domenica 8 febbraio 2015

Fino all'ultima nota di vita - Andrea Parodi






Stasera ho deciso di farmi del male, influenzato anche da uno dei miei contatti di Facebook che ha deciso di votare questa serata ad Andrea Parodi, voce storica dei Tazenda e dell'orgoglio sardo. 

Fabrizio De André, parlando con Andrea della Sardegna, terra che l'aveva adottato e che per Parodi era la casa natia, sostenne che non erano stati loro a scegliere quella grande isola come propria terra, ma la Sardegna a scegliere di esserlo, di manifestarsi in ogni momento, di far sentire la propria presenza come se, oltre ad averla sotto ai piedi, la si avesse totalmente attorno, sentendola respirare, avvicinarsi accarezzandoli. Ed è un discorso che si può mutuare, che si può applicare a certe voci, a certe personalità della musica. La domanda che si suol usare per scoprire i gusti musicali di una persona è: "Che musica ascolti?"; ma forse ci sopravvalutiamo, forse releghiamo ad una dimensione razionale, e quindi delle scelte, quella che invece è una realtà propria dell'inconscio, delle emozioni, dell'irrazionale. E' la musica che si fa ascoltare, e sono certi artisti che decidono di far sì che si sia in grado di rimanerne affascinati. Questo lo si può notare quando di un artista ci si innamora dopo tanto, tanto tempo che già lo si conosce. Cosa è cambiato rispetto a prima? Cosa ha fatto sì che se fino ad un dato momento è stato per noi inascoltabile, o al più siamo stati nei suoi confronti indifferenti, tutto ad un tratto ci ha totalmente travolti, legando la nostra esistenza a doppio filo con quelle note, quelle parole, quelle voci? 

I Tazenda li incontrai per la prima volta con Bertoli nella sua famosissima Spunta la luna dal monte, e sì, non mi dispiaceva come canzone, ma non è che mi colpì particolarmente (lo stesso discorso lo posso fare per Ivan Graziani, che se prima quasi lo consideravo insopportabile, tutto ad un tratto è diventato uno dei cantautori a cui più sono legato): innanzi tutto non capivo cosa cantassero, ma anche il modo in cui cantavano la parte in sardo non mi lasciava nulla di particolare. Ecco, forse ho toccato il nocciolo della questione con quel verbo "lasciare", che va in un certo senso a confermare la mia ipotesi sul decidere chi è passivo e chi attivo nella musica. E' la musica, di fatto, che lascia a noi qualcosa, non siamo noi che lasciamo qualcosa a lei. E' Lei che si concede a noi, è Lei che ci dona delle emozioni: che sia perché la stiamo ascoltando, che sia perché la stiamo creando, che sia perché la stiamo dedicando, che sia perché la stiamo suonando o cantando. E probabilmente è Lei a decidere quando farlo.

Andrea Parodi ha dedicato la sua vita alla musica ed alla sua terra, ed implicitamente ha dedicato la sua vita a tutti quelli che si sono innamorati della sua persona, della sua arte e dell'uso che ha fatto di quest'ultima. Come disse nell'introduzione alla sua versione di Hotel Supramonte (in occasione di un Tributo a De André tenutosi a Cagliari) la sua arte è stata fortemente influenzata dalla Sardegna, e non l'ha fatto solamente nell'utilizzo della lingua sarda per dar un senso alla sua meravigliosa voce, ma anche cantandone le tradizioni, la lotta, la cultura, le canzoni tradizionali.

L'ha fatto giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Dal 1978, anno in cui è entrato a far parte della band Coro degli Angeli fino al 2006, anno della sua morte ha, prima in Sardegna e poi nell'Italia intera ed in Europa, fatto conoscere un popolo, una terra, una realtà troppo poco considerata e rispettata, massacrata da un cancro che risponde al nome di "profitto ad ogni costo", al nome di "capitalismo sfrenato", al nome di "fanculo le tradizioni, è il soldo che comanda". E quanto possono essere nella storia di una società millenaria come quella sarda sessant'anni, se paragonata alla vita di un uomo? Un anno!? 

Il cancro è una brutta bestia, e chi ha avuto parenti morti di questa malattia ben lo sa. Si nasconde subdolamente in un corpo apparentemente sano, sembra possa essere un disturbo da nulla, causato magari dalla nostra disattenzione, ma poi all'improvviso si manifesta, e se è maligno, se colpisce un organo complicato da curare non c'è cura che tenga. Qualche mese, massimo un anno e ti porta via, distruggendoti, sconvolgendo il tuo fisico, il tuo aspetto, e se manca una certa forza interiore anche la mente, la lucidità. Andrea è stato, anche in questo, come la sua terra. Fino all'ultimo, nonostante un cancro estremamente distruttivo che l'ha di fatto debilitato totalmente, facendolo sembrare un anziano quando invece era ancora nello splendore degli anni, lui è rimasto lucido, lui ha cercato di combattere, lui ha sperato di poter andare avanti. 

Quando per la prima volta vidi questo video piansi tutte le lacrime che avevo per tanto tempo tenuto dentro di me, e benché non rappresentò l'unico elemento responsabile di quell'enorme commozione in quel periodo, di certo fu la mano che aprì il rubinetto arrugginito dei miei occhi. Il concerto dedicato a De André che prima avevo citato è datato 2005, lui aveva ancora i suoi lunghissimi capelli appena tendenti al grigio ed una folta barba, stava per cantare la canzone che ha legato Faber alla Sardegna, e la stava per cantare per ricordare Faber stesso, che ai tempi ci aveva lasciato già da sei anni a causa di un tumore. L'ultimo concerto di Andrea Parodi invece è di un anno dopo: autunno 2006, un viso prosciugato e glabro, un corpo chiaramente sofferente, una testa sulla quale si intravedono pochi capelli che cercano di ricrescere dopo la chemioterapia. Quel che non cambia è la voce, quel che non cambia è l'utilizzo che ne fa: perché se il 20 luglio 2005 lui stava cantando omaggiando il passato, il 22 settembre del 2006 canta per il futuro, canta per la sua compagna di vita, canta per il sangue del suo sangue, canta per la sua terra e per il suo popolo. Dona la sua voce per l'ultima volta a chi e ciò che più ama. 

Salutando il pubblico, ben sapendo che la Morte sarebbe andato a trovarlo per portarlo altrove, non disse addio, ma arrivederci. E con sua moglie Valentina accanto a lui su quel palco che già aveva a lui donato quattro figli, urlò quello che per me è il più bell'inno alla vita che io abbia mai sentito: "Arrivederci!! Magari con un prossimo figlio"...

Il 17 ottobre dello stesso anno, nemmeno un mese dopo la sua ultima esibizione, Andrea è andato via, ma in quella sua ultima interpretazione di No potho reposare è rimasto, di fatto, immortale, poiché in quelle ultime parole cantate ha riassunto la sua vita, ha riassunto il suo essere Sardo, il suo essere musicista. Lui ha dato fino all'ultimo, ha emozionato fino all'ultimo, ha amato fino all'ultimo. Ha vissuto, fino all'ultimo. Ed ha lasciato tantissimo a tutti noi.

Grazie Andrea, ci sarebbe estremamente bisogno di milioni di Uomini come te...





Stefano Tortelli


sabato 7 febbraio 2015

L'umilmente presuntuoso



Qualche giorno fa mi sono iscritto ad un gruppo di scrittori che, ogni tre/quattro giorni, propone un tema riguardo il quale scrivere dai 100 ai 400 caratteri. Una bellissima idea, anche perché, essendo i temi espressi con una singola parola, è curioso osservare come altre persone le interpretino, le descrivano, le sentano. Sono per lo più emozioni, idee, stati d'animo, ed essendo di per sé qualcosa di soggettivo, difficilmente definibile scientificamente, le accezioni che possono venire date sono pressoché illimitate. Da quando sono nel gruppo sono state proposti due temi: la presunzione e l'illusione, e mi sono sorpreso nel trovare in entrambi i casi tanti scritti simili, non tanto nella forma quanto nel contenuto. L'illusione spesso viene associata alla delusione, quando invece io credo sia un qualcosa di meraviglioso, qualcosa per cui combattere. O meglio, è il mezzo che porta a combattere per far sì che il fine si concretizzi disintegrando l'illusione. Tant'è che le mie poche parole riguardo ad essa sono le seguenti: 
"L'illusione è quel qualcosa che una volta raggiunto cessa di essere tale. E' come voler descrivere il silenzio a parole, il buio con i colori.
E le illusioni vanno usate, sono mezzi per raggiungere un fine che le disintegrerà. 
L'illusione null'altro è che l'anticamera della realtà."

La presunzione, invece, è stata massacrata, avvicinandola alla saccenza, all'auto-celebrazione, all'egoismo (nella sua peggiore accezione), all'ignoranza, all'estrema vanità. E quando si parla di presunzione io mi sento sempre tirato in ballo, c'è poco da fare. Il mio primo rapporto con la presunzione l'ho avuto in seconda elementare, quando la mia passione nei confronti della scuola è stata massacrata: "Stefano, smettila di fare il presuntuoso, è inutile che alzi la mano, è inutile che vuoi dimostrarmi che sai ciò che gli altri non sanno". Mi ha segnato quel rimbrotto fattomi dalla maestra di italiano, mi ha segnato nel profondo, perché per tanto tempo ho taciuto anche quando sapevo, perché quasi mi sentivo in colpa a prendere un buon voto. Stavo dimostrando che sapevo più degli altri e QUESTO NON SI FA. Come si fa, dico io, come si fa a distruggere il desiderio di conoscenza e di condivisione di quest'ultima con gli altri? L'assurdo è che poi, quando c'era bisogno, mi venivano affiancati i compagni di classe che erano estremamente indietro nel programma per aiutarli a capire, per migliorare... Ma tant'è...

Con il passare degli anni le cose non sono cambiate, ed anzi, in certi contesti, mi hanno creato non pochi imbarazzi, fino ad arrivare ad essere io per primo ad avvertire il mio interlocutore. Mi ricordo cosa scrissi alla mia ultima ragazza quando ci sentimmo una delle prime volte e stavamo parlando di musica: "Giulia, se ad un certo punto ti sembra che salgo in cattedra e che faccio il professorone di musica e la cosa ti da fastidio avvertimi. E' l'ultima cosa che voglio sembrare, ma spesso succede che passo per tale". Lei mi rispose dicendomi che era l'ultima cosa della quale dovevo preoccuparmi perché nel campo musicale sapeva lei per prima di non avere la mia cultura e che anzi apprezzava che i nostri discorsi potessero essere accompagnati da nuove canzoni, nuovi artisti... come se venisse a crearsi qualcosa di totalmente nuovo. Non per nulla, poi, divenne la mia ragazza. Si fece prendere per mano ed accompagnare lungo strade che lei non conosceva, ed io mi feci prendere per mano ed accompagnare lungo strade per me ancora inesplorate e che lei, invece, già aveva percorso. In altre situazioni invece mi son sentito tarpare le ali, quando magari utilizzavo parole desuete o comunque tutt'altro che di uso comune, oppure citavo artisti ai più sconosciuti, o anche solo mi esprimevo con congiuntivi, condizionali e i vari tipi di passato anziché limitarmi al presente, all'imperfetto ed al passato prossimo. "Ma quanto te la tiri?" "Ma parla come mangi" "Certo che sei proprio egocentrico". A questo punto io mi chiedo cosa serva sapere quando poi l'unico scopo della conoscenza dev'essere portare a casa la pagnotta, anziché allargare i confini del suo utilizzo rendendola fruibile anche agli altri. Ma la frase che più mi infastidisce, in queste situazioni, è "Ma come fai a sapere queste cose?", che sebbene possa essere un complimento, una lusinga, nasconde comunque un rendermi eccezionale, cosa che non credo proprio di essere. Tant'è che spesso in mente la risposta che più mi verrebbe spontanea è un'altra domanda, ovvero "Perché tu queste cose non le sai?". Ed attenzione, non è una domanda retorica che prevede risposte come "Perché sono stupida/o", "Perché non ci arrivo", "Perché non sono intelligente quanto lo sei tu", ma una domanda che in sé racchiude la seguente frase: "Guarda che tu sei come me, e se solo tu volessi quel che so io lo potresti sapere anche tu". Anche perché intelligenza e conoscenza sono due cose che ben poco hanno a che fare: la conoscenza ce la si costruisce, l'intelligenza è un talento, che può sì trarre nuova linfa dalla conoscenza e che permette di interconnettere le nozioni che si sono apprese o acquisite, ma che non può da sola riempire lacune riguardo tematiche che non si conoscono. Io non sono intelligente perché conosco valanghe di artisti e di canzoni a memoria, e nemmeno perché so citarti Hemingway, Hesse, Platone o Socrate, e tu (ipotetico) non sei stupido perché non conosci gli integrali o le leggi della fisica. Tutt'al più l'intelligenza la si può misurare quando si riescono ad assemblare le proprie conoscenze per dar vita ad un pensiero che le incastri alla perfezione, sfruttando al contempo storia, musica, filosofia, letteratura, matematica, fisica, geografia, etc... 

Io so di sapere, io so di essere intelligente, ma io credo, anzi presumo, che tutti possono, se solo lo volessero, conoscere una miriade di cose che al momento ignorano. Anche perché ora i mezzi ci sono: il web è gratuito, i libri non sono più un lusso come non lo è la musica, e nemmeno studiare è così proibitivo come poteva esserlo una volta. Temo però che il vero problema sia questo: se i libri costassero di più, se la musica costasse di più, molti sarebbero stimolati ad apprendere il più cose possibili perché il loro sfoggio di conoscenza sarebbe quasi paragonabile all'avere una fuoriserie in garage, perché si realizzerebbe il legame tra denaro e conoscenza, cioè "Io so perché posso permettermelo". Una vera ricchezza usata come sfoggio di opulenza... 

La presunzione poi, se usata come definizione richiede, può costantemente mettere nella condizione colui che presume di avvalorare le sue presunzioni, rendendole verità, rendendole concetti inattaccabili, rendendole di fatto realtà. La presunzione e l'egocentrismo sono elementi imprescindibili per il proprio sviluppo, per l'esaltare nei fatti le proprie qualità e le proprie capacità.

Non fossi stato presuntuoso non mi sarei mai messo a corteggiare una ragazza, non mi sarei mai posto il problema di aprire questo blog, non mi sarei mai osato di cantare in un gruppo né tanto meno salire su un palco e sostenere un concerto, non avrei mai pensato di poter andare ad insegnare in una scuola, a ragazzi con difficoltà nell'apprendere la lingua e con i quali docenti con molta più esperienza di me hanno avuto enormi problemi. Non fossi stato presuntuoso non avrei nemmeno dato un esame all'università, e paradossalmente è proprio qui che l'assenza di presunzione si è palesata, fermandomi più di una volta sul ciglio dell'aula, negandomi dunque la possibilità di mostrare a me stesso che facevo bene a non essere presuntuoso. 

Presunzione, povera compagna di vita, mi hai lasciato sempre nei momenti di maggiore bisogno. Ora, dato che siamo in periodo di esami, non tradirmi, fammi credere in me stesso ancora qualche volta, poi per un po' potrei anche lasciarti in pace, almeno nel campo universitario. 

Davvero, se la gente fosse un po' più presuntuosa, se la gente si stringesse attorno a chi sa apprendere da chi vuole condividere anziché tacciarlo per saccente, se la gente si preoccupasse di raggiungere una determinata conoscenza anziché stizzirsi se qualcuno ne sa di più, forse il mondo sarebbe estremamente più bello, e la stessa gente non si lamenterebbe più della mancanza di politici validi, di grandi artisti, di ottimi insegnanti. Perché ci sarebbero, e sarebbero molto meglio di quelli passati, perché è un fatto che l'evoluzione, in ogni campo, che si è venuta a verificare negli ultimi decenni, non può che essere di grande aiuto all'umanità intera.

Peccato che all'evoluzione si è delegata la maggior parte della nostra capacità di elevazione ed autodeterminazione, rendendoci ancora più vuoti di chi una volta non aveva niente ma che, anche solo vivendo la propria vita, era un'enciclopedia vivente.




Stefano Tortelli

venerdì 6 febbraio 2015

Canzone della sera #5 - L'isola che non c'è

Le pleiadi
Le nevicate ed i temporali mi sono sempre piaciuti, sin da quando ero bambino. Vedere come, nel caso della neve, grazie ad un evento atmosferico l'intero paesaggio che gli occhi ormai conoscono a memoria cambi radicalmente è qualcosa di estremamente affascinante, soprattutto quando si vive in campagna: perché come per magia gli alberi fioriscono, come d'incanto svaniscono i confini tra i campi arati, quelli lasciati a maggese e quelli abbandonati, e, non so perché, mi da anche una sensazione di viaggio nel tempo, forse a causa dei frequenti black-out che si verificano nella mia zona quando la neve supera i venti centimetri. Mentre i temporali hanno sempre rappresentato dei break estremamente graditi nell'afa estiva della pianura padana, regalando anche uno spettacolo di luci e suoni paragonabile ai grandi concerti rock degli stadi di tutto il mondo, per non parlare dell'impareggiabilità della particolare luminosità che si viene a creare quando i nuvoloni neri lasciano passare sparuti raggi di sole allergici alla frontiera plumbea.

L'unico limite di questi due eventi atmosferici è che di notte impediscono agli occhi di ammirare il cielo stellato che solo le notti limpide permettono di osservare. E le stelle, da sempre, sono le custodi dei sogni, dei desideri, delle speranze, e non per nulla ogni religione le considera le case del proprio dio o dei propri dei, mentre i poeti ed i musicisti hanno loro dedicato miliardi di parole e note, usandole spesso come metafore per un qualcosa o un qualcuno, astratto o concreto. 

Ho letto poco fa su Facebook un aforisma di Albert Schweitzer: "L'ideale per noi è quello che è una stella per il marinaio. Non può essere raggiunto, ma rimane una guida.". Il pensiero non può che essere condiviso, di questi tempi, visto che al momento tutto posso pensare tranne che il raggiungimento dei miei ideali sia attuabile, almeno per quanto riguarda la dimensione macrosociale, nella quale qualsiasi nostro comportamento, mosso da un'ideale, non può che inevitabilmente creare delle contraddizioni tra ciò che si pensa e ciò che si fa. Un ambientalista che sceglie di essere vegetariano, per quanto sia rispettabile la sua scelta, cade inevitabilmente in una fitta rete di controsensi, come qualsiasi pacifista che utilizza mezzi privati o pubblici a benzina per recarsi ad una manifestazione, come un comunista che si usa di uno spazio offerto da Google o Facebook per esprimere le proprie idee. E' un gran casino, la purezza è impossibile, il seguire alla lettera i propri ideali ha dei legittimi impedimenti. Ma questa non deve essere una scusa per rinnegarli e interrompere la propria strada verso il loro conseguimento, il loro attuamento, la loro realizzazione. 

Lo stesso aforisma mi ha riportato alla mente una canzone che per me è sempre stata importante ma che forse, proprio grazie a queste parole, ora è completamente compresa. Noi idealisti siamo un po' tutti dei Peter Pan, e con tutti i limiti che può comportare l'essere degli adulti bambini continuiamo a cercare la nostra isola che non c'è, continuiamo ad immaginarla, sperando che qualcuno si unisca a noi nel crederla possibile (non per nulla considero L'isola che non c'è di Bennato la Imagine italiana). Ed in quell'isola che non c'è vediamo quel mondo parallelo, simile a quello di alcuni nostri sogni, dove sono presenti molti di quegli elementi, di quelle persone, di quelle situazioni che qui mancano e che, nell'attesa che il nostro lottare con passione ed amore possa renderle presenti anche qui, lì convivono, con estrema serenità, con vero amore, con imparagonabile passione.

Chissà che un giorno, quando saremo in tanti ad affacciarci dalla finestra a guardare le stelle, queste possano piovere sulla Terra realizzando i nostri desideri. Del resto è questa la speranza di ogni persona che osserva una stella cadente solcare il cielo...



Stefano Tortelli

Verdi pascoli - Fratello pellerossa, fratellastro colono





Leggo da più parti, soprattutto sui Social Network, miriadi di post che puntualmente, tra la fine di gennaio e l'inizio di febbraio, riportano gli stermini perpetrati nei secoli dei secoli (amen) in pronta risposta a chi ricorda il massacro degli Ebrei da parte dei Nazisti. Faccio veramente fatica a comprendere questi gesti, a dar loro una connotazione. Sono raffazzonate apologie alle politiche di Hitler, portando avanti il puerile discorso "Ma anche loro han fatto questo"? E' un modo per sminuire l'importanza dell'evento che più ha caratterizzato la seconda guerra mondiale, poiché è solo una delle tante persecuzioni? E' un camuffato odio per gli Ebrei, ma mosso da altre motivazioni rispetto a quelle del nazional-socialismo? O è anche un approfittare del periodo del giorno della memoria per far finta di ricordare tutto e tutti e poi, per il resto dell'anno, pensare solo al presente?

E' stucchevole questa battaglia a colpi di post e condivisioni, e visto l'andazzo generale, principalmente su Facebook, non mi meraviglierei che fosse anche giostrato in un'ottica commerciale, giusto per procacciarsi nuovi mi piace a pagine qualunquiste che si travestono da portatrici di verità. E come la maggior parte delle persone cade nei tranelli dei mass media manovrati dal Potere, anche sui social gli utenti si fanno influenzare dalle pagine che hanno schiere di "seguaci", pronti a diffondere non tanto il contenuto quanto il nome della suddetta pagina. Ma tutto questo, alla coscienza ed alla coscienza delle persone, porta realmente a poco, ed anzi porta ad un ulteriore anestetizzarsi dell'interesse nei confronti di qualsivoglia questione.

Negli ultimi giorni ho parlato dello sterminio degli Ebrei, degli atti terroristici dell'agosto 1945 perpetrati in Giappone dagli Stati Uniti e dell'epurazione totale dei Catari nell'Occitania, ora ho intenzione di aggiungere un'altra triste storia di ieri: quella degli Indiani d'America.

A volte mi chiedo cosa possa aver pensato il primo Indiano d'America (Nativi Americani è forse il termine più appropriato, ma universalmente i nativi del Nord America sono conosciuti come Indiani o Pellerossa, e per cui utilizzerò questi due termini, anche per circoscrivere il mio raggio d'azione) quando i primi inglesi ed i primi americani si sono insediati nelle loro terre. A differenza delle popolazioni del Sudamerica, le tribù Pellerossa erano per lo più nomadi, gli unici monumenti che hanno costruito sono delle cripte, e quindi se è vero che non avevano delle città da difendere, è vero anche che l'intero Nord America era la loro terra. Perché seguivano le mandrie dei bisonti durante le loro transumanze, si contendevano i territori di caccia con le altre tribù e con gli animali feroci, seguivano il ciclo delle stagioni sia con le attività temporali sia con quelle religiose. Recenti studi sostengono che il primo vero contatto tra gli europei ed il nuovo continente ed i suoi abitanti sia da pre-datare di qualche secolo, al tempo dei Vichinghi, che una volta raggiunta la Groenlandia percorsero a piedi l'intera landa, attraversarono l'attuale Canada e raggiunsero i territori dove ora sorge la città d New York. Vennero però scacciati, i Vichinghi, anche perché la loro indole non era tanto diversa da quella dei Pellerossa: non intendevano espandersi, non intendevano soggiogare altre popolazioni, si limitavano al massimo ad alcuni saccheggi ed al rapire più autoctoni possibili, di certo non era nei loro piani creare una nuova Vikingland altrove. Secoli dopo, però, nei territori occupati da una trentina di diverse tribù indiane giunsero un altro tipo di europei: più subdoli, più assetati di potere, più desiderosi di ricchezze. Ma soprattutto più evoluti militarmente, economicamente e politicamente. 

All'inizio la convivenza non era stata particolarmente violenta, poiché gli Europei si stanziarono principalmente sulle coste orientali dell'America settentrionale, creando avamposti qua e là in attesa di nuovi pionieri che potessero continuare ad esplorare il territorio. Del resto non dev'essere semplice avanzare per migliaia di chilometri nel cuore di nuove regioni, mai esplorate e ricche di pericoli, perciò il procedere dei colonizzatori fu tutto sommato lento e quasi svogliato. Ad accelerare i processi di colonizzazione contribuirono sicuramente le cadute degli imperi precolombiani del Sud America, poiché se dapprima le guerre le nazioni europee se le facevano tra loro e sui loro territori, da quel momento venivano fatte in parallelo: se gli Spangoli ed i Portoghesi si erano impossessati delle terre dal Messico in giù, gli Inglesi, i Francesi e gli Olandesi non potevano di certo stare lì a guardare, dato che le ricchezze che gli iberici avevano conquistato tra lo Yucatan e le Ande facilmente sarebbero state convertite in nuove armi e nuove flotte commerciali da muovere contro le vecchie monarchie europee. E perciò, se il Sud America parlava un latino spagnoleggiante, il nord doveva per forza essere francofono ed anglo-germanofono. Ecco, la politica avanzata dell'Europa, eccolo, il proto-capitalismo con connotazioni coloniali. Durante le esplorazioni del Nord America grandi miniere d'oro fecero luccicare gli occhi dei bianchi, e si sa che potere abbia l'oro sull'uomo: gli occhi luccicano, ma lui luccica di più, così tanto da acciecare la coscienza ed alimentare sogni di gloria e ricchezza. Bastò parlarne nel Vecchio continente per far giungere migliaia e migliaia di uomini pronti a tutto pur di arricchirsi ed arricchire il proprio Stato d'origine, che ben presto sarebbe stato tradito in un'ottica autarchica finemente camuffata da indipendenza. E così, prima vi furono le guerre tra francesi ed inglesi, poi tra gli inglesi d'America e gli inglesi d'Europa: perché le prime colonie cominciarono ad organizzarsi, a desiderare un'autosufficienza, a volersi liberare del giogo inglese. E così cominciarono a sorgere i primi Stati, che tutti insieme, appassionatamente, combatterono per la propria indipendenza dalla Corona britannica. Gli Stati Uniti d'America nacquero così dal sangue, versato su una terra che non era madre di nessuno dei due contendenti ma che si ritrovò, tutto ad un tratto, dei figliastri adottati nei peggiori orfanotrofi d'Europa. 

C'era comunque ancora tanto spazio, e sebbene vi fossero state alcune scaramucce tra alcune tribù ed i nuovi americani, tutto per qualche anno procedette liscio. In verità i primi conflitti riportati sono però datati 1775, anno in cui cominciò la Guerra d'Indipendenza Americana, ma i fatti più gravi avvennero nel XIX secolo. Considerate che all'inizio della Guerra d'Indipendenza, le colonie erano tredici e che queste sarebbero state i primi tredici Stati Uniti d'America. Ecco, ogni nuova stella sulla bandiera statunitense può idealmente rappresentare la fine di una tribù pellerossa. Come scrivevo prima le tribù native erano circa una trentina, gli Stati Uniti erano tredici, e quindi, alle cinquanta stelle non ci si arriva per poco. 

Il discorso appena fatto è puramente simbolico, ma non si discosta poi tanto dalla realtà storica. Più gli Stati Uniti si ingrandivano, più i pellerossa si ritrovavano costretti a spostarsi, a combattere, a morire per la loro terra, per la loro cultura, per la loro libertà, vennero calpestati, imprigionati, schiavizzati, torturati, violentati. Venne dato fuoco alle loro tende, abbattuti i loro totem, sterminate le mandrie di bestiame che rappresentavano la loro principale fonte di cibo. E tutto ciò venne fatto grazie ad armi estremamente più potenti, grazie ai cavalli, ed anche grazie alle malattie che i coloni portarono da casa.

Dal 1775 al 1890, da est ad ovest, una dopo l'altra caddero le tribù indiane, uno dopo l'altro morirono valorosamente i loro capi, uomini valorosi fedeli alle proprie tradizioni ed alla loro madre, massacrati da questi figliastri estremamente diversi da loro. Sand Creek, Woundeed Knee, Little Big Horn. Nuvola Rossa, Toro Seduto, Piccolo Corvo. Luoghi e nomi che sono i simboli di un popolo, di una cultura e di una libertà che non c'è più.

Dalla loro nascita, quindi, gli Stati Uniti null'altro hanno fatto che recar danno ovunque siano andati, aggiungendo milioni e milioni di scheletri nel loro armadio. Scheletri di Nativi americani, di africani deportati e fatti schiavi, di messicani, di europei, di giapponesi, di vietnamiti, di coreani, di arabi. Una mattanza che dura da due secoli e della quale faremmo tutti volentieri a meno, ma della quale invece loro si vantano con tanto di film propagandistici in cui gli indiani prima impersonano i nazisti e poi i comunisti, e di una storia in cui i loro eroi sono i generali che compirono quei massacri.

Per fortuna, sebbene sia una piccola consolazione, nel resto del mondo ancora vengono ricordati i Sioux, gli Apache, i Navajo, ancora si ricordano i nomi dei loro condottieri, ancora si racconta la storia delle loro culture, ancora si ricorda con orrore i luoghi dei massacri. 

Se c'è una giustizia divina, i Verdi pascoli, ora, gli indiani se li stanno godendo nell'aldilà, senza più nemici, senza questo figliastro che si è fatto adottare dalla madre America e che ora ne sta stuprando il nome ed il corpo.


Stefano Tortelli

giovedì 5 febbraio 2015

Firme storiche per nuovi venti




Sto cominciando a rendermi conto che questo blog sta diventando sempre più monotematico, sospinto alla deriva dai venti costanti dei miei ideali; ed anche quando non parlo esplicitamente di questione meramente politiche, la mia natura non può esimersi dal manifestarsi. Ne sono esempi innegabili i post dedicati alla musica, dove tra la miriade di artisti che ascolto mi sono ritrovato a scrivere di quelli che più hanno dedicato la loro arte alla nobiltà degli ideali, della lotta, della protesta, della glorificazione di un sistema sociale che sempre più si crede utopistico. 

E così pare perché è così che chi invece non vuole vederlo nascere intende farlo passare. Non parlandone, dandolo per morto, occultandone i tentativi di rinascita, di riassetto. Poi vedi la Grecia e la Spagna e ti rendi conto che non è così, però ovviamente, fallito l'occultamento comincia la repressione. Ovviamente non armata, non ci si può mica permettere di far passare la democrazia occidentale come bavaglio alle altre espressioni: no, lo si fa con le restrizioni economiche, lo si fa minando la stabilità interna del Paese, lo si fa condizionando il sentimento comune, non tanto di chi è contrario a prescindere ma di chi vorrebbe assistere alla nascita di una realtà simile anche all'interno dei propri confini. Per fare un esempio, ho letto più critiche a Tsipras da parte dei "comunisti" italiani che da parte degli esponenti di altri schieramenti politici. Pazzesco, no?

Per altre realtà la cosa è ancora diversa. Il 22 gennaio, in Israele, è stato firmato l'accordo tra il partito Hadash ed i partiti arabi per dar vita ad una corrente unitaria che ha lo scopo di interrompere l'egemonia del potere sionista e filo-occidentale nella Terra Promessa, laddove, in seguito alla proclamazione di Israele come Stato Ebraico, chi non è fedele alla Stella di David è considerato un cittadino di serie B: islamici, cristiani, induisti, atei, tutti di serie B. Con la creazione invece di una coalizione che ha l'interesse di battersi per la società israeliana e non distruggerla (un conto è essere israeliani, un conto è essere israeliti e sionisti), si punta a dar vita ad una realtà democratica, libera dall'imperialismo e dal colonialismo e da ogni matrice religiosa. Tant'è che Hadash è l'acronimo che sta a significare, in ebraico, "Fronte democratico per la Pace e l'Uguaglianza". Pace ed uguaglianza, due parole estremamente invise al potere occidentale ed alle sue creazioni sparse per il pianeta, che logicamente ha fatto in modo di tacere su questi fatti, focalizzando l'attenzione su ciò che succede a Gaza, sui così definiti "terroristi palestinesi", su una guerra lontana che sì, smuove le coscienze europee, ma che è comunque distante anni luce dalla nostra realtà, mettendoci nella condizione di non agire, di non pensarci, di schierarci da una parte e dall'altra ma stando comunque sopra, ad osservare. 

Quest'alleanza "islamicomunista" può sembrare strana, come strano sembrava il compromesso storico tra il PCI e la DC in Italia, ma se questo può significare la destabilizzazione ed il successivo crollo delle potenze di destra capitaliste, ben venga. Troppo spesso ci si dimentica che nel nostro Comitato di Liberazione Nazionale, durante la seconda guerra mondiale, collaborarono democristiani, lealisti, comunisti, anarchici, con lo scopo di porre la parola fine alla dittatura fascista ed allo Stato fantoccio dell'RSI. Che poi non è che ce ne si dimentica, è che non vogliono che ce ne ricordiamo...

Spero vivamente che questo asse tra i comunisti e gli arabi israeliani possa durare, possa mettere in pratica i suoi intenti, possa creare un'opposizione concreta dalle strade ai palazzi del potere, così da porre fine ad una guerra che, di sto passo, può diventare centenaria, continuando a mietere vittime sia ebree sia islamiche, ma ovviamente tra i poveri, i bambini, i bisognosi. 

Ce la potete fare. Se lo volete, ce la potete fare. Anche perché la Palestina, la vostra madre patria, è la stessa. E voi sì che la amate, voi si che la volete proteggere, voi sì che volete renderla un luogo sicuro. 




Stefano Tortelli

"La nostra coscienza è assolutamente tranquilla" - Tributo all'Occitania

La bandiera occitana




In prima media, durante lezioni di Educazione civica, per la prima volta mi sono imbattuto nella distinzione tra il concetto di Nazione ed il concetto di Stato, oltre che alla somma dei due concetti che viene esplicitata dal termine Stato-Nazione. La Nazione è un'identità culturale; lo Stato è un'entità istituzionale; lo Stato-Nazione è una Nazione che si rispecchia, per confini territoriali, linguistici e culturali con quelli in cui le istituzioni agiscono (ovvero i confini politici). Durante i successivi anni, complici i miei studi umanistici, più volte mi sono trovato a camminare sulla linea di confine che divide queste due realtà, ma sfortunatamente, come ormai sempre più succede in ambito accademico, questo mio mantenermi passeggiare è stato più teorico che pratico. Per quanto possa essere paradossale, l'empiricità di ciò che si apprende (benché io preferisca usare il termine "acquisizione") la bisogna cercare da soli, nel tempo libero. Il lato positivo è che se si ha una mente aperta ogni azione propria della vita permette il lavoro sul campo, e quindi anche l'ennesima notte tormentata da bruschi risvegli può dare la possibilità di fare ciò.

Colgo l'occasione per parlarvi di come io cerchi il sonno quando vuole giocare a nascondino con me: prendo il portatile, vado su Youtube, apro alcuni dei canali ai quali sono iscritto e cerco un documentario. Dev'essere un retaggio della mia infanzia, quando con i miei mi addormentavo nel lettone durante Super Quark o Il regno degli animali (adoravo Giorgio Celli, grande uomo). Ora i documentari su Youtube sono il miglior GPS per trovare la strada che mi possa portare a scoprire il sonno perduto. Sono ormai tre anni che ho questa particolare dipendenza, e se agli inizi mi limitavo a farmi cullare dai documentari riguardanti gli alieni o antiche civiltà, ultimamente mi sto dedicando a quelli inerenti realtà a noi più vicine, come le guerre del XX secolo, le inchieste riguardanti le Torri Gemelle, le trattative Stato-Mafia e via dicendo. 

Stanotte, poco dopo le quattro, mi sono ritrovato a fissare lo schermo che recava il mosaico di fine video e, ormai rassegnatomi a doverne mettere un altro, ho messo sulle gambe il portatile ed ho cominciato la mia ricerca fra la miriade di titoli proposti. Mentre stavo cercando qualcosa che potesse sì interessarmi ma non distrarmi dal reale obbiettivo, mi è venuta in mente una declamazione di Giovanni Lindo Ferretti riguardante gli stermini perpetrati nei confronti degli Ebrei dell'Occitania. Ma ovviamente il sonno, benché perduto, ancora influenzava le sinapsi del mio cervello. Non erano gli Ebrei ad esser stati perseguitati in Occitania ma altri Cristiani...

E così, dopo aver ascoltato quelle intense parole del Ferretti, ho cercato dei documentari relativi a questa Crociata intraeuropea. Una crociata che raramente viene menzionata sui libri di scuola, come tante rivoluzioni e tante guerre civili: non fa comodo ad un'istituzione mostrare come, nel bene e nel male, il nemico può anche essere all'interno dei confini della propria realtà politica, è molto meglio insegnare che il nemico è la fuori, oltre le montagne, oltre il mare, ed è sempre di un altro colore! Mica per nulla le cartine politiche recano un colore diverso per ogni Stato; se si limitassero a farci vedere la cartina politica con solo i nomi degli Stati e dei confini tratteggiati sarebbe quasi impossibile per l'occhio notare che ci sono differenze: perché sull'atlante geografico c'è il blu del mare, il verde delle terre emerse, il bianco dei ghiacciai ed l'ocra dei deserti. Per il resto è quasi tutto indistinguibile, e quindi "inodiabile". L'assurdo è che se una persona volesse invece osservare i confini di una realtà nazionale avrebbe meno difficoltà a trovarli sulla cartina fisica che su quella politica. Perché i confini delle nazioni non sono decisi a tavolino (pensate all'Africa, continente nel quale i confini degli Stati sono stati tracciati con un righello... da chi non si sa, ma così è), ma sono naturali. Naturali come lo è la nostra condizione di essere viventi, in un mondo vivente, in cui spesso le linee di discontinuità tra le culture, le lingue, e quindi le Nazioni, sono prodotte da un qualcosa di non vivente, inorganico. Che poi l'uomo abbia creato altri oggetti non viventi (talvolta non perché inanimati dal principio ma perché ad essi è stata tolta l'anima) per dar vita a nuovi confini, modificando quelli precedenti, è un altro discorso.

E l'Occitania, benché non sia una Nazione riconosciuta, è facilmente riconoscibile su una cartina: ad ovest ci sono i Pirenei, ad Est le Alpi italiane, con alcune estensioni nelle vallate piemontesi, liguri e valdostane. Pazzesco no? E' più facile spiegare i confini di una Nazione che non esiste che quelli, ad esempio, dell'Egitto o quelli della Finlandia (che a sud-est, sul versante russo, vede finire i suoi "possedimenti" laddove è stata tracciata una riga sbilenca). L'Occitania, nel tredicesimo secolo, è stata la terra in cui è stata messa a punto l'Inquisizione, è stata la terra che ha ospitato la prima crociata mossa nei confronti di un gruppo di Cristiani da parte di altri Cristiani: catari contro cattolici, una realtà religiosa che tale desiderava essere contro una realtà temporale mascherata da parvenze religiose. Fu un massacro. Dalle valli dell'Occitania italiana ai picchi dei Pirenei, migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini sono stati massacrati perché eretici, perché si discostavano dalle imposizioni di Roma, perché volevano esprimere il loro Credo in maniera più genuina, più pura. Qui in Italia c'è il mito di San Francesco, figura importantissima che ha certamente destabilizzato il potere temporale ma che ha avuto un riscontro limitato e troppo dilatato nel tempo per poter realmente scuotere le antiche basi del Potere religioso; i Catari invece erano una realtà già affermata, che si era prodigata non solo durante le Crociate in Terra Santa e nella Spagna dei Mori, ma che diede vita ad una vera e propria società di mutuo soccorso, la quale si impegnava nell'aiutare i bisognosi, che fossero i poveri o le famiglie che avevano visto partire verso Gerusalemme gli uomini fisicamente più adatti al lavoro (e di conseguenza alla guerra). 

Quello che non fecero le truppe del Conte Berengario (famoso anche per aver ostacolato con ogni mezzo, insieme alla Corona spagnola, l'influenza che El Cid Campeador aveva nei territori liberati dai Mori nella Penisola iberica), del Re di Francia e del Papa stesso lo ultimarono gli inquisitori: decine di migliaia di persone vennero passate per le armi, altrettante vennero arse vive sul rogo. "I forni crematori sono il progresso dei roghi", recita Ferretti nella sua "Occitania". Già, perché ad essere camuffati dalla questione religiosa, dalla scomunica, dalle accuse di eresie, erano motivi squisitamente politici, proprio come l'odio nazi-fascista nei confronti degli ebrei. I Catari si rifiutavano di riconoscersi appartenenti ad uno Stato poiché non potevano accettare che altro potere se non quello di Dio, tanto da attribuire a Satana la paternità del potere temporale, e quindi il diritto di alcuni uomini di esercitare coercizione nei confronti di altri uomini; i Catari negavano l'importanza di tutto ciò che è materiale, e quindi come puoi "comprare" una persona se non puoi offrirle nulla in cambio? I Catari riconoscevano la totale parità tra i sessi, tra gli individui, e basavano la loro economia sullo scambio di beni e servizi, sulla necessarietà di dare il massimo entro i propri limiti per la propria società, ricevendo in cambio tanto quanto riceveva chiunque altro. Si poteva accettare una forma di comunismo nel seno dell'Europa nel 1200? Beh, non si è potuto accettarla nel XX secolo, figuriamoci allora.

E così l'Occitania, che si riconosceva nella cultura catara, si è colorata del rosso sangue del suo popolo. Da Montségur a Tolosa, da Narbonne alle valli che posso scorgere nei giorni limpidi tra le colline e le Alpi, la realtà catara è andata a scomparire, un'intera cultura è stata cancellata dalla faccia della Terra, costringendo i pochi superstiti a rifugiarsi sulle montagne, a nascondersi, a vivere in clandestinità. 

Ma l'Occitania è una realtà che non porta rancore, l'Occitania è una Nazione forte, l'Occitania è un territorio ricco di sogni e speranze, di amore e di desideri. Tant'è che è una delle poche nazioni il cui Inno non inneggia alla guerra, non inneggia alla potenza, non inneggia alla sopraffazione. L'inno occitano parla d'amore, l'inno occitano parla della caduta delle barriere tra noi simili per poter vivere in armonia, in pace, in serenità.

L'inno occitano è l'inno più bello del mondo.

[ma intanto, ottocento anni fa come settant'anni fa come oggi, la coscienza dei potenti è assolutamente tranquilla].


Giovanni Lindo Ferretti - Occitania (da "Mattatoio di Dio")




Stefano Tortelli

mercoledì 4 febbraio 2015

La mamma più famosa del mondo

Enola Gay Tibbets

Sono consapevole del fatto che il volto di questa anziana signora sia ben poco significativo: nella foto è sorridente, i suoi occhi semichiusi dal peso degli anni sicuramente hanno visto tante cose e tanto hanno avuto da raccontare a chi ha saputo oltrepassare le lenti degli occhiali, le pupille, le retine, a chi ha saputo scavare oltre il visibile e raccogliere i tesori che nelle orbite sono custoditi. Una persona come tante, una donna come tante, una moglie come tante, una madre come tante; ed un viso comune, che facilmente potremmo anche oggi ritrovare per le vie delle nostre città. E quella che qui è riportata è una foto in cui lei è ritratta, una sua immagine, niente di più: non sappiamo perché sta sorridendo, non sappiamo chi ha scattato la foto, non sappiamo chi le può aver regalato quella collana o quegli orecchini, e nemmeno il perché fosse così elegante in quell'occasione. Ed infine non sappiamo per cosa sia stata usata questa foto: chissà; magari, se ancora la sua lapide è a vegliare sui suoi resti, potrebbe avere proprio questa foto ad essa attaccata, per collegare ad una faccia la data di nascita, la data di morte ed il nome sui quali capeggia. 

Già, il nome. Il nome sì che è significativo, e totalmente si discosta dall'immagine di un sorriso, dall'immagine di una vita vissuta e vicina alla sua naturale fine, dalla serenità che trasmette, dalla pace che l'espressione ha spontaneamente mostrato al fotografo. Perché il nome di questa signora è Enola Gay, e questa signora è colei alla quale è stato dedicato l'aereo più famoso nella storia dell'uomo. Curiosa, tra l'altro, la storia degli aerei: nati nel 1903, con la speranza che potessero avvicinare le persone, raggiungere località remote, mettere in contatto popoli tra loro lontani, favorendo così l'aggregazione, la condivisione, la reciprocità, sono in pochi anni diventati degli angeli metallici alati della morte, portatori di distruzione, perfette "incarnazioni" della Mietitrice. Il problema è che le due righe che seguono i due punti sono solo una visione romantica e tutt'altro che inerente alla realtà, perché subito dopo il primo volo i Fratelli Wright si rivolsero all'Esercito Americano per offrire il loro brevetto a quella che sarebbe diventata l'Aviazione Americana. Che poi si siano prodotti anche aeroplani destinati al trasporto di merci e persone è tutto sommato un riflesso, un effetto collaterale, niente di più. Come Internet, d'altronde. 

L'Aviazione americana sviluppò così i suoi primi aerei da combattimento, e così fecero in pochi anni anche le altre potenze mondiali: dalla Russia alla Francia, dall'Inghilterra alla Germania, dal Giappone all'Italia. E come tutte le armi dovevano essere sempre più potenti, sempre più efficaci, la competizione tra gli Stati era serrata, ed ovviamente niente di meglio di qualche guerra poteva essere il miglior stadio per mostrare la genialità de propri ingegneri. Se poi si aggiunge allo sviluppo degli aerei quello degli esplosivi, ecco che si arriva alla signora Tibbets. Perché il velivolo americano che le fu dedicato è l'aereo che alle otto di mattina del sei agosto 1945 sganciò sulla città di Hiroshima "Little Boy", la prima bomba atomica. Enola Gay, madre del pilota, era quell'aereo; il pilota di Hiroshima era quel piccolo ragazzo. E nel comando di apertura del vano e nel conseguente sgancio della bomba si può tranquillamente veder rappresentato uno dei giorni più belli della vita di Enola, ovvero il 23 febbraio del 1915, giorno in cui diede alla luce suo figlio. Quell'aereo, nei cieli del Giappone, stava partorendo una bomba che, pochi secondi dopo, avrebbe ucciso indistintamente uomini, donne e bambini, radendo al suolo le loro case, rendendo invivibile l'intera zona circostante a causa delle radiazioni, segnando per sempre la vita di chi miracolosamente era riuscito a sopravvivere all'enorme rogo che alimentava il fungo atomico. Circa un centinaio di migliaia persone morirono all'istante o comunque per cause direttamente conducibili alla bomba, e pochi giorni dopo la stessa cosa sarebbe successa a Nagasaki, con lo stesso numero di morti, da aggiungere a quelli che altri anonimi aerei avevano causato in altre sessanta città giapponesi ed in tante altre città russe ed europee. E tutto questo tra il 1942 ed il 1945, senza andare a scomodare la miriade di civili che ha perso la vita in tutte le altre guerre portate avanti dagli Stati Uniti da dopo la guerra ad oggi. E voglio sottolinearlo nuovamente: sto parlando di civili, gente come me che sto scrivendo, gente come voi che state leggendo. E pensate, per quanto possa essere marginale, il primo obiettivo proposto per testare la bomba atomica era Kyoto, la culla della cultura giapponese, la capitale storica. L'avessero fatto avrebbero riproposto, duemila anni dopo, il gesto dei Romani di spargere il sale sulle rovine di Cartagine. 

Non sto, almeno ora, a riportare tutto il processo di avvicinamento a quel sei agosto, e nemmeno voglio accennare in questa sede tutto ciò che la questione atomica ha rappresentato per i successivi quarant'anni. Voglio solo scrivere che per gli Stati Uniti d'America, in quel momento, il Giappone non era niente di diverso dal deserto di Alamagordo nel Nuovo Messico. Una bomba all'uranio, una al plutonio, una più piccola, l'altra più grande: così, giusto per vedere che differenze potevano esserci tra queste varianti. L'unica differenza tra il deserto ed il Paese del Sol Levante sta in quei duecentomila civili che null'altro aspettavano, se non la resa del Giappone, per poter finalmente tirare un sospiro di sollievo ed impegnarsi, grazie al loro continuare ad esistere, a ricostruire la propria nazione. Però, logicamente, poter mostrare al mondo intero, e soprattutto all'Unione Sovietica, ciò che gli Stati Uniti erano in grado di fare fu una tentazione troppo forte per l'alto comando americano: noi siamo in grado di distruggere qualsiasi città, noi siamo in grado di decimare la popolazione di qualsiasi Stato, e soprattutto siamo senza scrupoli, tanto che lo facciamo su una popolazione inerme, che già si sta preparando alla resa.

Già... perché i fatti di Hiroshima e Nagasaki non hanno portato alla resa del Giappone, semplicemente ne hanno condizionato il processo: il Giappone si è arreso senza condizioni con gli USA e non siglando un armistizio con i Russi, con i quali ancora stava combattendo, con onore e in modo convenzionale, in Manciuria. Aggiungerei quindi il circa mezzo milione di soldati morti in quegli scontri al computo delle vittime delle bombe atomiche, perché se, in un'ottica puramente bellica, potevano rappresentare un prezzo da pagare, l'atto terroristico degli Stati Uniti ne ha vanificato ogni valenza militare. 

Si stima che dagli anni '40 ad oggi, in tutto il mondo, siano state sganciate più di duemila bombe atomiche. Questa volta, però, le bombe sono sì rimaste dei figli, seppur impazziti, seppur estremamente assetati di distruzione; distruzione che è stata rivolta alla loro madre, che ora non è più l'aereo che le partorisce, non è la mente che le ha create, ma la Terra, sulla quale cadono, alla quale recano danni inestimabili. 

Negli Stati Uniti dev'esserci un odio diffuso nei confronti della madre, evidentemente. Dare a quello che sarebbe diventato l'aereo più famoso del mondo il nome della propria creatrice è alquanto malato, continuare a far cadere bombe atomiche sulla Madre Terra lo è ancora di più...



Stefano Tortelli