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La chiesa di Bellusco |
Ieri sera, come tante sere, ero all'Orso con gli amici di sempre, a fare le solite cose. Chiacchiere, birre, scherzi, gli immancabili discorsi riguardanti la musica, che però spesso vengono inframezzati da discorsi seri, perché se è vero che il divertimento condiviso avvicina le persone che lo condividono, i discorsi seri creano amicizie, le rafforzano, le cementificano. Ed a volte si parla dei problemi di uno di noi, a volte di problemi comuni, altre volte ancora dell'attualità, della storia, della politica. Stavo raccontando ad alcuni di loro che ieri, complice il tempo, mi sono preso la libertà di starmene per buona parte del tempo a letto, rinunciando ad andare a Torino in Borgo San Paolo per i festeggiamenti della Liberazione a pochi passi da Via Di Nanni. E così è stato introdotto il discorso della Resistenza, portato avanti dal Biondo che sottolineava come sia un bel giorno, ogni anno, il 25 aprile perché sua nonna, ora novantenne, racconta come una ragazzina, con lo stesso piglio e la stessa intensità di una ventenne, gli anni della guerra, i bombardamenti alleati, le persecuzioni da parte di fascisti e nazisti, le torture psicologiche nei confronti dei partigiani catturati, le fucilazioni, ed infine la liberazione vera e propria.
Ognuno di noi ieri sera ha raccontato delle storie: Angelo, il barista, le storie di alcuni vigonesi che quando faceva le medie intervistò con la scuola, Bruno i racconti tramandati dai familiari di ciò che era successo nella campagna che circondava la sua casa, Biondo le storie di Villafranca, io le storie dei miei nonni materni a Torino e dei miei nonni paterni in Toscana. Dissi anche che fu un paradosso decisamente strano il fatto che, se non fosse stato per la guerra, forse mia nonna e mio nonno mai si sarebbero incontrati a Torino, mai sarebbero nati i miei zii e mia mamma, e di conseguenza mai sarei nato io. E tutti noi sottolineavamo come, sfortunatamente, il nome dei partigiani è stato infangato da quei banditi che si mischiarono alle brigate partigiane per poter fare i loro comodi: i vari assassini, stupratori, ladri, traditori, che gli stessi partigiani isolarono o uccisero per poter portare avanti la propria lotta. Del resto, noi che la pensiamo in un certo modo, abbiamo il pregio (che forse a volte diventa un difetto) di discernere la differenza tra ciò che è giusto e sbagliato e tra chi è buono e chi cattivo, a volte anche dandoci delle colossali mazzate sui piedi perché rischiamo di avallare le tesi di chi si mette contro a certi ideali, a certi movimenti che duramente tentiamo di sostenere.
Ieri sera, mentre parlavamo di tutto ciò, inevitabilmente in testa si materializzarono testo e spartito di una canzone che scoprii poco meno di una decina di anni fa, che spesso ho collegato a mia nonna, ma anche a tanti anziani che, magari, non hanno mai assistito ad un assassinio da parte dei nazi-fascisti ma che per almeno due anni hanno avuto paura, ogni giorno, ad ogni ora: paura per loro, per i loro conoscenti, per la loro realtà, che fosse contadina, montana o cittadina. Questa canzone si intitola Nella chiesa di Bellusco, pubblicata nel 2005 dai Mercanti di Liquore sull'album "Che cosa te ne fai di un titolo", e racconta una storia come tante, una storia comune benché sbagliata, che ben descrive il terrore che pervadeva ogni singolo individuo tra l'8 settembre '43 e l'aprile del '45. Ed inoltre sottolinea come in certe situazioni le differenze di idee venivano dopo qualsiasi altra cosa, soprattutto se in gioco c'era la vita di alcuni membri della comunità che stanno lottando per i propri vicini, i propri parenti, i propri simili. Perché Nella chiesa di Bellusco parla di un rastrellamento da parte dei nazisti, alla ricerca di alcuni partigiani che erano stati nascosti sul campanile dal parroco del paese: le SS arrivarono durante la messa, fregandosene della spiritualità, fregandosene del luogo di culto, comunicando al prete il motivo per cui si trovavano lì, chiedendogli collaborazione, promettendogli che nessuno si sarebbe fatto male. Il prete prova a divagare, dice che non ci sono partigiani nascosti in chiesa, ma i tedeschi si fanno pressanti, cominciano a spaventare i presenti. Finché un soldato non decide di accendersi una sigaretta, proprio mentre è appoggiato all'altare, e così il prete, toccato nel profondo, si arma di tutto il suo coraggio e da uno schiaffo al soldato, urlando che "nella casa del Signore non si spara e non si fuma". A quel punto il comandante decide di radunare il suo plotone ed andar via, risparmiando il prete, i presenti ed i partigiani ancora nascosti, per poi non ripresentarsi più.
Nessuna vittima, né da una parte né dall'altra, ma uno di quegli spaccati di una storia difficile e movimentata che è quella della Resistenza, ed in generale del post-Armistizio, quando nessuno sapeva più chi era amico, chi nemico, chi neutrale, quando bisognava contare semplicemente su se stessi e sui legami che esistevano tra le persone in un certo contesto, per poter sopravvivere, andare avanti, resistere, puntando sul motto "o tutti o nessuno", perché allora, probabilmente, era ancora forte lo spirito di aggregazione, di imprescindibilità di ogni elemento della comunità. Ed è per questo che questa storia, questa canzone, ha un'importanza secondo me fondamentale, perché ci da l'immagine di ciò che potevano essere i tanti paesi del centro-nord italiano negli ultimi due anni della guerra. Come in Val Varaita, così nell'alta pianura; come sulle colline dell'Appennino Tosco-Emiliano, così nella pianura lombarda. E così via.
Una storia comune, una storia sbagliata. Una storia che tanti anziani ricordano ed alla quale si limitano a cambiare il luogo in cui è avvenuta. Perché è una che da Bellusco vale per tutta l'Italia intera.
Stefano Tortelli
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