In queste due settimane di blocco totale del traffico di parole tra il cervello e le mani più di una volta ho provato a forzare questa condizione di stand by, aprendo il blog, prendendo in mano una penna, cercando qualche cosa da scrivere, da descrivere, da imprimere nella carta o sullo schermo. Ma non c'è stato verso, e dopo aver tentato diverse volte, in diversi modi, un approccio con la scrittura, ho lasciato perdere, guardando semplicemente i giorni passare e lasciando muti inchiostro e tasti. Ce la si prende sempre con il buio, ma un foglio bianco sul quale non si sa mettere in fila più di tre parole fa molta più paura delle notti più scure, anche perché nell'oscurità spesso si accende la luce dei pensieri, mentre di fronte alla lucentezza dello schermo o di una pagina ancora vuota i ragionamenti, talvolta, si nascondono tra le pieghe della corteccia cerebrale.
Oggi è il primo giorno di primavera, e l'ultima cosa che dovrei fare è pensare a com'era un anno fa, a cosa stavo facendo, a cosa stavo aspettando, a come mi stavo preparando per una nuova esperienza che stava per fiorire con il primo caldo dei primi giorni di aprile. Troppa è la distanza tra ora ed allora, e non tanto di tempo quanto di umore, di sensazioni, di sentimenti, di desideri, di sogni. Ma molta è la distanza anche rispetto ad un mese fa, ed è su questo che vorrei riflettere, è riguardo a ciò che vorrei scrivere, per spiegarmi cosa può essere successo e darmi un suggerimento per come uscire da questa attuale condizione. Dopo aver dato l'esame a metà febbraio mi ero già pianificato i prossimi sei mesi: dare gli ultimi esami, laurearmi, i concerti a cui andare, le esperienze da vivere, le persone da conoscere e da ritrovare. Era tutto troppo bello, ero troppo pieno di energia, era tutto troppo facile. E paradossalmente era una delle prime volte che mi pianificavo il futuro con così tanta determinazione, proprio perché stavo facendo tutto per conto mio, senza basarmi sui desideri altrui, che fossero della famiglia, degli amici o di una ragazza. Erano cose mie, sono cose mie, che finalmente avevo deciso di programmarmi senza più ulteriori strappi, ritardi, rimandi. Mi alternavo tra la vita di studente e di docente, di amico e figlio, di scrittore e cantante senza far fatica, senza problemi.
Quando si scrive all'imperfetto ed in positivo prima o poi deve arrivare un ma, e logicamente eccolo che compare a negare, di fatto, tutto ciò che finora ho scritto. Il riacutizzarsi di un dolore che per circa un anno sembrava sopito ha innanzi tutto sabotato la mia condizione fisica, i miei cicli circadiani, permettendomi di dormire quando gli antidolorifici fanno effetto e non quando effettivamente vorrei dormire; il riemergere di diverse paure legate a questo dolore, mai veramente studiato a fondo dai dottori perché ritenuto non particolarmente debilitante, ma che di fatto può limitare enormemente i miei sogni, i miei desideri, il mio futuro; ed il dispiacere nel rendermi conto che il mio silenzio non turba più di tanto, se non per quanto concerne il proprio personale ritorno e non tanto alla luce di una mia effettiva assenza. Son giusto un paio le persone che si sono preoccupate, che mi hanno chiesto, ed il paradosso è che una la conosco da giusto un paio di mesi e l'altra, sebbene faccia parte della mia vita da diverso tempo, non mi conosce chissà quanto ma forse ha veramente il piacere di volermi conoscere fino in fondo. Allo stesso tempo è anche vero che io quando ho bisogno non cerco, tento di fare meno rumore possibile, dando vita a compartimenti stagni nei quali isolo i miei problemi quando ho a che fare con situazioni o persone che, con i miei problemi, non c'entrano assolutamente, ma di fatto, che fossero le ragazze passate o i miei amici, quando ho provato a chiedere aiuto ho quasi sempre trovato la persona in questione intenta a costruire un muro: di silenzio, di accuse, di non voglia di esserci. Salvo poi sentirmi dire che mai mi han visto piangere, mai mi han percepito disperato, mai si sarebbero immaginati un dolore così grande dietro le mie battute, le mie lotte, i miei sorrisi, i miei "va tutto bene". E probabilmente questo è dovuto anche al fatto che di persone disposte a fare le due fasi ce ne sono poche: farsi aiutare più aiutare è alquanto complicato per molti mentre è normale per pochi. Forse è un'altra sfaccettatura di quella "storia sbagliata" cantata da De André, ma come mi ha detto una mia cara amica "Tu finché non ti sfracelli al suolo ti preoccupi più degli altri che sono lontani un chilometro dal baratro piuttosto che fermarti un secondo a cercare la corda per aprire il paracadute". Già, e probabilmente l'errore mio sta proprio qui: pensare che gli altri pensino come penso io, credere che le persone possano comprendere i miei silenzi come io comprendo i loro, sperare che l'empatia che è propria del mio essere sia propria anche di chi mi circonda. Sbaglio, e sbagliando mi illudo, ed illudendomi rimango deluso, e nella delusione nascono la rabbia, il dolore, la tristezza. Circa un anno fa scrivevo alcune mie riflessioni riguardanti il "Ti voglio bene", e mai come ora mi rendo conto di quanto sia falsa questa formula.
Spero veramente che questo dolore che sento a livello fisico non sia l'anticamera per il più grande dolore che posso immaginare a livello psicofisico per il mio futuro, spero davvero che quando il ventiquattro aprirò la busta degli esiti io possa sorridere e tirare un sospiro di sollievo. Anche perché, se così non fosse, se il danno fosse tra l'altro permanente e non passeggero, davvero non saprei dove potrei trovare un minimo di conforto.
Anche perché al momento non lo trovo nella musica, non lo trovo nello scrivere, non lo trovo in tutto ciò che dipende esclusivamente da me... e le motivazioni a tutto questo, a tempo debito, se sarà necessario, verranno fuori.
Stefano Tortelli
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