982. Questi sono gli esempi più lampanti e forse più significativi, perché nelle tre figure più importanti della sinistra italiana del dopoguerra la passione per il calcio era forte. Il caso di Togliatti poi è emblematico: il comunista più potente dell'Europa filo-americana, l'uomo che avrebbe potuto dare il via ad una nuova rivoluzione, colui che ha permesso al partito comunista di prosperare per circa trentacinque anni era tifoso della squadra degli Agnelli, dell'emblema della potenza del capitalismo, del simbolo del potere e della subordinazione nel mondo calcistico.
Ieri sera sono andato a vedere con mio padre quello che in casa è il derby, la partita più sentita, quella della quale si parla per settimane prima che venga giocata e per altre settimane dopo che è stata disputata: Juventus-Fiorentina. Lui fiorentino e simpatizzante torinista, io juventino atipico, sempre felice nel vedere piccole realtà affermarsi (squadre come Empoli, Sassuolo, Livorno, Cesena) e non particolarmente ostile nei confronti degli storici nemici della Fiorentina e dei cugini torinisti: anzi, il fatto che al momento Torino sia la capitale italiana del calcio, così come lo è stata negli ultimi due anni, è per me una grande soddisfazione, e parte del merito va anche ai granata, che mai come negli ultimi anni sono stati così competitivi dagli anni '90 ad oggi. E' stata la prima volta che sono andato allo stadio con mio padre, e per lui è stata la prima volta che è andato allo stadio con il biglietto (lontani sono i tempi in cui, al Comunale, si poteva entrare a metà del secondo tempo quando venivano aperti i cancelli, facendo diventare così uno spazio libero ed uno spettacolo per tutti la partita di calcio; altri tempi, altra cultura, altra gente). Ho deciso di comprare i biglietti l'indomani la vittoria della Fiorentina nei quarti sulla Roma, con l'intenzione di fare a mio padre un regalo diverso per la festa del papà. Un po' in anticipo, ma le date, come le regole, son fatte per non essere rispettate. Ed è così che ieri sera eravamo allo Juventus Stadium, fianco a fianco, a guardare la partita: lui a gioire (sebbene dovendosi contenere) ed io ad inveire nei confronti dei giocatori della Juve che mai hanno dimostrato di voler e poter vincere la partita. Ma va bene così, perché altrimenti sarebbe stato un regalo a metà, un dono agrodolce, un piacere in parte limitato. Entrambi però osservavamo nello stesso modo le dinamiche che animano lo stadio, le due curve, la tribuna, gli spalti dedicati ai vip ed ai facoltosi, notando i tempi ed i modi che interessavano questo o quell'altro settore. Le tribune, ovvero i settori dedicati ai "normali" spettatori, erano già affollati quando, un'ora prima del fischio di inizio, abbiamo preso posto: abbonati, frequentatori dello stadio occasionali, famiglie e tifosi "in borghese" erano i principali animatori di questi spazi; le curve, sia quella sud del tifo organizzato juventino sia quella del settore ospiti si sono riempite pochi minuti prima del fischio di inizio, ed in base all'andamento della partita e del comportamento della curva rivale modificavano il loro atteggiamento, quasi mai indipendente dalla gara e dagli stimoli dei tifosi avversari; la tribuna d'onore è stata semivuota per almeno dieci minuti dopo il fischio di inizio, si è svuotata a pochi minuti dall'intervallo e si è di nuovo riempita giusto in tempo per assistere al secondo gol di Salah: l'importante non era essere della partita, l'importante era, per loro, avere il biglietto in tasca ed un posto riservato, il resto contava relativamente. Faceva poi specie notare poi come la coscienza individuale, una volta preso il proprio posto a sedere, fosse stata delegata allo speaker, ai capi ultrà, a ciò che in campo e sugli spalti succedeva. E tutto quanto è facilmente paragonabile ai meccanismi che animano sia una religione sia i suoi principali eventi, cioè i riti. Come ci si alza in piedi per il Padre Nostro o per un canto, ci si alza in piedi per recitare i nomi dei giocatori e cantare l'inno della squadra, come ci si chiude in se stessi nei momenti di preghiera lo si fa quando sta per cominciare la partita, come si discute fuori dalla chiesa, finita la messa, della predica domenicale, lo si fa fuori dallo stadio o tra gli amici della prestazione della squadra. Ed entrambi sono universi che noi non possiamo fino in fondo vivere, poiché in entrambi i casi ne siamo principalmente spettatori e non attori, per quanto comunque, se solo ne fossimo totalmente consapevoli, potremmo influire e non poco in entrambe le situazioni. Il discorso di Durkheim riguardante il sacro ed i riti è applicabile al calcio, dunque, come lo è per i concerti. Sostanzialmente, è applicabile a tutte quelle situazioni in cui l'uomo cede la sua individualità alla collettività, delegando ad altri o ad altro il suo potere decisionale. Si può definire questo un comportamento da pecoroni, da bigotti. Io preferisco limitarmi a dire che è un comportamento privo di alcuna visione critica di ciò che succede, che addirittura porta alla deformazione della realtà. E chi di calcio mangia lo sa, e non mi riferisco ai calciatori o alle società ma soprattutto ai giornalisti che sanno benissimo con chi hanno a che fare e sono in grado di farti vedere un fuorigioco che non c'è o negare un fallo di mano, come sanno ben cucire ad una squadra degli stereotipi o qualità immense ad un giocatore o ad un allenatore. E non c'è nulla di diverso da quello che succede nelle religioni quando i potenti di un credo fanno passare per mostri quelli che credono in qualcos'altro: i processi sono gli stessi, e per fare un esempio, se nel calcio i ladri sono gli juventini nelle religioni sono gli ebrei, ovviamente secondo gli occhi di chi è contro gli juventini e di chi è contro gli ebrei.
Non so se mai si arriverà a fare una guerra per il calcio come si è fatta per la religione. Di certo di gente che è rimasta uccisa in nome del pallone ce n'è stata, ce n'è e ce ne sarà, perché a quanto pare una sciarpa di un colore diverso rende una persona diversa da te: la rende nemica, la rende inferiore, la rende cattiva, la rende degna di sofferenza e morte. E sono sufficienti i cori negli stadi ed i commenti nei forum di calcio (ma vale anche per tutti gli sport più seguiti) per capire che queste righe non sono poi così lontane dalla realtà dei fatti.
Il calcio, in quanto sport (e come il calcio tanti altri), null'altro è che una guerra figurata. I giocatori scendono in campo, entrambe le squadre hanno una zona da difendere, hanno un qualcosa da controllare, hanno uomini il cui scopo è attaccare ed un unico obiettivo: perforare la difesa e mettere a segno il punto. Calcio, tennis, pallavolo, pallacanestro, ping pong e così via. E c'è chi vince, c'è chi perde e c'è chi pareggia. Come nei conflitti armati. Ed i conflitti armati sono spesso stati veicoli sui quali ha trovato posto una religione, pronta a viaggiare per raggiungere e colonizzare i nuovi territori conquistati, animati da altre persone, con lo scopo di aumentare la propria sfera di influenza, il proprio dominio spirituale. E come il cristianesimo è la religione che ha più credenti perché è quella che si è schierata più spesso dalla parte dei vincenti nelle guerre, la Juventus in Italia è quella con più tifosi perché ha vinto più scudetti, vincendo quindi più partite, vincendole sia in casa, difendendo le mura amiche, sia in trasferta, assediando gli stadi altrui.
"Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l'unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro", scrisse Pasolini. Aggiungerei anche l'aspetto bellico a quello sacro, sottolineando come tutto sia facilmente interscambiabile, interconnesso, trasportabile da una all'altra dimensione. Perché la religione è sacra di suo, il calcio ne ha assunto i contorni simili, la guerra ne adotta la terminologia o è adottata dalla religione per i suoi scopi.
Sarebbe bello che le parole di Pasolini valessero per quello che sono, per il significato più profondo che contengono, ovvero per come sia una fonte di estrema passione positiva uno sport, una passione che oltre tutto si condivide e non si vive da soli, che porta all'interazione, alla coesione, ma soprattutto alla consapevolezza che sebbene gli altri decidano di tifare un'altra squadra sono comunque movimentati dalla nostra stessa passione. Soltanto colorata diversamente. E sarebbe bello che si capisse che chiunque, a prescindere dal pensiero politico, dalla classe sociale di appartenenza, dal modo di essere che è proprio del suo io possa tifare questa o quella squadra, svincolandosi almeno in questo da tutto ciò che lo influenza nella vita di tutti i giorni, facendo sì che in quei novanta minuti sia lì, in trepidante attesa di un gol, come chiunque altro sia attaccato alla radio, alla televisione o seduto allo stadio. Lo sport teoricamente dovrebbe funzionare da livellatore delle classi sociali, sia per chi lo pratica sia per chi lo tifa, e fino ad un po' di anni fa era così, fino a quando si è semplicemente considerato un divertimento, una passione, un'evasione.
Perché per ora, in questa società, tutto ciò che assume importanza finisce per venire massacrato dagli interessi e dall'ignoranza. E' successo alle arti, è successo alla politica, è successo allo sport.
Io continuerò a tifare Juve fino alla morte, così come continuerò a portare avanti le mie idee ed a coltivare le mie passioni. E sarò ben contento di confrontarmi con chi, come mio padre, può essere in questo o quel settore di una "fazione" diversa ma mosso dalle mie stesse emozioni. Ecco perché Togliatti, Berlinguer e Pertini erano così legati al calcio nonostante la loro storia politica. Ecco perché Pasolini lo seguiva e lo praticava nonostante il suo mondo fosse apparentemente tanto diverso dal calcio. Nulla è razionalizzabile quando ha a che fare con le emozioni, e nulla dovrebbe essere assoggettato a delle leggi di mercato o a degli interessi quando il suo scopo primo è emozionare. Ma se son riusciti a farlo con l'amore, era ovvio che ci sarebbero riusciti con il calcio...
In ogni caso, comunque vada, come la si pensi... Forza Juve, fino alla fine!!!!
(PS: "Fino alla fine Forza Juventus", "Hasta la victoria siempre"... trovatemi le differenze)
Stefano Tortelli
Non so se mai si arriverà a fare una guerra per il calcio come si è fatta per la religione. Di certo di gente che è rimasta uccisa in nome del pallone ce n'è stata, ce n'è e ce ne sarà, perché a quanto pare una sciarpa di un colore diverso rende una persona diversa da te: la rende nemica, la rende inferiore, la rende cattiva, la rende degna di sofferenza e morte. E sono sufficienti i cori negli stadi ed i commenti nei forum di calcio (ma vale anche per tutti gli sport più seguiti) per capire che queste righe non sono poi così lontane dalla realtà dei fatti.
Il calcio, in quanto sport (e come il calcio tanti altri), null'altro è che una guerra figurata. I giocatori scendono in campo, entrambe le squadre hanno una zona da difendere, hanno un qualcosa da controllare, hanno uomini il cui scopo è attaccare ed un unico obiettivo: perforare la difesa e mettere a segno il punto. Calcio, tennis, pallavolo, pallacanestro, ping pong e così via. E c'è chi vince, c'è chi perde e c'è chi pareggia. Come nei conflitti armati. Ed i conflitti armati sono spesso stati veicoli sui quali ha trovato posto una religione, pronta a viaggiare per raggiungere e colonizzare i nuovi territori conquistati, animati da altre persone, con lo scopo di aumentare la propria sfera di influenza, il proprio dominio spirituale. E come il cristianesimo è la religione che ha più credenti perché è quella che si è schierata più spesso dalla parte dei vincenti nelle guerre, la Juventus in Italia è quella con più tifosi perché ha vinto più scudetti, vincendo quindi più partite, vincendole sia in casa, difendendo le mura amiche, sia in trasferta, assediando gli stadi altrui.
"Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l'unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro", scrisse Pasolini. Aggiungerei anche l'aspetto bellico a quello sacro, sottolineando come tutto sia facilmente interscambiabile, interconnesso, trasportabile da una all'altra dimensione. Perché la religione è sacra di suo, il calcio ne ha assunto i contorni simili, la guerra ne adotta la terminologia o è adottata dalla religione per i suoi scopi.
Sarebbe bello che le parole di Pasolini valessero per quello che sono, per il significato più profondo che contengono, ovvero per come sia una fonte di estrema passione positiva uno sport, una passione che oltre tutto si condivide e non si vive da soli, che porta all'interazione, alla coesione, ma soprattutto alla consapevolezza che sebbene gli altri decidano di tifare un'altra squadra sono comunque movimentati dalla nostra stessa passione. Soltanto colorata diversamente. E sarebbe bello che si capisse che chiunque, a prescindere dal pensiero politico, dalla classe sociale di appartenenza, dal modo di essere che è proprio del suo io possa tifare questa o quella squadra, svincolandosi almeno in questo da tutto ciò che lo influenza nella vita di tutti i giorni, facendo sì che in quei novanta minuti sia lì, in trepidante attesa di un gol, come chiunque altro sia attaccato alla radio, alla televisione o seduto allo stadio. Lo sport teoricamente dovrebbe funzionare da livellatore delle classi sociali, sia per chi lo pratica sia per chi lo tifa, e fino ad un po' di anni fa era così, fino a quando si è semplicemente considerato un divertimento, una passione, un'evasione.
Perché per ora, in questa società, tutto ciò che assume importanza finisce per venire massacrato dagli interessi e dall'ignoranza. E' successo alle arti, è successo alla politica, è successo allo sport.
Io continuerò a tifare Juve fino alla morte, così come continuerò a portare avanti le mie idee ed a coltivare le mie passioni. E sarò ben contento di confrontarmi con chi, come mio padre, può essere in questo o quel settore di una "fazione" diversa ma mosso dalle mie stesse emozioni. Ecco perché Togliatti, Berlinguer e Pertini erano così legati al calcio nonostante la loro storia politica. Ecco perché Pasolini lo seguiva e lo praticava nonostante il suo mondo fosse apparentemente tanto diverso dal calcio. Nulla è razionalizzabile quando ha a che fare con le emozioni, e nulla dovrebbe essere assoggettato a delle leggi di mercato o a degli interessi quando il suo scopo primo è emozionare. Ma se son riusciti a farlo con l'amore, era ovvio che ci sarebbero riusciti con il calcio...
In ogni caso, comunque vada, come la si pensi... Forza Juve, fino alla fine!!!!
(PS: "Fino alla fine Forza Juventus", "Hasta la victoria siempre"... trovatemi le differenze)
Stefano Tortelli
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