lunedì 27 aprile 2015

Antonio Gramsci, "Nino".

Antonio Gramsci. Filosofo, linguista, letterato, giornalista. E Comunista.




"Basta pensare al Partito Comunista. Basta con i pugni chiusi, la falce ed il martello. Basta con i vecchi slogan. Basta rimpiangere le lotte operaie e studentesche. Basta, perché fintanto che non si ritrova il coraggio di dire con fierezza Sì, sono comunista, ripartendo dal padre del comunismo in Italia e dei suoi insegnamenti, tutto questo resta solo puro folklore". Queste sono le parole che Marino Severini ha usato a Torino, in occasione del concerto dei Gang di inizio marzo, per introdurre uno dei brani che compongono il nuovo album Sangue e cenere. Si intitola Nino questa canzone, dedicata ad Antonio Gramsci, ed è una specie di confidenza, di un dialogo a senso unico, pregno di rabbia, di domande, ma che contiene anche una promessa, una dichiarazione di amore: per Nino, per i suoi insegnamenti, per le caratteristiche peculiari dell'essere comunista, del sentirsi comunista. 

Perché sfortunatamente dopo settant'anni di politica anti-comunista e filo-occidentale in Italia il concetto di comunismo è stato devastato da luoghi comuni, stereotipi, promossi prima dalla DC, poi dai filo-americani, passando per Berlusconi ed arrivando a Renzi. Perché ammetto che quando a fine luglio si concretizzò la chiusura del giornale L'Unità, fondato dallo stesso Gramsci, sottovalutai la portata di quel gesto, ed anzi pensai: "Beh, in questo modo finalmente si smetterà di infangare un giornale che è stato la colonna portante del comunismo fino almeno ai primi anni '90". Ma poi, negli ultimi mesi, ho rivalutato la mia posizione, e mi sono reso conto di come la fine de L'Unità fosse l'ennesimo segnale di come, anziché tentare di riprendere in mano una tradizione meravigliosa, ricca di cultura, di lotte, di ideali, si volesse andare in tutt'altra direzione. Del resto da allora Renzi si è manifestato per quel che è, ovvero in tutto e per tutto un altro democristiano prestato alla politica di oggi che si comporta come quello che, teoricamente, era il suo primo antagonista, fino a riabilitarlo, fino, addirittura, a farlo quasi rimpiangere. Se questo è il futuro che ci aspetta, visto che il presente già di per sé non è roseo, siamo veramente messi malissimo. 

C'era invece chi, originario della Sardegna ma trapiantato in Piemonte, aveva, cent'anni fa, teorizzato "La città futura", reso contemporaneo Marx, sottolineando come sì, la lotta operaia e contadina sono importanti, ma che queste per affermarsi al meglio dovevano appoggiarsi alla cultura, alla storia, agli studi. Ed è proprio questa la peculiarità di Gramsci: lui non parlava di classe operaia, non parlava di contadini, per lui esistevano solo gli sfruttati e gli sfruttatori, e vedeva nella cultura, nello studio, nella conoscenza delle proprie radici e delle proprie storie la base per rendere infallibile una rivoluzione, un'evoluzione, un miglioramento per tutti a scapito di pochi. Gramsci aveva anticipato di 40 anni le considerazioni fatte da Fromm e Chomsky in alcuni loro testi. Tutto questo perché Gramsci, prima di essere un filosofo, un linguista, un critico letterario, uno scrittore, era una persona che aveva un'immensa cultura, una grande conoscenza. Cultura e conoscenza che voleva mettere al servizio del popolo, aggiungendoci però qualcosa di suo: le sue teorie, le sue idee, i suoi ideali. E per un certo periodo riuscì a fare tutto questo: nel 1921, il giorno prima del suo compleanno, fu tra i principali promotori della nascita del Partito Comunista, nel 1926 fu tra i più duri contestatori di Mussolini e del fascismo.. Nel '27 venne incarcerato per le sue idee, per la sua strenua resistenza, per la sua incorruttibilità. Una volta in carcere avrebbe potuto rinnegare le sue idee, avrebbe potuto decidere di porre fine alla sua sofferenza voltando le spalle al comunismo, ai simboli: bastava che abiurasse, come fece Galileo Galilei. Ma lui era un Giordano Bruno, e come lui stesso ebbe a scrivere si rese co-responsabile della sua morte, della sua condanna. Era consapevole, Nino, di essere uno, ma era anche consapevole che stava diventando un simbolo vivente dell'ideale comunista, e che un crimine ancora peggiore della sua ingiusta detenzione era il rinnegare tutto per la sua individuale libertà.

Nino scelse, e scelse di donare la speranza della libertà universale anziché condannare il resto del mondo ma salvare se stesso. Parteggiò e non patteggiò, e nemmeno smise di combattere, continuando a riempire quaderni con i suoi appunti, prima dal carcere e poi dalla clinica nel quale venne ricoverato per l'inesorabile peggioramento delle sue condizioni di salute. Morì, nel '37, ma come tutte le morti dei grandi eroi non fu vana. Perché fino all'ultimo seppe dare una direzione, seppe indicare la via, seppe guidare chi silenziosamente si sentiva comunista verso la Rossa Primavera, che cominciò a manifestarsi in tutto il suo splendore dopo l'Armistizio. 

Però Nino è poco ricordato, quasi mai insegnato, se non all'università, ma anche nel mondo accademico lo si incontra negli insegnamenti "di settore", e facilmente lo si ritrova nei testi riguardanti la linguistica, e specialmente la dialettologia, piuttosto che in quelli di filosofia o di storia contemporanea. E probabilmente anche in questo si denota l'influenza catto-capitalista che hanno caratterizzato la storia italiana dal dopoguerra ad oggi. Di Gramsci si parla poco, ed è quindi inevitabile ritrovarsi circondati da persone che non sanno il significato del 25 aprile, di altre che vedono in tutti i partigiani dei banditi, di altre ancora per le quali i comunisti erano mangia-bambini e ladri di terreni. Perché ovviamente per un certo tipo di propaganda era più comodo mostrare quel che è stato il comunismo nell'Est Europa, dove le vergogne verificatesi in nome di un ideale sono state strumentalizzate al massimo, senza spiegare il perché, senza dire a cosa erano dovute. Una vergogna è sempre una vergogna, sia chiaro, ma la vergogna va raccontata dall'inizio alla fine e non soltanto nel momento della sua manifestazione. E la vera vergogna resta l'ignoranza, o meglio l'indifferenza, di fronte a Gramsci, di fronte a Matteotti, di fronte a Turati, di fronte a tutti i partigiani caduti per la libertà, di fronte alla naturale evoluzione del fascismo, ovvero il capitalismo. 

Ma queste sono storie che non si può cercare su alcun libro, queste sono storie che bisogna imparare analizzando la storia, studiando, informandosi. Per non commettere l'errore di grandi compagni che hanno voluto rendere settoriale, dimenticandosi di Gramsci, le varie lotte, finendo ovviamente per perderle il giorno dopo averle vinte. Del resto, questo è il sistema capitalistico ed utilitaristico: nel momento in cui si ottiene lo scopo per cui ci si è uniti è inutile rimanere un corpo unico, a quel punto meglio prendere strade differenti, che non si sa mai che il mio contributo ad una lotta che non sento mia possa recarmi qualche danno. 

Mi dispiace Nino, ed anche io voglio chiederti scusa in nome di chi presto ti ha dimenticato, di chi una volta raggiunto il suo scopo, servendosi dell'ideale, l'ha abbandonato, "gettando la bandiera in un fosso". Ed anche io, Nino, voglio darti la mia parola. Perché io non ti dimentico, ed anzi sempre più approfondirò la conoscenza delle tue opere, di chi in qualche modo si è ispirato a te, di chi continua a portare avanti le tue istanze.

Ma oggi Nino ti do la mia parola,
quella di chi nel pane ci mette tutto il sole,
quella che canta con la città futura,
e corre fino al vento,
oltre le sbarre, oltre i cancelli, oltre queste mura.

Comunista è chi ferma la mano che alza il bastone,
comunista è la terra che c'è oltre ogni nazione,
comunista non è che un sentimento, è Rivoluzione
comunista ora e sempre per l'unità..
Comunista... Comunista... 





Stefano Tortelli

Canzone di notte #3 - Vecchi amori musicali che ritornano


La copertina di Oath bound, sesto album dei Summoning, pubblicato nel 2006.



Stanotte non si dorme, così ho deciso e così sarà. Spesso va a finire così quando il pc è collegato alle casse, quando la voglia di ascoltare musica è finalmente ritornata nella sua forma più intera, tanto da portarmi a spegnere le luci normali e riaccendere, dopo circa un anno, per la prima volte le luci psichedeliche. E' spesso stata una cartina tornasole, per me, la musica, ed il suo esserci così fortemente in questi ultimi giorni, dopo aver ricominciato a prendere terreno nell'ultimo mese, non può che essere un segnale estremamente positivo.

Anche perché il mio rapporto con la musica è decisamente particolare, e se devo averla come sottofondo per un'altra attività tanto vale non averla. Con questo non intendo dire che per ascoltare musica devo stare seduto, fermo, con le mani in mano, ma devo trovarmi nella condizione di darle una dose sufficiente di attenzione: perché altrimenti diventa un qualcosa di superfluo, di fastidioso, di limitante. E questo non posso assolutamente permettere che succeda, non potrei mai mancare di rispetto in questo modo la somma arte, ed allo stesso tempo non posso mancare di rispetto a me stesso imponendomela.

Lei si limita ad arrivare, mi chiama, io vado verso lo scaffale, prendo un cd, lo metto su, attacco le casse, e via, pronto per un nuovo viaggio in sua compagnia. Tra ieri sera e stanotte il breve cammino che mi separa dai cd l'avrò percorso, andata e ritorno, circa una decina di volte, scomodando prima i Pink Floyd, poi De André, poi Cohen. Mi è poi venuta voglia di rispolverare alcuni cd che era un po' di tempo che non ascoltavo, quindi ecco alternarsi i CSI, la Casa del Vento, e dato che ormai ero in tema di musica folk italiana ecco spuntare i Vad Vuc. Ad un certo punto, dopo che avevo finito il quarto capitolo di un libro cominciato stasera, mi era quasi venuta voglia di guardare qualcosa in streaming, ma ecco l'illuminazione, ecco il ragionamento assurdo delle 3:40: "Ho sentito folk metal proveniente da praticamente tutta Europa, devo trovare qualcosa di rumeno, moldavo, croato, ci sarà pur qualcosa!". Ed allora eccomi andare su Youtube, tentare varie ricerche, finire sui Viter che in verità sono ucraini e paragonarli ai Metsatoll per il timbro di voce, quindi pensare ai Korpiklaani perché avevano ospitato nella tournée europea di due anni fa proprio i Metsatoll. I Korpiklaani sono stati coloro che mi hanno iniziato al mondo del folk metal, sono stati quelli che hanno aperto le porte del panorama del folk-viking-black dinanzi ai miei occhi, ed inevitabilmente si sono susseguiti nella mia testa i primi gruppi nei quali mi cimentai, a volte con fatica, altre volte con estrema facilità: gli Ensiferum, i Finntroll, gli Ulver (che mi sa che saranno i prossimi ad essere fagocitati prima dal pc e poi dalle mie orecchie), i Bathory, i Summoning.... "Cazzo, i Summoning"!!!! Non avevo ancora 17 anni quando cominciai questo mio viaggio nelle atmosfere nordiche ma mi sembra ieri: i pomeriggi passati a cercare musica tramite Last.fm per poi riportare i nomi degli artisti su Emule, e giù di download, ad esplorare l'ennesima foresta, a sentire sempre più freddo, ma anche a riscaldarmi esternamente con il calore dei fuochi da campo ed internamente con gli intrugli alcolici preparati dai guerrieri vichinghi che animavano la mia mente. I Summoning però avevano quel qualcosa di particolare, di unico, che mi portò pian piano a comprarne quasi tutta la discografia, a passarci giornate intere, tenendoli come colonna sonora dei vari giochi del computer che meglio si sposavano alle loro atmosfere: Oblivion, la saga di Gothic, talvolta Age of Empires. 

Tra l'altro il percorso dei Summoning è estremamente particolare, perché sebbene fossero partiti come band prettamente metal (ed il disco Lugburz ne è una lampante testimonianza), hanno poi deciso di creare qualcosa di tutto loro, un atmospheric black metal narrante le gesta degli eroi partoriti dalla mente di Tolkien, la cui impronta è chiarissima sia dalle copertine dei loro album sia dai titoli degli album e delle canzoni. Ma per loro non era ancora sufficiente, non era abbastanza aver dedicato praticamente tutta la loro discografia (ad eccezione di Stronghold) al Signore degli Anelli ed al Silmarillon. Loro dovevano spingersi ancora oltre: ed ecco che, nel 2006, pubblicano Oath bound, il loro penultimo album, nel quale è contenuta una canzone che già per come è nata è qualcosa di assolutamente meraviglioso. Perché non cantano in inglese, non cantano nel loro tedesco-austriaco, non cantano in una lingua esistente: loro cantano il pezzo nella lingua orchesca inventata da Tolkien. "Mirdautas vras" è il titolo del brano, ed inevitabilmente è diventata la canzone dei Summoning che preferisco, perché in sé raccoglie tutto ciò c'è di più fantasioso, creativo e fuori dal comune che esista. 

Via, me la godo un'altra volta, e d'ora in poi cercherò di ascoltarmi un po' più spesso rispetto a quanto fatto negli ultimi due o tre anni. Perché quando certi vecchi amore si ripresentano è giusto riservar loro un trattamento speciale, soprattutto quando se lo meritano, soprattutto quando, in una notte nella quale non si vuole dormire, si rendono disponibili per farti compagnia, chiedendo solo di venire ascoltati con lo stesso stupore di quando ancora ero un ragazzino. 




Ps: probabilmente finito Oath bound anziché andare direttamente in Norvegia, dagli Ulver, farò una capatina a trovare gli Agalloch. Ma questa è un'altra storia...



Stefano Tortelli

domenica 26 aprile 2015

"Nella chiesa di Bellusco": una storia come tante

La chiesa di Bellusco




Ieri sera, come tante sere, ero all'Orso con gli amici di sempre, a fare le solite cose. Chiacchiere, birre, scherzi, gli immancabili discorsi riguardanti la musica, che però spesso vengono inframezzati da discorsi seri, perché se è vero che il divertimento condiviso avvicina le persone che lo condividono, i discorsi seri creano amicizie, le rafforzano, le cementificano. Ed a volte si parla dei problemi di uno di noi, a volte di problemi comuni, altre volte ancora dell'attualità, della storia, della politica. Stavo raccontando ad alcuni di loro che ieri, complice il tempo, mi sono preso la libertà di starmene per buona parte del tempo a letto, rinunciando ad andare a Torino in Borgo San Paolo per i festeggiamenti della Liberazione a pochi passi da Via Di Nanni. E così è stato introdotto il discorso della Resistenza, portato avanti dal Biondo che sottolineava come sia un bel giorno, ogni anno, il 25 aprile perché sua nonna, ora novantenne, racconta come una ragazzina, con lo stesso piglio e la stessa intensità di una ventenne, gli anni della guerra, i bombardamenti alleati, le persecuzioni da parte di fascisti e nazisti, le torture psicologiche nei confronti dei partigiani catturati, le fucilazioni, ed infine la liberazione vera e propria.

Ognuno di noi ieri sera ha raccontato delle storie: Angelo, il barista, le storie di alcuni vigonesi che quando faceva le medie intervistò con la scuola, Bruno i racconti tramandati dai familiari di ciò che era successo nella campagna che circondava la sua casa, Biondo le storie di Villafranca, io le storie dei miei nonni materni a Torino e dei miei nonni paterni in Toscana. Dissi anche che fu un paradosso decisamente strano il fatto che, se non fosse stato per la guerra, forse mia nonna e mio nonno mai si sarebbero incontrati a Torino, mai sarebbero nati i miei zii e mia mamma, e di conseguenza mai sarei nato io. E tutti noi sottolineavamo come, sfortunatamente, il nome dei partigiani è stato infangato da quei banditi che si mischiarono alle brigate partigiane per poter fare i loro comodi: i vari assassini, stupratori, ladri, traditori, che gli stessi partigiani isolarono o uccisero per poter portare avanti la propria lotta. Del resto, noi che la pensiamo in un certo modo, abbiamo il pregio (che forse a volte diventa un difetto) di discernere la differenza tra ciò che è giusto e sbagliato e tra chi è buono e chi cattivo, a volte anche dandoci delle colossali mazzate sui piedi perché rischiamo di avallare le tesi di chi si mette contro a certi ideali, a certi movimenti che duramente tentiamo di sostenere.

Ieri sera, mentre parlavamo di tutto ciò, inevitabilmente in testa si materializzarono testo e spartito di una canzone che scoprii poco meno di una decina di anni fa, che spesso ho collegato a mia nonna, ma anche a tanti anziani che, magari, non hanno mai assistito ad un assassinio da parte dei nazi-fascisti ma che per almeno due anni hanno avuto paura, ogni giorno, ad ogni ora: paura per loro, per i loro conoscenti, per la loro realtà, che fosse contadina, montana o cittadina. Questa canzone si intitola Nella chiesa di Bellusco, pubblicata nel 2005 dai Mercanti di Liquore sull'album "Che cosa te ne fai di un titolo", e racconta una storia come tante, una storia comune benché sbagliata, che ben descrive il terrore che pervadeva ogni singolo individuo tra l'8 settembre '43 e l'aprile del '45. Ed inoltre sottolinea come in certe situazioni le differenze di idee venivano dopo qualsiasi altra cosa, soprattutto se in gioco c'era la vita di alcuni membri della comunità che stanno lottando per i propri vicini, i propri parenti, i propri simili. Perché Nella chiesa di Bellusco parla di un rastrellamento da parte dei nazisti, alla ricerca di alcuni partigiani che erano stati nascosti sul campanile dal parroco del paese: le SS arrivarono durante la messa, fregandosene della spiritualità, fregandosene del luogo di culto, comunicando al prete il motivo per cui si trovavano lì, chiedendogli collaborazione, promettendogli che nessuno si sarebbe fatto male. Il prete prova a divagare, dice che non ci sono partigiani nascosti in chiesa, ma i tedeschi si fanno pressanti, cominciano a spaventare i presenti. Finché un soldato non decide di accendersi una sigaretta, proprio mentre è appoggiato all'altare, e così il prete, toccato nel profondo, si arma di tutto il suo coraggio e da uno schiaffo al soldato, urlando che "nella casa del Signore non si spara e non si fuma". A quel punto il comandante decide di radunare il suo plotone ed andar via, risparmiando il prete, i presenti ed i partigiani ancora nascosti, per poi non ripresentarsi più. 

Nessuna vittima, né da una parte né dall'altra, ma uno di quegli spaccati di una storia difficile e movimentata che è quella della Resistenza, ed in generale del post-Armistizio, quando nessuno sapeva più chi era amico, chi nemico, chi neutrale, quando bisognava contare semplicemente su se stessi e sui legami che esistevano tra le persone in un certo contesto, per poter sopravvivere, andare avanti, resistere, puntando sul motto "o tutti o nessuno", perché allora, probabilmente, era ancora forte lo spirito di aggregazione, di imprescindibilità di ogni elemento della comunità. Ed è per questo che questa storia, questa canzone, ha un'importanza secondo me fondamentale, perché ci da l'immagine di ciò che potevano essere i tanti paesi del centro-nord italiano negli ultimi due anni della guerra. Come in Val Varaita, così nell'alta pianura; come sulle colline dell'Appennino Tosco-Emiliano, così nella pianura lombarda. E così via.

Una storia comune, una storia sbagliata. Una storia che tanti anziani ricordano ed alla quale si limitano a cambiare il luogo in cui è avvenuta. Perché è una che da Bellusco vale per tutta l'Italia intera. 





Stefano Tortelli


sabato 25 aprile 2015

Le stelle, grandi motori di un sistema perfetto




Raramente non ho avuto rispetto di un oggetto. Ogni oggetto con cui abbiamo a che fare è frutto del lavoro di qualcun altro, e non averne cura sarebbe, in un certo senso, come mancare di rispetto alla persona che ha dedicato la sua conoscenza per renderlo usufruibile, utilizzabile. E, in una società globalizzata come la nostra, dove è già tanto avere la sicurezza della provenienza di ciò che acquistiamo e, quindi, usiamo, è probabilmente impossibile conoscere la persona che con le sue sapienti mani ha reso un prodotto finito materiali di per sé apparentemente inutili. Ma ciò non toglie che il rispetto per questa persona o per più persone è dovuto, secondo me. Del resto fino a che c'era uno stretto legame tra il produttore e l'oggetto prodotto, quando ancora l'industria contava più sugli individui che sulle macchine, la perfetta riuscita del lavoro era una gratificazione per l'operaio, e questo concetto si può estendere alle coltivazioni, alle estrazioni minerarie, per non parlare di tutta l'industria o l'artigianato manifatturiero. Poi, con l'avvento dell'industrializzazione e dell'automatizzazione, promossa dalla catena di montaggio, la stretta correlazione è venuta a mancare, portando all'alienazione, all'assenza di un rapporto tra l'io che produce ed il prodotto finito. Hegel la spiega molto meglio di me questa questione, e benché per tanti è il filosofo promotore del capitalismo io sostengo invece che sia il precursore di Marx e di tutta la corrente anti-capitalista della filosofia occidentale. 

In ogni caso, spogliando le mie considerazioni di ogni caratteristica politica e restando soltanto nell'universo umanistico e spirituale, ogni oggetto merita rispetto in quanto qualcosa di esistente, e, nella mia concezione dell'universo, dotato di una carica energetica, una sorta di anima. Ed è per questo che non mi piacciono certe scale di valori adottate da certe organizzazioni ambientaliste, che mettono al primo posto gli animali di compagnia, poi gli animali di allevamento, poi i mammiferi in via di estinzione, i mammiferi in genere e gli uccelli... qualcuno va oltre prendendo in considerazione i pesci, ma già i rettili, dopo secoli di rigetto religioso nei loro confronti, sono poco calcolati, per non parlare degli invertebrati... quando poi si tratta di passare ad un altro regno, già il discorso è incasinatissimo: perché molti animalisti hanno i paraocchi e non considerano il regno vegetale, molti ambientalisti si fermano a questi due regni, altri li calcolano tutti... ma poi, quando si parla di ciò che è inanimato, la stragrande maggioranza tace. C'è considerazione verso l'acqua, verso il riscaldamento globale che si strumentalizza per altri scopi, ma poi, il silenzio. Tra l'altro sul riscaldamento globale bisognerebbe aprire una parentesi, dire che stiamo uscendo da una piccola glaciazione, tenere conto della ciclicità de periodi climatici, asserire che forse se i leoni e gli elefanti ancora 2000 anni fa erano in Sicilia e poi sono scomparsi forse la colpa non è solo dei Romani che li uccidevano ma anche di un cambiamento climatico che ne ha ridotto l'habitat naturale. Resta comunque il fatto che credo che il rispetto si debba avere per ogni singolo elemento che compone la Terra, e pensare anche che, se proprio si volesse fare una scala di valori, al primo posto bisognerebbe mettere in coabitazione l'acqua e la terra, elementi che combinandosi tra loro pongono i primi presupposti per far sì che ci sia la vita. E tutto questo è detto in modo estremamente semplicistico, senza considerare l'apporto imprescindibile che hanno tutti gli elementi rocciosi che forniscono i minerali per rendere terreno fertile la vita e concime fertile l'acqua. E stimo questi due elementi, perché nulla chiedono in cambio, nulla pretendono da chi di loro si serve per essere, esserci, esistere. 

Sono questi, in effetti, gli elementi che primariamente gli astronomi cercano al di fuori della nostra atmosfera per stabilire dove sarebbe possibile trovare vita o sbarcare per rendere una nuova Terra un altro pianeta, ed è per questo che l'attenzione in primis viene data a Marte, il pianeta a noi più vicino che ha una temperatura tale da poter preservare l'acqua, sebbene in un stato solido, sotto forma di ghiaccio: perché Venere è bollente, Mercurio lo è di più, i pianeti gassosi non hanno superficie, e tutt'al più possono avere alcuni satelliti interessanti per creare delle basi d'appoggio ma non delle vere e proprie città. Perché manca l'atmosfera, la gravità sarebbe presumibilmente troppo forte per qualsiasi realtà che deve durare nel tempo. Resta Marte, nel sistema solare. Ed al di fuori? Al di fuori si cerca la "fascia dei riccioli d'oro", ovvero la fascia abitabile, quella che si trova ad una distanza sufficiente ma non eccessiva per far sì che un pianeta possa avere acqua allo stato liquido: un altro pianeta come il nostro in tutto e per tutto. 

Ma questi pianeti necessitano di energia, necessitano della fonte primaria della vita: più dell'acqua, più della terra, più dei minerali, più della vita stessa. Necessitano del Sole, necessitano di una stella in grado di alimentarli ogni giorno, in grado di dar loro la forza, in grado di dare l'energia necessaria ad ogni eventuale forma di vita che questi pianeti ospitano per far sì che nasca, che sopravviva, che cresca al meglio, che evolva, che sia anch'essa, poi, necessaria ad altri elementi dell'universo. "Le stelle sono tante, milioni di milioni", e sono secondo me la più grande forma di "vita" esistente nell'universo: nascono, crescono, creano tutto ciò che le circonda, e dopo averlo creato lo preservano, lo alimentano, lo migliorano. E non pretendono nulla in cambio, non si pongono il problema di ricevere tanto quanto danno, men che meno di ricevere di più. Se ne stanno lì, a roteare su se stesse, bruciando, creando energia con la quale irradiare il proprio sistema solare, che è da esse sì dipendente ma che mai hanno chiesto, preteso.

Sarebbe bello se, oltre ad avere un'anima, ogni elemento dell'universo potesse parlare, perché sarebbe interessante scoprire con che animo si prodiga per tutti gli altri elementi. Credo comunque che le stelle siano qualcosa di santo, di divino, di sovrannaturale, perché del resto è così che vengono considerati gli uomini e le donne che si sono comportati in questo modo nei confronti dei propri simili e del proprio mondo: dando tantissimo, ricevendo poco o nulla, finendo però poi sui libri di storia, sui calendari religiosi, nelle leggende e nei miti. Credo anche che le stelle, con i loro sistemi solari, siano la più grande manifestazione di quel che è un sistema anarchico perfetto, dove tutti fanno la loro parte, dove tutti hanno il giusto per poter essere al meglio delle proprie potenzialità, per potersi esprimere, per poter essere, esserci ed esistere. Senza aver bisogno di resistere, sempre che qualcosa al loro interno non ne mini la stabilità. 

E proprio noi, che siamo in parte i responsabili dell'instabilità del nostro pianeta, già solo per la sovrappopolazione che lo sta portando ad essere insufficiente per il fabbisogno di ogni individuo e di ogni essere che è ospite della Terra, siamo stati fin dall'alba dei tempi devoti al Sole: l'abbiamo divinizzato in ogni angolo del globo chiamandolo, ognuno con la propria lingua, Dio. E, paradossalmente, sarà proprio lui a determinare quando arriverà l'Apocalisse, a far cessare la vita ovunque. E non per cattiveria, non perché è un dio vendicativo, ma per il semplice fatto che, venendo a mancare lui, il sistema anarchico perfetto collasserà, finirà nel caos, finirà nella distruzione. Scomparirà.

Fortunatamente di tempo per ammirare il sole e tutte le altre stelle ne abbiamo molto, e penso che sia giusto e doveroso continuare a sorrider loro, a guardarli con ammirazione, a desiderare che non si spengano mai. E mi piacerebbe che si ricominciasse a dar loro un nome come facevano i nostri avi anziché una sigla seguita da un numero: sono loro le divinità, non noi, e non è rispettoso trattare come elementi da catalogo qualcosa di così meraviglioso. 

Del resto le notti stellate sono uno spettacolo indescrivibile, e chissà che a volte, anche loro, prendendosi una pausa dal loro incessante lavoro, non si fermino a guardare verso di noi anche solo per un istante.



Stefano Tortelli



giovedì 23 aprile 2015

Dante Di Nanni, un eroe immigrato






Difficilmente dimenticherò i racconti di mia nonna riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale, soprattutto dei due anni che seguirono l'armistizio dell'8 settembre del 1943, quando talvolta i conflitti tra fascisti ed anti-fascisti erano una scusa per sistemare questioni in sospeso tra vicini di casa e talvolta come l'amicizia, l'affetto e l'aver affrontato tante situazioni difficili insieme fino a quel fatidico giorno andavano oltre ogni differenza ideologica e politica. Mi raccontava di come, quando fu sfollata, partecipava alle staffette partigiane, di come mio nonno, che allora era camicia nera, aiutò il figlio dei vicini, partigiano, a nascondere i fucili (che si infilò nei pantaloni, rischiando lui stesso la vita) che il comando fascista voleva trovare per avere la prova inconfutabile che fosse un nemico del fascismo. Ma anche degli atti gratuiti di violenza compiuti da banditi che si spacciavano per partigiani, sia nei suoi confronti (da parte di un presunto partigiano che la mise al muro con mio zio, ancora in fasce, in braccio... questo partigiano venne poi ucciso dai suoi stessi compagni perché traditore) sia nei confronti di alcuni tedeschi che tutto erano tranne che i nazisti che si vedono in tv. E mia nonna, che nonostante avesse personalmente sofferto più a causa dei partigiani che a causa dei fascisti (benché lei stessa fosse un'ardente anti-fascista già da prima dell'Armistizio), mai si sognò di fare di tutta l'erba un fascio, di estendere il suo odio nei confronti di un singolo partigiano a tutti i partigiani, come mai appoggiò, solo perché moglie di un camerata che ingenuamente viveva nel mito del Duce, il fascismo senza sé e senza ma (ed anzi venne malmenata durante una parata perché si rifiutò di fare il saluto fascista). Stiamo parlando di una donna di altri tempi, di una persona che già di per sé era speciale ma che, probabilmente, faceva anche parte di una generazione capace di discernere il bene dal male al di là del buono e del cattivo di turno. Del resto lei, quando ebbe mio zio nel '44, aveva appena 19 anni, mio nonno 18, e fu proprio a quella generazione che venne dato il compito di "sporcarsi le mani" per ricostruire un'Italia devastata dalla guerra. 

Vivevano in centro all'epoca della guerra, e non molto distante da dove lei ha vissuto quel capitolo della sua storia si stava consumando l'ennesima perdita illustre di un grande eroe della resistenza torinese, suo coetaneo, che morì due giorni prima del diciannovesimo compleanno di mia nonna. Era il 18 maggio, i genitori di Dante Di Nanni erano arrivati a Torino per lavorare dalla Puglia, lui a Torino lavorò studiando la sera, finché durante la seconda guerra mondiale non venne arruolato. Il giorno dell'Armistizio, come tanti soldati che avevano fino a quel giorno combattuto per il Duce ed il Re, scappò dalla caserma e raggiunse i primi partigiani, cominciando ad organizzare la Resistenza, cercando di creare un piano per piegare la dominazione nazi-fascista nel Piemonte. Era scappato a Boves, località non molto lontana da Cuneo, ma presto sarebbe tornato a Torino per lasciare il suo nome alla storia e le sue gesta in nome della nostra libertà. Il 17 maggio del 1944, con i suoi compagni di brigata, attaccò una stazione radio che creava interferenze sulle frequenze di Radio Londra: dovevano eliminarle per permettere alle comunicazioni di riprendere, per far sì che il coordinamento dei partigiani potesse nuovamente sussistere. Distrussero la stazione, risparmiarono la milizia di presidio facendosi promettere che non avrebbero denunciato l'attacco, ma vennero traditi. Presto ebbero i nazi-fascisti alle costole, presto vennero tutti feriti, alcuni catturati. Rimasero in due: Pesce e Di Nanni, quest'ultimo gravemente ferito ed accompagnato dall'amico in una via di Borgo S. Paolo, via San Bernardino, perché potesse essere medicato. Mentre Pesce cercava aiuto per far sì che l'amico potesse raggiungere l'ospedale trovò la sua casa circondata dal nemico, e ben presto anche l'alloggio dove si trovava Di Nanni fu preso d'assedio dalle truppe nazi-fasciste. 

Non so cosa scattò in Di Nanni in quel momento, ma credo che il suo atto sia uno dei più eroici che si possano immaginare: perché lui, già morente, sarebbe ormai morto in ogni caso, e che fosse per le ferite precedenti o per le ferite alle quali si era esposto poco sarebbe cambiato; perché lui la libertà per la quale stava dando la vita non l'avrebbe mai minimamente assaporata; perché, nonostante ciò, si armò di fucile, dinamite e bombe a mano e resistette all'assedio per quattro lunghe ore, uccidendo diversi miliziani e sabotando grazie ai suoi ordigni alcuni veicoli tedeschi. E, quando ormai era allo stremo delle forze e non più in grado di combattere, piuttosto che lasciare che fosse il nemico a prendere la sua vita decise di buttarsi, cadere nel vuoto, lanciandosi dal balcone al grido di "Viva il partito comunista".

Si suicidò, e con tutte le armi che aveva a sua disposizione poteva scegliere anche altri modi per porre fine alla sua eroica agonia. Ma voglio pensare che si sia lanciato dal balcone per versare il suo nobile sangue sulle strade lastricate della città che aveva accolto la sua famiglia, alla quale aveva dato lavoro, e che Dante aveva istruito, e poi avvicinato all'ideologia socialista. 

In Borgo San Paolo, da decenni ormai, una delle vie più belle del quartiere è a lui dedicata e si trova a poche decine di metri dalla casa di Via San Bernardino nella quale è nata la sua eroica storia. La storia di un figlio di una terra allora lontana come poteva essere la Puglia durante il ventennio fascista, la storia di un ragazzo che a Torino ha conosciuto il lavoro, la cultura, le idee, un ragazzo che prima in fabbrica e poi, di nascosto, sotto le armi ha maturato la sua decisione di dare una svolta a questo Paese appena si fosse presentata l'occasione di farlo, senza posticipare, senza tirarsi indietro, senza mollare nemmeno un centimetro. E non ha mollato nemmeno quando sapeva che ormai era finita, ha sparato ogni singola cartuccia urlante libertà fino a che ha avuto sufficiente sangue nelle sue vene per poter premere il grilletto, non dando nemmeno la soddisfazione ai suoi aspiranti carnefici di poter dire che l'avevano ucciso loro. Un eroe di altri tempi, un uomo di altri tempi, dello stesso anno di mia nonna, con gli stessi sogni di mia nonna. Lui è stato uno dei molti che ha messo i semi per far diventare realtà i sogni, mia nonna è stata una delle molte che ha fatto in modo che a questi semi non mancasse nulla. 

A lui è stata dedicata anche una canzone meravigliosa degli Stormy Six, ripresa da diversi artisti ma che, nella sua versione originale, soprattutto se ascoltata nel contesto dell'album dal quale è estratta (Un biglietto del tram, che non fatico a definire uno dei più grandi album riguardanti non solo la Resistenza ma l'intero periodo '42-'45, da Stalingrado all'arrivo degli Americani passando per Dante Di Nanni, gli scioperi di Torino e le persecuzioni degli ebrei), rappresenta un tributo emozionante e meraviglioso ad uno dei più grandi eroi di Torino, della Resistenza e dell'Italia intera.



Stefano Tortelli



mercoledì 22 aprile 2015

La memoria distorta, la memoria annegata ed il qualunquismo dilagante






Da quando è aperto il blog raramente mi sono messo a discutere su Facebook di questioni politiche. Mi limitavo a leggere, ad osservare, ad individuare i vari luoghi comuni messi in campo sia da una parte sia dall'altra ed isolare i discorsi che, fossero di destra o di sinistra, avessero dei contenuti. Ultimamente, però, mi son trovato ad intervenire su diverse questioni, ad alimentare io stesso alcuni scambi di idee che talvolta son diventati scontri, fortunatamente sempre in modo abbastanza civile. Anzi, il più delle volte ad alzare per primo i toni del tenzone sono stato io, e forse perché troppe volte fino ad ora sono stato in silenzio.

Ho tirato su un polverone immane riguardo l'obelisco dedicato a Mussolini, provocando i detrattori della Boldrini che si nascondevano dietro lo slogan "La storia e la cultura non si toccano" per occultare tutt'altra intenzione. Sia chiaro, per chi non avesse assistito alla discussione, che non ho mai sostenuto che la Boldrini avesse ragione: ma, come ho detto, ho provocato, dicendo che anzi avevano ragione, che i monumenti vanno protetti perché raccontano la storia, ma la storia va anche raccontata giusta, e per cui suggerivo come soluzione il capovolgimento del monumento. Mettiamola sotto sopra, così oltre all'inizio ed allo svolgimento abbiamo anche il finale corretto! Inutile dire che si son scritte tante parole, troppe, molte delle quali inutili ma alcune assolutamente necessarie per capire l'andazzo generale che ha preso questo Paese ormai alla deriva.

Alla deriva come quei barconi che si vuole abbattere, quei barconi che affondano e portano con sé centinaia di anime che credevano di navigare in un sogno che non è diventato un incubo, ma la fine della loro realtà. Io mi chiedo con che coraggio, poi, chi appoggia Salvini e compagnia dia del buonista a chi invece si chiede il perché di tutto questo, a chi piange quelle vittime, a chi non ci sta nel dover assistere a tutto ciò. Se è buonista chi è mosso da spirito umanista, e loro si contrappongono a chi tacciano come buonista, per equazione matematica questi tutto sono tranne che umani. E' matematica, la stessa fredda matematica che usano per dire: bene, son 950 clandestini di merda in meno in Italia, speriamo che presto tanti altri facciano la stessa fine. 

Mi girano le palle, mi girano le palle in modo pazzesco nel dover leggere tutto questo, soprattutto quando anziché mossi da un'ideologia (per quanto malata possa essere un'ideologia che promuove questo tipo di pensieri) si rifugiano nel qualunquismo. Lo stesso qualunquismo che li ha fatti esultare per la fine delle dittature di Gheddafi, di Saddam Hussein, di Milosevic etc. Sembra che queste persone siano cadute dalle nuvole, inconsapevoli di come funziona il mondo, di come ad un'azione corrisponda sempre una reazione, e di come, quando si crea il caos, è naturale che le ripercussioni si sentano ovunque. E queste ripercussioni possono manifestarsi in aumenti del costo del petrolio (e tutti a dare dei ladri ai benzinai ed allo Stato per le accise), in aumento dei prezzi dei prodotti provenienti dall'estero causati dal rincaro dei trasporti (e tutti ad accodarsi nella gara a chi difende di più il Made in Italy), in esodi di massa da luoghi in cui ci si uccide anche solo per un bicchiere d'acqua o un pezzo di pane (e tutti, ovviamente, ad infangare queste persone disperate ed il governo). Ed allo stesso tempo rimpiangono epoche che mai hanno vissuto, epoche che forse i loro genitori o i loro nonni non hanno loro raccontato bene, perché se rimpiangono un Mussolini autarchico o un Hitler propenso alla pulizia etnica c'è davvero qualcosa che non funziona nell'insegnamento e nel tramandare di generazione in generazione la storia. Hanno ragione a dirmi che non devo chiamarli fascisti, perché effettivamente fascisti non sono. Sono tutt'al più malinformati, delusi dalla politica, convinti che avere degli ideali non porti effettivamente da nessuna parte. 

E la cosa, a dirla tutta, non mi stupisce: dopo 20 anni di politica di Berlusconi nella quale si puntava sull'apparenza e non sull'essenza, sulla demonizzazione di certi concetti (comunismo e solidarietà in primis), sulla parodia quotidiana dell'avversario politico di turno del leader del centro-destra promossa non dalle sue reti televisive, non dai comici ma da lui stesso, è ovvio che il risultato non poteva essere molto differente. Non che Berlusconi abbia inventato nulla, sia ben inteso: è stato sicuramente il miglior interprete di questa "arte", ma è la vecchia scuola della DC quella che ha posto le basi per quest'annientamento della capacità di discernere, della voglia di informarsi, della fedeltà alle proprie idee ed ai propri ideali. Quella DC che faceva passare per mangiabambini e ladri di terre i comunisti, che è poi la stessa DC che sapeva chi veramente voleva morto Moro; quella DC che faceva passare l'Unione Sovietica come il male assoluto mentre gli Stati Uniti come terra di libertà, che è poi la stessa DC che faceva affari con la Mafia (e li fa tutt'ora, anche se in vesti diverse), la P2 e dava il nulla osta agli USA di dar vita alle cellule del Gladio anche in Italia. E così via, di questioni da rispolverare ce ne sarebbero a centinaia, ma elencarle così è inutile, sebbene siano tutte verità, a differenza di quelle millantate dal centro-destra per settant'anni ed alle quali per settant'anni l'italiano medio ha creduto.

Settant'anni. Settant'anni son passati anche da quei giorni di aprile in cui in tutto il Nord Italia le grandi città si liberavano dalla dominazione nazi-fascista, da sole, contando sulla solidarietà e su un sano senso di appartenenza, ovvero gli ingredienti principali di un reale patriottismo. C'è chi, ancora adesso, vomita sulle donne e sugli uomini che hanno liberato l'Italia da una reale dominazione straniera, rinnegando loro stessi, nei fatti, di essere italiani, di essere intelligenti, di essere umani. 

Nei prossimi giorni dedicherò diversi post ad alcuni elementi che sopra ho appena sfiorato, ma dopo tanto discutere, litigare ed innervosirmi, anche parecchio, tanto da dover frenare più di una volta le dita agognanti di scrivere i peggiori insulti, avevo decisamente il bisogno di sfogarmi, di dare loro carta bianca. Perché d'accordo, usare la diplomazia con toni pacati, anche se a volte un po' tirati, è sempre la via migliore...ma a volte se mordersi la lingua, legarsi le mani e quindi farsi male ha l'unico scopo di non far male ad altri che, quotidianamente ed inconsciamente fanno male al resto del mondo, allora non solo è cosa buona ma è cosa dovuta, principalmente verso me stesso, smettere di essere masochista.

Che poi tutto questo possa non servire a nulla è quasi assodato, nel senso che di certo, da solo, il mondo non lo posso cambiare. Ma finché avrò la possibilità di provare anche solo a far ragionare, a mettere a conoscenza di certi fatti, a far cambiare idea ad una persona continuerò a dannarmi l'anima pur di portare avanti le mie idee, i miei pensieri e le mie convinzioni. 

E dato che questo è un post un po' avvelenato, non v'è canzone più adatta di questa a sintetizzare il mio stato d'animo. Incazzato, un po' stanco, ma ancora desideroso di andare avanti. 






domenica 19 aprile 2015

Acousteen: artista, fan, devoto al Boss fino al midollo... e grande amico





Nella tarda mattinata di venerdì 10 aprile, mentre mi stavo preparando per pranzare e poi andare a scuola ad insegnare, mi è arrivato un messaggio su Facebook che più o meno recava queste parole: "Ehilà, carissimo! Stavo pensando: ma se stasera provassimo a fare un duetto su Desolation Row/Via della povertà, così, alla buona? Tu canti De André, io Bob, tre strofe a testa, la si improvvisa, così, su due piedi." Un bel modo per cominciare la giornata, un bel modo per prepararmi ad una serata che mi incuriosiva parecchio. Ivan, un carissimo mio amico, l'autore di quel messaggio, avrebbe suonato da solo, con le sue chitarre e le sue armoniche, in piazza a Vigone, davanti ai suoi amici, ai suoi conoscenti, ai suoi familiari, le canzoni di uno dei suoi miti. Facendole, come si suol dire qui in Piemonte, "alla sua maniera", in acustico.

Il mito in questione risponde al nome di Bruce Springsteen, un artista che per molto tempo Ivan aveva sì apprezzato ma mai particolarmente approfondito: un po' come una persona che incroci tante volte in giro, o in birreria, con la quale capita anche di scambiare due parole ma senza andare oltre a discorsi che possono anche essere seri ma mai personali. Poi però è cambiato qualcosa: Ivan andò per la prima volta a sentire un concerto del Boss e ne rimase folgorato, rapito, colpito. Bruce l'aveva fatto innamorare, era finalmente entrato nel profondo, aveva scosso le sue emozioni, la sua mente, il suo cuore. Fu la sua via di Damasco, quel concerto, e da allora ha sempre più approfondito la conoscenza del rocker del New Jersey, andando a sentirlo più volte possibile live, studiandoselo a casa con in mano la chitarra e lo stereo a palla, parlandone per ore con le sue ragazze, i suoi amici, me. 

Una sera, mentre eravamo all'Orso, quello che è il rifugio di noi amanti di campagna della birra e della buona musica, non ricordo come cominciammo a parlare dell'interpretazione, delle cover, del provare a cantare un artista e "come un artista". Ricordo che entrambi sottolineavamo la difficoltà oggettiva nel riuscire a cantare come Dylan, come De André, come Guccini, come Springsteen: avevamo del resto lo stesso sogno, lui ed io, un sogno mosso dalla stessa passione, anche se rivolto a due artisti differenti. Lui avrebbe tanto voluto fare un one man show riproponendo Dylan, io avrei voluto dar vita ad una cover band acustica di De André e Guccini. Già però in lui aleggiava l'idea di cambiare meta e dirigersi verso Springsteen, ma per l'appunto mi sottolineava come fosse difficile, impossibile, riprenderlo, riproporlo tale e quale. Voce bastarda, quella di Springsteen, e del resto vale la stessa cosa anche per gli altri tre citati, vale la stessa cosa per un altro mito come Cohen, e perciò era quasi convinto che non avrebbe perseguito ancora per molto quel sogno. Ma dopo qualche birra ed un'ora di chiacchiere pensai al mio rapporto con De André e Guccini, pensai a come io abbia cominciato a cantarli bene quando ho preso coscienza del fatto che non avrei mai potuto ottenere il loro stesso risultato ma che, facendomi muovere dalle loro stesse motivazioni, sarei riuscito a renderli al meglio: non avrei più cantato i pezzi di De André e Guccini come De André e Guccini, avrei semplicemente cantato De André e Guccini. Mi ricordo che gli dissi: "Se vuoi cantare come Bruce parti già sconfitto, non perché non ne sei in grado ma perché, comunque vada, già solo perché avete due voci diverse, due accenti diversi, il risultato non potrà mai essere quello. Ma se lo canti, se vuoi cantare Bruce, se vuoi emozionare attraverso le sue canzoni, allora è sufficiente che tu percepisca le sue canzoni come se fossero tue. come se le avessi scritte tu, come se stessero raccontando la tua storia. Perché non c'è altro verso: io finché ad alcune canzoni non ho dato una situazione di riferimento, un volto, un'emozione che le rappresentasse non sono mai riuscito a cantarle davvero. Le imitavo, ma non cantavo" .

Dopo qualche settimana ci ritrovammo a condividere molte serate insieme, in giro a sentire concerti, a bere, a confidarci, a far notte fonda. E talvolta anche a suonare, a buttare giù qualche idea: perché così funziona tra amici, così capita tra amici che oltre essere amici condividono anche le stesse passioni, e le vivono nello stesso modo. E così, tra un concerto e l'altro, una birra e l'altra, un apprezzamento ad una ragazza e le risate per l'ennesima cazzata detta, è venuta a crearsi una fortissima amicizia: in nome sì della musica, ma soprattutto in nome dei bellissimi momenti passati insieme e della stima reciproca. 

Da quella serata di inizio ottobre son passati sei mesi, tante birre, miriadi di cazzate e centinaia di canzoni canticchiate, ascoltate e suonate insieme. Ed intanto, lui che oltre a saper cantare sa anche suonare divinamente, ha continuato il suo percorso riguardante il Boss. Un concerto a marzo a Torino, uno meno di dieci giorni fa a Vigone. Suona anche alcuni pezzi del suo primo amore, Bob Dylan, durante il suo show, quando per due ore smette di essere Ivan Audero e diventa Acousteen. Ed a Vigone, quel venerdì 10 aprile, alla sera, ci siamo ritrovati un'altra volta con lo sguardo rivolto verso la stessa direzione, che incontrava altri sguardi fissi su di noi, pronti a guardare due amici che, per qualche minuto, mettono in gioco le loro emozioni sullo stesso pezzo, in due lingue diverse, così come fecero al loro tempo Bob Dylan negli Stati Uniti e De André in Italia. Ma mai era successo che lo facessero insieme, sullo stesso palco. Noi un palco vero e proprio non ce l'avevamo, ma le passioni di Bob e Faber abbiamo provato a riproporle al meglio in un paesino della provincia torinese. 


Ed oltre alla felicità di aver finalmente cantato De André davanti ad altre persone, durante un concerto, per la prima volta, quel venerdì sera ero estremamente orgoglioso. Non di me, ma di questo mio amico che attraverso la sua immensa passione e devozione per l'arte di Springsteen ha saputo riproporlo meravigliosamente, emozionandosi ed emozionando. Senza scimmiottare, senza pretendere di essere come Springsteen. Semplicemente, omaggiandolo al massimo delle sue possibilità, mantenendo la propria identità, raccontando sì la storia delle canzoni ma anche quel che quelle canzoni rappresentano per lui: il pensiero per suo padre legato a My hometown, sua nonna che gli chiede di fare quel pezzo che le piace tanto, i cenni riguardanti donne del passato e gli amici di sempre. Insomma, si è raccontato per due ore attraverso le canzoni del Boss, che però, se noi non avessimo saputo che erano del Boss, avremmo tranquillamente potuto dire: "Wow, gran bei pezzi ha scritto Ivan, boia faus!!". 

Questo è Ivan Audero. Queste sono le sue passioni. Questo è il progetto Acousteen. Questo è il mio amico.

Ps: forse direttamente non ti ho ancora ringraziato per avermi permesso di esserci, e non solo venerdì ma da qualche anno a questa parte e, soprattutto, in questi ultimi mesi. Grazie, Ivan! Ed ora basta con i sentimentalismi, mettiamo su un pezzo che sennò ci scende la lacrimuccia e non si addice a due uomini rozzi come noi! E visto che l'ho citata, e visto che nella tua "hometown" ci siamo conosciuti, direi che questa canzone ci sta tutta.





Stefano Tortelli







venerdì 17 aprile 2015

Il risveglio





Aspettavo questo giorno da un po' di tempo, quasi fosse una sorta di compleanno o di capodanno. Volevo tornare qui, in queste pagine, nell'interfaccia di editing, per poter nuovamente lasciar ritmicamente danzare le dita sulla tastiera, le quali da diverse settimane agognavano di dar vita ad una nuova coreografia allegorica, atta ad inscenare la realtà, il passato, il presente, le emozioni, i sogni. O a disegnare i contorni di vecchi e nuovi volti, vecchi e nuovi sorrisi e tante nuove esperienze. Ho proibito loro queste attività per tanto, troppo tempo. Perché c'erano da sfogliare le pagine dei libri dell'università, ma anche da riavvolgere il nastro, premere play e sottolineare ciò che negli ultimi mesi non funzionava e che ho affrontato nel modo sbagliato, trovando mille espedienti per non riconoscere i miei errori, le mie debolezze, le mie mancanze. Ma ora che hanno riavvolto il nastro, sottolineato ciò che non andava, impugnato gli attrezzi del mestiere per riparare, ricucire e rammendare, e sfogliato le pagine da studiare in modo efficace, ecco che finalmente possono tornare a far ciò che più a loro piace. 

Ed è curioso come, a preannunciare questo loro ritorno sul palcoscenico, sia stato un inaspettato messaggio su Whatsapp: "Quando potrò leggere qualcosa di nuovo sul blog?" Oggi, amica mia. Perché oggi sento il bisogno di dire che, sebbene con qualche giorno di ritardo rispetto al calendario, è tornata la primavera anche qui, è tornato a splendere il sole, sono nuovamente sbocciati i sorrisi e le mie vene sono nuovamente fiumi in piena diretti verso al mio cuore e ricchi di sensazioni, emozioni ed esperienze da rimettere prontamente in circolo. E probabilmente era necessario, per mettere in atto tutto questo, collassare, addormentarmi dopo uno sfogo enorme, anche solo per qualche ora, disintegrando non tanto il resto del mondo quanto un me stesso che non mi soddisfaceva più perché troppo immobile, troppo fossilizzato, troppo monumentale. E come spiega la storia dell'universo, è necessaria un'esplosione, è necessario distruggere, per poter costruire qualcosa di nuovo. Anche con lo stesso "materiale", ma pensare di poter fare tutto ciò solo con qualche accorgimento, solo con soluzioni di compromesso, solo evitando di dire o fare cose ritenute sbagliate che però si sente la necessità di non tenere più dentro ed esprimere è pura fantascienza, è il classico filmetto di serie b, il classico romanzo da adolescenti. Perché a volte, è inutile girarci attorno, è necessaria un'autodistruzione per poter rinascere, per potersi risvegliare.

Ed il Risveglio non poteva avvenire in un momento migliore di questo, con la primavera ormai a pieno regime, con tanti concerti dietro l'angolo, con gli ultimi esami alle porte ed una laurea che ormai posso vedere ad occhio nudo, con tante nuove persone ad animare i miei giorni e le mie notti ed i vecchi amici di nuovo qui, i quali forse mai se n'erano andati ma che io non riuscivo a vedere. E poi ci sono gli ultimi sogni, nei quali stanno cambiando i protagonisti, nei quali tira una nuova aria, dai quali è bello risvegliarsi perché potrebbero essere realtà, potrebbero essere premonizioni, potrebbero essere anticipazioni. Non vedo l'ora di poter scoprire tutto ciò, dando un seguito al continuo divenire di queste ultime settimane che si era interrotto per un non precisato periodo di tempo, sperando di poter presto risentire mio uno dei versi di Guccini nei quali ho sempre voluto rispecchiarmi: "Io sono sempre lo stesso, sempre diverso". 

Del resto il Risveglio, come viene descritto in Siddharta da Hermann Hesse, è una sorta di rinascita, di resurrezione, ma anche di liberazione, di alleggerimento dato dal divincolarsi da ciò che per tanto, troppo tempo aveva turbato il giovane brahmino. Questa, tra l'altro, è la parte che più adoro di quel meraviglioso romanzo, che tante volte ho letto e che probabilmente riprenderò in mano, riassaporandone le parole, ritoccandone le parole e immaginando nuovamente quel volo in prima persona sopra i campi, lungo i fiumi, dato dal riuscire ad immedesimarsi totalmente in un airone tanto da essere quell'airone.

Comunque, e per concludere, il mio sbaglio è stato voler ingannare il tempo, prendermi gioco di lui, dimenticandomi che per ogni cosa c'è un tempo, e voler bruciare alcune tappe, saltarne altre, solo per trarre una soddisfazione momentanea che, di fatto, non può dare un reale piacere, è semplicemente il miglior modo per posticipare ulteriormente il vero sorriso, l'autentico respiro, la genuina emozione. E forse mi son sbagliato perché, a forza di non ascoltare questa canzone, me n'ero dimenticato. 




Ps: da domani si ricomincia a scrivere davvero, "ho ancora tante storie ancora da raccontare"... 


Stefano Tortelli