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giovedì 6 ottobre 2016

La pendolare





Mattina presto, inizio ottobre, gli sguardi dei passanti ancora alternano immagini oniriche alla realtà. Il tram si ferma e mi permette di sfuggire per un po' ai primi freddi; cerco posto svogliatamente, non lo trovo, mi appoggio allo scheletro del vagone, intento a sciogliere i nodi delle cuffie che qualche folletto dispettoso ogni notte accuraramente tesse con le sue tanto piccole quanto abili dita.

Fa freddo ma c'è il sole, i passeggeri cercano nel giornale e nel cellulare un po' di compagnia e qualche emozione. Premo play e mi abbandono alla musica, mi guardo attorno e tengo il tempo ticchettando su una delle sbarre del tram.

All'improvviso vedo lei, qualche metro più in là, raccolta nei suoi capelli rossi e nel giubbotto dello stesso colore. Mi vede, distogliamo lo sguardo, ma non passa una canzone che siamo di nuovo lì, a metà strada. I nostri occhi di incontrano tra la madre col passeggino e l'impiegato che guarda l'orologio sbuffando periodicamente. Noto il filo degli auricolari, abilmente nascosti dalla sua chioma color tramonto, vedo il suo piede che batte sul pavimento e va a ritmo con le mie dita... chissà se stiamo ascoltando la stessa canzone!? Sorrido pensandoci, ed intanto lei ancora non scende. Andrà dove vado io?

Mancano sempre meno fermate, lei è impassibile al suo posto, io mi sposto ma ci vediamo ancora. E ancora cinque fermate, ho il 20% di possibilità, non male. Scenderemo insieme e forse faremo qualche passo insieme... ma non è così, si avvicina alle porte, prenota la fermata. Il mio sguardo si aggrappa ad ogni suo gesto, quasi a supplicarla. Non vorrebbe dirle addio. Ma è un tentativo vano. Il tram si ferma, Torino si riapre a noi e lei è già per strada.

La cerco per un'ultima volta, si gira per attraversare e per commiato gli sguardi si incrociano per lasciarsi in un attimo.

Sarà per un'altra vita, pendolare dai capelli color del tramonto...

Ma se ci penso, dopo tutto, un breve tratto del lungo percorso che si chiama Vita l'abbiamo condiviso.

Grazie di esserci stata.

Stefano Tortelli



mercoledì 30 settembre 2015

Fabrizio De André - Roger Waters: poesia e musica al servizio della ribellione





In occasione del Premio Tenco del 1997, la grande Fernanda Pivano, premiando Fabrizio De André, disse, chiudendo il suo discorso, che se effettivamente c'è una correlazione tra l'opera di De André e quella di Bob Dylan, anziché sostenere che De André sia il Dylan italiano bisognerebbe dire che è Bob Dylan ad essere il Fabrizio americano. La Pivano ha sicuramente ecceduto in campanilismo in quell'occasione, del resto Bob Dylan è emerso prima di Fabrizio, e Fabrizio ha attinto a piene mani dallo stile di Bob per i suoi album degli anni '70, perciò, se proprio si vuol far valere questo paragone, è De André ad essere il Dylan italiano. E comunque non sono totalmente d'accordo, secondo me il nostro Bob Dylan è Guccini, De André è più il nostro Cohen, come, secondo me, Bertoli è il nostro Pete Seeger. 

C'è però, secondo me, un De André straniero, un artista che è "arrivato" dopo Faber e che, con il passare degli anni, ha palesato totalmente la sua vena cantautorale, prima con il suo gruppo e poi proseguendo da solo la sua strada. Ci ho messo molto tempo ad accorgermene, un po' meno ad accertarmene, ma il paragone, sia nei contenuti sia nello stile con il quale cerca di esporli (ovviamente al netto della differenza del genere musicale proposto), regge perfettamente, anche prendendo in considerazione l'estrazione sociale dei due soggetti in questione.
  

Sto, tanto per cambiare, parlando di Roger Waters. Tra la miriade di artisti che dall'estero sono giunti fino a noi attraverso le radio, i vinili ed i tour (per poi passare a Youtube, i cd ed i film al cinema, senza però far decadere i primi tre elementi) l'ex leader dei Pink Floyd è sicuramente quello che più può rappresentare una sorta di De André d'Oltremanica. Entrambi figli della borghesia degli anni '40, De André e Waters hanno in gioventù compiuto cammini simili, ed anche i loro primi album con i rispettivi stili (ovviamente parlando di Waters faccio riferimento alla prima produzione dei Pink Floyd) sono sia innovativi sia acerbi, con uno stile di scrittura abbastanza semplice, nel caso di Fabrizio probabilmente per riuscire a raggiungere nell'immediato gli ascoltatori e nel caso di Waters per conciliare il rock psichedelico ai testi, senza rischiare di perdere il significato ma rispettando una metrica un po' incasinata. Inoltre Waters, facendo parte di una band, doveva anche andare incontro alle esigenze degli altri componenti (e, tra l'altro, nei primissimi album dei Pink Floyd la penna principale era quella di Barrett e non la sua). Con il passare degli anni, però, gli stili dei due artisti sono cambiati e, spesso, assomigliati parecchio: l'utilizzo del concept album, la ricchezza di metafore e il linguaggio spesso criptico ma assolutamente efficace sono tutti elementi che li accomunano, e forse, proprio nei loro concept album più apprezzati e di successo (rispettivamente Storia di un impiegato e The Wall) la loro vicinanza diventa clamorosamente palese. Perché le strutture dei due album sono decisamente simili, i percorsi anche, ed anche a livello musicale, non tanto nei suoni ma nelle atmosfere che puntano a creare, ci sono grandi analogie. Penso all'ultima canzone di Storia di un impiegato, Nella mia ora di libertà, ed a Comfortably numb e le tracce seguenti: due misti di rassegnazione ma anche di speranza, di sconfitta ma anche di ricerca di riscossa, ed una chiusura che però sa anche di apertura, di un urlo silenzioso comune che fa sapere al mondo che "non finisce qui". Outside the wall è questo, come lo è l'ideale rivincita dei prigionieri nei confronti dei secondini durante l'ora di libertà. 

E' però secondo me ancora più vicino a Storia di un impiegato l'ultimo disco di Waters con i Pink Floyd: The Final Cut. Un album meraviglioso ma inviso ai fans dei Pink Floyd, che lo vedono come il simbolo della fine dell'amore tra Waters, Gilmour, Mason e Wright (che già era andato via prima delle registrazioni), ma che è forse il più alto punto della storia floydiana per quanto riguarda i testi. Inoltre in quest'album Waters fa emergere totalmente e spudoratamente il suo punto di vista politico, la sua voglia di non stare più al gioco, il suo desiderio di uscire dal muro ed urlare al mondo come la pensa. Ed oltre tutto lo urla nella maniera che meglio conosce: scrivendo dei testi estremamente efficaci, cantando in modo sublime (il miglior Waters al microfono di tutta la sua carriera) e collegandosi allo stile musicale di quel The Wall uscito cinque anni prima che aveva stravolto totalmente, facendolo ampiamente evolvere, il modo di comporre e suonare dei Pink Floyd. Brani come The post war dream, Your possible pasts, The Fletcher memorial home e The final cut hanno parecchi punti di contatto con La bomba in testa, Al ballo mascherato e Verranno a chiederti del nostro amore, tanto che ci si potrebbe quasi domandare se Waters conoscesse Storia di un impiegato. E soprattutto le similitudini tra The Fletcher memorial home e Al ballo mascherato e The final cut e Verranno a chiederti del nostro amore sono lampanti e disarmanti. Perché nel primo caso, se Waters si immagina di concentrare in una singola casa tutti i capitalisti ed i potenti della terra, far loro vivere una sorta di Grande fratello (nell'orwelliana accezione) che li mostri ancora in possesso del potere e poi attuare una soluzione finale, De André concentra in una festa tutte le figure che per due millenni hanno contraddistinto e rafforzato il potere per poi farle saltare in aria; nel secondo caso, invece, ci si trova di fronte a due storie d'amore finite proprio a causa della militanza contro il potere costituito, e ci si rivolge all'oggetto dell'amore perduto con frasi estremamente simili, in alcuni casi dubbiose (in Verranno a chiederti del nostro amore il protagonista si chiede come lei lo dipingerà davanti ai microfoni, mentre in The final cut l'ipotetico io chiede alla sua lei se venderà la loro storia ai giornali), e la presa di coscienza in un certo senso che il sentimento d'amore non cesserà di esistere (sebbene in De André questo avvenga in Nella mia ora di libertà).

Waters ha poi, dopo The Final Cut, continuato, nella sua carriera da solista, a percorrere la strada dei concept album e della critica sociale; De André ha fatto la stessa cosa a più riprese, talvolta con i concept album (L'Indiano, Rimini), talvolta con dischi che presentano tracklist con un filo conduttore meno palese (Vol.8, Le Nuvole ed Anime salve). E Waters, oltre tutto, ha continuato a portare in giro il suo manifesto più grande, quel The Wall che ha riproposto a Berlino in occasione della caduta del Muro, che ha portato più volte in giro negli stadi e nei palazzetti di tutto il mondo e che da ieri ora è al cinema con il film documentario che tratta sia la storia dell'ultimo tour di The Wall sia il pensiero politico-filosofico di Waters. De André ha invece probabilmente lasciato, nel peggiore dei modi, molto lavoro in sospeso, ma fino all'ultimo ha continuato a portare il suo messaggio in giro per l'Italia, consegnandoci poi come testamento tutta la sua produzione, estremamente attuale, bella ed utile. 

Per concludere, è necessaria anche una chiosa legata ad un ultimo elemento che li accomuna e che, però, non è oggettivo ma soggettivo. De André e Waters sono gli unici due artisti in grado di commuovermi, smuovermi ed emozionarmi con un'intensità disarmante, in grado di provocarmi lucciconi negli occhi sia per l'emozione legata a certi pezzi sia per lo stupore nell'ascoltare e riascoltare certe frasi che son diamanti di valore immenso ma anche, nel mondo di De André, un letame con il quale coltivare nuove idee, nuovi desideri di lotta, riscossa e ribellione. 

Sicuramente non vivrò mai un concerto così intenso e ricco di emozioni come quello di Roger Waters del 28 luglio 2013 a Roma, ma sono altrettanto sicuro che soltanto un altro artista avrebbe potuto eguagliarlo. Fabrizio De André.




giovedì 24 settembre 2015

Bruce Springsteen: Il Rock.




In un mondo sempre più ricco di apparenza e, di conseguenza, sempre più povero di sostanza, le mosche bianche, che si distinguono e riescono comunque ad emergere sono ormai poche. Questo vale in tutti gli ambiti: da quello lavorativo a quello politico, da quello amoroso a quello amicale, passando per lo sport, l'arte e la cultura. Ci vuole molto poco a creare dei prodotti ad hoc da propinare alla gente, come ci vuole poco a crearsi una maschera per apparire in modo estremamente diverso (e solitamente migliore) di fronte agli altri. 

Anche in un mondo genuino come quello della musica rock non mancano i prodotti studiati a tavolino, spinti dalle case discografiche e propinati alle nuove generazioni, le quali, nei testi, non riescono più a ritrovare i messaggi che una volta contraddistinguevano quello che era il rock: oltre alla musica in sé, anche i testi puntavano a rompere con il passato, con la musica della classe borghese. Si cercava di rispolverare le radici, si cercava di trasmettere dei messaggi nuovi, di protesta, di autodeterminazione, e soprattutto di speranza. Ma il problema non è relativo soltanto alle nuove rockstar, ma ha colpito anche quelle vecchie, alcune di queste storiche, che traviate dal denaro si sono perse un po' per strada, alcune anche rimettendoci la vita. Penso agli Hendrix, ai Morrison, ma anche ad Osbourne o ai Red Hot Chili Peppers: qualcuno è morto per droga, qualcun altro perché non ha saputo reggere alla pressione, qualcun altro è arrivato al punto di bruciarsi totalmente il cervello ed a salvarsi per un pelo. 

C'è invece chi da quarant'anni, facendo un percorso dal basso come gli artisti sopra citati, continua ad incarnare quello spirito rock meglio di chiunque altro. Da quarant'anni scrive d'amore, di morte, della vita di tutti i giorni, della sua patria, delle sue radici, dei problemi sociali, delle guerre e della pace. Da quarant'anni sale sui palchi di tutto il mondo per portare a migliaia e migliaia di persone il suo messaggio, armato di una voce graffiante e di una chitarra che spara note su note che arrivano dritte ai cuori. Da quarant'anni, salendo su quei palchi, si diverte, si emoziona suonando accanto ai suoi amici o a quelli che fino a qualche anno fa sembravano miti irraggiungibili. Da quarant'anni è coerente al suo essere nato operaio, figlio di uno Stato ricco di contraddizioni con le quali bisogna convivere, consci però che vanno eliminate, ed in un senso positivo anziché negativo. Da quarant'anni mostra a generazioni e generazioni di aspiranti rockstar qual è la via da seguire per essere sempre fedeli alle motivazioni con le quali per la prima volta ci si è trovati in un garage a suonare con gli amici o in camera, da soli, a scrivere canzoni accompagnandosi con una chitarra di seconda mano. 

E fortunatamente alcuni artisti, più giovani di lui, hanno seguito questa strada, eleggendolo a loro guru. Mi vengono in mente i Pearl Jam, giusto per fare un esempio, o i nostri Gang, ma sono sicuro che esempi simili ce ne siano tanti altri ancora. Restano forse la minoranza, ma se oggi si può ancora dire che il rock n' roll non è morto è grazie a lui ed a pochi altri. 

Quest'uomo è Bruce Springsteen, signore e signori. Quest'uomo è il Boss. Quest'uomo è il Rock. Perché del rock incarna ogni singolo elemento, del rock è uno degli esponenti più efficaci e continui, del rock è il principe indiscusso. Ed anche se ha sessantasei anni continua a far ballare migliaia e migliaia di persone per tre ore ai suoi concerti, continua a regalarci nuove perle e continua a stupirci, facendoci ancora chiedere come sia possibile che, dopo decenni di carriera, sappia ancora inventare, creare, e soprattutto donare. Certo, si è arricchito. Certo, ha fama e successo. Ma il rock, oltre ad essere uno strumento di protesta e di rottura, è anche un mezzo per l'emancipazione, l'autodeterminazione, il poter vivere grazie alla propria passione. E sono sicuro che chi lo conosce da quaranta/cinquant'anni può confermare che è rimasto lo stesso: un ragazzo innamorato della vita, innamorato della sua patria, innamorato della musica, e desideroso di vivere la prima, rendere migliore la seconda e sposare, giorno dopo giorno, la terza. 

Grazie Bruce, per tutto ciò che hai fatto finora, ma soprattutto per ciò che sei e per ciò che rappresenti. E per celebrarti non potrei scegliere altra canzone se non la tua più famosa... ma in una versione un po' particolare, quella che personalmente amo di più. Buon sessantaseiesimo compleanno, giovanotto!! 



lunedì 25 maggio 2015

Berlinguer, ti voglio bene! Senza se e senza ma.

Enrico Berlinguer e Roberto Benigni a Roma. 17 giugno 1983



Oggi sarebbe stato il novantatreesimo compleanno di Enrico Berlinguer, uno dei politici più amati dal Dopoguerra ad oggi, secondo forse soltanto a Sandro Pertini. La sua vita è finita a sessantadue anni, a causa di un ictus durante un comizio per il Partito Comunista, del quale è stato segretario per dodici anni, dal '72 all'84. Dalla sua Sardegna al Veneto, da Sassari a Padova il percorso è stato lungo, intenso, pieno di lotte, di scontri con le altre forze politiche ma anche con i propri compagni. Perché se una cosa a sinistra riesce bene è proprio quella di preferire l'immobilismo al compromesso, la scissione alla coesione nonostante. Ora come allora.

Ed ora, a distanza di trent'anni dalla sua morte anche Berlinguer sta subendo l'onta del revisionismo, della decontestualizzazione, della sottolineatura degli errori da lui commessi, diventando anche lui un ingranaggio della ben oliata macchina del fango promossa da coloro che pensano di essere gli eletti, i discendenti di Marx e Lenin, gli unici a poter portare avanti il discorso comunista in Italia. Ma non è di questo che voglio parlare, o meglio questo è solo il punto di partenza della mia esposizione che vuol partire da quegli errori messi in luce con estrema mancanza di rispetto e di cognizione di causa da parte di chi infanga Enrico e che vuole arrivare non solo a giustificarli ma a renderli i punti di forza della politica della maggioranza PCI sotto la guida di Berlinguer. 

Perché Berlinguer non era affatto stupido, e la sua non era affatto una politica emergenziale, a breve termine, indirizzata solo al servire per il presente risultando sterile nel futuro. Berlinguer puntava a quella famosa "Città futura" descritta da Gramsci nei suoi appunti, e sapeva che per arrivarci non era sufficiente soddisfare i lavoratori, assecondare le lotte studentesche, cavalcare l'onda dell'entusiasmo delle piazze. Perché Berlinguer sapeva che portare al benessere attraverso le conquiste dei diritti poteva essere un'arma a doppio taglio, sapeva che buona parte dell'elettorato votava PCI non tanto per coscienza politica ma per interesse, e per cui era necessario andare oltre, creare un forte legame tra il partito e l'elettorato, puntando possibilmente a renderlo più vasto, raccogliendo quei consensi che sarebbero sì stati difficili da strappare ma percorrendo la strada non tanto che portava alla pancia dell'elettore quanto a quella della testa. Perché si fa presto a dire che il PCI ha fallito per colpa della classe politica, per colpa anche di Berlinguer, ma forse si sopravvaluta la tenuta morale dell'elettorato che portò il PCI ad essere il primo partito in Italia ed il più forte partito comunista dell'Europa Occidentale: perché è vero, era gente impegnata, come non si è più vista in Italia negli ultimi trentacinque anni, ma bisogna chiedersi il perché di queste loro azioni, di questo loro impegno. Era un impegno strumentalizzato, dettato dalla fame, dalla sopravvivenza, dalla logica necessità di rispetto, di riconoscimento, di acquisizione di determinati diritti. Il problema è che una volta conquistati i diritti a loro cari si sono ritirati, sono tornati a casa, davanti alla TV, sul divano nuovo, e non si sono posti il problema di spiegare la loro storia ai figli, alle nuove generazioni, alla fatica; non hanno motivato le loro scelte politiche, se non dicendo che votavano così perché era l'unico modo per conquistare ciò che desideravano. Si contesta tanto l'elettorato berlusconiano della prima ora, quello di imprenditori e di ladroni vari, ma del resto non hanno agito tanto diversamente: han votato Berlusconi perché Berlusconi garantiva loro le libertà che nessun altro gli avrebbe concesso... o no!? 

Berlinguer agì quindi con lungimiranza, prendendo le distanze dai comportamenti dell'Unione Sovietica ma non dagli ideali dell'universo sovietico, e non si pose il problema di contrapporsi per partito preso alla DC perché all'interno della DC c'erano delle correnti che molto avrebbero potuto dare alla causa di sinistra: lo chiamano cattocomunisti gli ottusi di estrema sinistra l'atteggiamento tenuto da Berlinguer, ma in verità era unione di intenti, era solidarietà, era umanesimo volto a dar sostegno ad una battaglia che doveva continuare. Perché c'era il rischio di fare la fine della Grecia dei colonnelli, c'era il rischio di un colpo di Stato, di una guerra civile, di una invasione occidentale. E per cui si arrivò al compromesso storico tra PCI e DC, tra Berlinguer e Moro. e per capire quanto importante e fondamentale poteva essere il compromesso storico, se solo si fosse potuto realizzare, è sufficiente analizzare ciò che è successo nel momento in cui questa ipotesi stava diventando realtà. E' stato architettato il rapimento di Moro da parte delle Brigate Rosse, che poi il  9 maggio si è trasformato in assassinio, e casualmente stanno emergendo tutta una serie di prove che mostrano come quelle non fossero Brigate Rosse e come dietro tutto ciò che stava avvenendo, sia tra i Brigatisti rossi sia tra i fascisti erano presenti il Gladio e la CIA. Perché per l'appunto l'importanza di un evento e/o di una persona si evince anche e soprattutto dalla reazione che questo evento e/o questa persona suscita nei nemici. Ed i nemici hanno deciso di colpire Moro, in modo da non perdere definitivamente le possibilità di ribaltare una situazione che per loro era estremamente difficile, delegittimare totalmente agli occhi dell'opinione pubblica le Brigate Rosse (che, nonostante quel che si racconta ora, godevano di una simpatia non trascurabile tra la popolazione) e far passare per colpevoli tutti i comunisti. Berlinguer compreso. Avessero ucciso Enrico, probabilmente nemmeno un accorato invito a non armarsi come quello fatto da Togliatti dopo l'attentato che lo colpì avrebbe fermato i comunisti di allora. Del resto i servizi segreti vengono spesso chiamati "intelligence" mica per caso... 

Ma la cosa più grande di Berlinguer, che va oltre le critiche e non parte da esse, fu la sua capacità di arrivare alla gente come pochi altri, di far leva sulle emozioni della gente: perché il problema di molti politici di sinistra è sempre stato l'apparire burberi, freddi, estremamente pessimisti, pieni di rabbia e rancore di fronte allo sfacelo a loro contemporaneo, e le uniche emozioni che potevano far passare erano quelle di rivincita, di vendetta, di desiderio di lotta. Funzionali al massimo, e del resto i risultati pre-Berlinguer lo dimostrano, ma comunque mai mostravano un qualcosa che andasse oltre tutto ciò: non c'erano molti sorrisi, non c'era la passione, non c'era una forte luce nei loro occhi. Per fare un esempio non c'era l'intensità che era presente in Ernesto Che Guevara o nei suoi compagni cubani, da Fidel Castro a Camilo Cienfuegos. Berlinguer in questo è stato unico prendendo in considerazione il partito comunista italiano, ed è forse proprio questa la sua caratteristica che l'ha portato ad essere giusto un gradino sotto a Pertini nella classifica dei personaggi politici nostrani più amati. Perché come diceva Gaber "Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona"... ed io credo che fosse questo il motivo più importante per il quale essere allora comunisti.

Non per le lotte, non per il pane, non per i diritti. Ma perché si aveva una guida morale meravigliosa, capace di fare politica come pochi altri, appassionato, colto, intelligente... ed estremamente buono. A chi ora cerca di delegittimare tutto ciò che ha fatto, arrivando ad arrogarsi il diritto di negare il suo essere comunista, io voglio soltanto dire che forse non è stato il più grande rivoluzionario, ma se sono i rivoluzionari quelli che aspettate, in un contesto come quello italiano, allora potete continuare a decontestualizzare tutto, e probabilmente arriverete a sputare anche su Che Guevara, su Allende, su tutti quelli che, come Berlinguer, per malattia o uccisi, hanno lottato fino all'ultimo per il bene di tutti, anche a costo di perdere un giorno consensi. 

Questo articolo forse verrà tacciato come agiografico, ma a me non interessa. Se Berlinguer ha fallito la colpa è di chi ha smesso di votare PCI, vuoi perché non ne ha sentito più il bisogno o vuoi perché non c'era più Berlinguer... ma allora ditemi, erano veri comunisti quelli che dopo la morte di Berlinguer hanno riposto le bandiere? Erano comunisti quelli che una volta conquistato ciò che a loro interessava hanno smesso di lottare per i diritti di qualcun altro? 

Secondo me no... 

Berlinguer però lo era, e chi veramente l'ha amato ha continuato ad esserlo. Perché se è vero che Berlinguer era una brava persona, è anche vero che una brava persona piace a persone che sono brave quanto lei.






Stefano Tortelli

domenica 24 maggio 2015

L'amore a quattro zampe... e due angeliche ali




Quando scrissi le righe che più avanti riporterò c'erano molte differenze rispetto ad ora, era passato meno tempo, non c'era Thor ed il grande amore ed il ricordo che avevo di Duca era ancora intatto, intero e non era stato mai messo alla prova: prima di Thor era stato l'ultimo cane che ho avuto, con lui son cresciuto per tredici anni, l'ho sostanzialmente visto nascere e tredici anni dopo, con le lacrime agli occhi, l'ho seppellito, dandogli l'ultimo saluto, sentendo per l'ultima volta la sua pelle, il suo calore, il suo peso, che però stavolta non mi sbilanciava sulle gambe, quando a peso morto si appoggiava a me per poi cadere e prendersi le coccole... Era l'ultimo saluto, e dopo due anni e mezzo scrissi le righe che seguono, ripensando alla sera prima che morisse:

"Non dimenticherò mai il suo sguardo la notte prima che lasciasse questo mondo. 
Era lì, sdraiato sul pavimento della cucina, ansimante e consapevole che il momento di partire per quella sua ultima corsa era ormai prossimo: un ultimo alternarsi nel cielo della Luna e del Sole, ed il viaggio sarebbe cominciato. 
Mi fissava con quei suoi occhi scuri, enormi, pieni di tristezza, rassegnazione, ma anche di liberazione. I suoi occhi come i miei lasciavano fluire le lacrime dagli angoli delle orbite, e mi piaceva credere che anche lui stesse ripercorrendo nella mente i tredici anni vissuti insieme: le corse nel giardino, il suo rifugiarsi in camera mia durante i temporali, le tante guerre con la gatta ed i piatti di latte passati sottobanco… e tante, tante altre cose. 
Mi ha visto crescere, portare a casa prima amici e poi ragazze, tutti terrorizzati al primo approccio dalla sua irruenza, da quel suo gran vocione che tanto manca nelle silenziose notti di questa piccola frazione dispersa nel nulla. 
Sapeva farsi notare, sì con l’irruenza e con il riecheggiare del suo “parlare”, ma anche con la sua bellezza: il suo manto fatto di chiaro-scuri luccicava ai raggi del sole, il suo passo era degno della fierezza dei suoi antenati di montagna, il suo viso era perfettamente simmetrico, con quel piccolo neo sotto l’occhio destro, un po’ come le dive di Hollywood. Il più bell’esemplare della sua razza che io, insieme a tante altre persone, abbia mai visto. 
Nel nostro giocare siamo quasi sempre stati leali, nonostante a volte siamo arrivati a farci del male, eppure ci siamo sempre perdonati, ritrovati, come due amici che nonostante tutto continuano a volersi bene, ad affrontare ogni giorno insieme, perché consapevoli di non poter trovare miglior compagno di avventura. E penso a volte di poter rivivere certe cose con i suoi simili guardandoli giocare con chi ha la fortuna di averli accanto, eppure so che non potrà mai esserci un rapporto del genere, perché lui era speciale, lui dopo poche settimane dalla sua nascita già mi seguiva per il giardino, curioso, voglioso di assaporare il mondo, di scoprire cosa c’era oltre la casa di sua mamma. Ed è per questo che fra cinque ho scelto lui, per il suo assomigliarmi, per il suo desiderio di novità. 
E poi lui ancora è con me; perché se anche di notte non lo posso più sentire abbaiare a qualche gatto, lo posso vedere nei sogni, dove spesso scodinzolando viene a trovarmi per poter condividere ancora qualche momento insieme, in un universo parallelo dove le persone, gli animali, i luoghi e le cose che ci hanno segnato non muoiono mai."

Dopo un anno e mezzo, che tra l'altro è più o meno lo stesso periodo di tempo che mi vede ora in compagnia di Thor, il discorso non è cambiato, ed anzi si è rafforzato, e non per demeriti di Thor ma perché finalmente ho potuto mettere alla prova i ricordi, le emozioni, l'amore per Duca, che è rimasto imperturbato, intatto, limpido e luminoso, e questa presa di coscienza si è fatta via via più chiara mese dopo mese, che ha portato al migliorarsi del rapporto tra Thor e me, che all'inizio era conflittuale ma che da luglio in poi ha preso una bellissima piega e che nelle ultime settimane lo porta a dormire ai piedi del mio letto, o meglio a vegliare sui miei sogni. 

Il 21 maggio era il quarto anniversario della morte di Duca, e proprio quella notte Duca, per l'ennesima volta, ha voluto manifestarsi, è voluto venirmi a trovare in sogno, e l'ha fatto nel modo più bello, ripetendo ciò che tante volte ha fatto in vita: nel sogno ero a letto (e questo contribuì a farmelo sembrare reale), probabilmente era mattina, avevo in mano qualcosa da mangiare, Duca era accanto a me, seduto e scodinzolante, che mi guardava e pretendeva un boccone; io alzai ciò che avevo in mano, mi spostai sul letto, e lui salì, per prenderlo, per sì mangiare ciò che avevo in mano ma soprattutto per giocare, per farsi fare e fare le coccole. Un'altra volta ancora, come quando eravamo entrambi cuccioli, come quando io mi stavo affacciando all'età adulta e lui stava lentamente andando verso la vecchiaia. Come quell'ultima notte, quando mai avrei voluto andare a dormire lontano da lui, quando avrei preferito dormire con la mia testa sul suo corpo, fregandomene del fatto che fosse sporco e maleodorante a causa della malattia che lo stava distruggendo. 

Quando scrivo di Duca, quando parlo di Duca, non possono che brillarmi gli occhi, non può che chiudermisi la gola... ma nel brillare dei miei occhi c'è lui, e c'è con una limpidezza sempre più intensa, proprio perché questi miei stessi occhi hanno modo di vedere nella realtà un degno suo erede come Thor, per il quale il mio amore è forte, anche e soprattutto perché ha saputo aspettarmi, anche e soprattutto perché è conscio dell'eredità che ha raccolto. E nonostante questo non ha paura di mettersi in gioco, come non ho paura io di dimenticare... perché dimenticare è impossibile già di suo, dimenticare Duca è nemmeno immaginabile.

Una persona un giorno mi disse che il paradiso degli animali è oltre il ponte dell'arcobaleno, ed è lì che i padroni ed i loro compagni a quattro zampe si ritroveranno... forse è per questo che Duca aveva paura dei temporali, gli piaceva così tanto stare qui che nemmeno voleva vederlo, un arcobaleno. E, pur di essere sicuro di non scorgerlo neppure con la coda dell'occhio, si andava a rifugiare negli angoli più bui della casa, solitamente sotto, da mio zio... Ed ogni volta che vado nel corridoio che porta alla camera dove Duca si rintanava inconsciamente penso di poterlo vedere da un momento all'altro. Ed è proprio quando mi rendo conto che non può essere così mi rendo conto che lui c'è, che è rimasto. E non oltre il ponte dell'arcobaleno, ma qui, con me in me. 

Succede sempre. Ogni volta.




Stefano Tortelli

giovedì 7 maggio 2015

Post numero 100: dedicato alle mie radici. A mia mamma ed a mio papà.






Questo è un post estremamente speciale, un post decisamente significativo, un post che potrebbe trattare di molti argomenti disparati se non fosse che rappresenta di per sé un traguardo importante, già di per sé insperato ma che mai avrei pensato di raggiungere in soli cinque mesi. E' il post numero cento, è il post delle tre cifre, è il post al quale, in senso metaforico, mi volto indietro e guardo il percorso già fatto. Come tutto è cominciato, il perché, il quando, il chi mi ha dato la spinta. Era il due dicembre quando aprii questo blog, e sotto le pressioni di Ivan qualche giorno dopo ho aperto anche la pagina Facebook ad esso dedicato. Poi è arrivata la pubblicazione dell'articolo su Finardi da Finardi stesso sulla sua pagina, i complimenti di molte persone che non conoscevo, e che proprio per questo ritengo estremamente sinceri, disinteressati, autentici. La stessa cosa è successa con quello dei Gang, poi è cominciata la collaborazione con Libera.tv, e sarebbe dovuta cominciare anche con ResetItalia non fosse stato per un problema di accesso al sito. Ma ci sono cose estremamente più importanti di queste, che sostanzialmente risiedono non tanto nella ragione dello scrivere, e tanto meno nel ciò che scrivo. Perché voltandomi indietro, di fronte a questo cento, sono andato anche più a ritroso, oltre al punto in cui la strada cominciava. E forse è ancora meglio definire il tutto come un fiume: dopo questi cento chilometri di corso d'acqua mi son girato, con le spalle rivolte verso la foce, ad osservare non solo la fonte, ma dentro la fonte. 

Nella fonte, nelle viscere più profonde che la animano, all'interno dell'immensa montagna che la ospita, ci sono due persone, c'è un amore, c'è la vita, il senso più profondo della vita. Perché alla base di tutto ci sono i miei genitori, mio padre e mia madre, le persone che mi hanno dato la vita, le persone che per prime hanno creduto in me, stimolandomi, spronandomi, a volte, forse, anche inconsapevolmente. Perché se è vero che idealmente io ora sono quel fiume, all'inizio di tutta la storia ero un animale che si abbeverava alla fonte, dissetava la propria gola con quella fresca e dolce acqua, così pura, così limpida, così meravigliosa. Mi rendo conto di non aver citato molto spesso Luciana e Marco, preferendo magari dedicare qualche riga in più alle professoresse di italiano, a mia nonna, agli amici, alle relazioni che mi hanno, nel bene e nel male, portato ad essere la persona che sono, con i miei pregi e con i miei difetti, ed anche con le mie contraddizioni. Ma tutta la sostanza, e soprattutto buona parte della forma, le devo a quella donna e quell'uomo che nell'amore mi hanno concepito, nell'amore mi hanno fatto nascere, e con amore mi hanno cresciuto, preferendo ai giudizi i consigli, premettendo sempre che le eventuali difficoltà, le eventuali rinunce, gli eventuali rimproveri, erano, innanzi tutto, atti d'amore, e non di odio. E, cosa più importante di tutte, per lo meno in questa prima parte della loro descrizione, è stato il loro darmi la possibilità di sbagliare, di sbagliare di testa mia, mettendomi nella condizione di aver sì la libertà di fare, ma anche di essere consapevole del fatto che, come da solo agivo, da solo avrei sbagliato. Mi hanno fatto il dono più grande dell'universo, la responsabilità: nei confronti di me stesso, in primis, ma anche nei confronti del mondo che mi circonda. 

In queste ultime due settimane ho avuto molte occasioni per parlare di me, della mia storia, del mio trascorso, perché in questo lasso di tempo, che sono sicuro si dilaterà con il passare dei giorni, ho potuto passare diverse ore con una persona estremamente curiosa, molto intelligente, e che soprattutto non mi conosceva minimamente e che non ha avuto alcun pregiudizio durante il suo percorso di avvicinamento. Così, più che sottolineare ciò che faccio, ciò che anima le mie giornate, il più dei discorsi hanno avuto come oggetto ciò che ho fatto, ciò che mi ha caratterizzato in passato. Del resto ognuno di noi è, nel presente, perché figlio di ciò che in passato ha fatto, e sarà, un giorno, in base a quel che oggi fa: le esperienze, il buono ed il cattivo, le influenze esterne, le varie prese di coscienza nei diversi momenti della vita. Ed andando sempre più a ritroso, a volte saltando a piè pari alcuni periodi per riuscire ad arrivare ai punti focali (visto che quando si sta bene il tempo sembra avere sempre una marcia in più...), non ho potuto evitare di citare la base, il sostegno primario, gli esempi fondamentali, l'ispirazione essenziale. I miei genitori, Marco e Luciana, sono due persone che hanno avuto un percorso estremamente diverso prima di conoscersi, che però, allo stesso tempo, li ha portati ad essere sufficientemente simili per essere compatibili al punto tale da stare insieme da trentacinque anni ed amarsi come se fosse ancora il primo giorno. E forse è proprio nell'amore che hanno trovato continue motivazioni per preservare la loro essenza: perché loro sono tra le poche persone che ancora ragionano attraverso i "nonostante", che quando si dicono "Ti amo" non pensano più di tanti ai mille motivi per cui si amano ma, consci del fatto che logicamente c'è sempre qualcosa di soggettivamente imperfetto nell'altra persona, sanno che il loro è un "Ti amo nonostante...". E non credo esista forma di amore più grande di questa, perché libera, perché incondizionata, perché non ha fondamenta deboli dettate da pochi perché ma eventualmente minime crepe causate dai nonostante, ma mai sufficienti per trasformare il "nonostante" in "non". 

Ed in un ambiente del genere è già di per sé semplice crescere, sentirsi a proprio agio, riuscire ad esprimersi. Ma soprattutto in questo contesto  è stato facile essere curiosi, anche perché davanti alla mia curiosità raramente non ho trovato una risposta pronta ed esauriente da parte dei miei. Perché mio padre è una di quelle persone che basta ascoltare dieci minuti per poi desiderare di passarci le ore insieme a parlare, anche di argomenti che magari in partenza non ti interessano ma che lui, non si sa come, sa rendere estremamente interessanti, coinvolgenti. Mio padre sarebbe potuto essere un grandissimo oratore, anche perché accanto alla serietà, all'intensità dei suoi discorsi ed alla capacità di farti pendere dalle sue labbra sa far ridere come poche altre persone al mondo, perché oltre ad essere a conoscenza di innumerevoli nozioni ha anche un'inventiva pazzesca, che è tangibile quando dal nulla ti crea (perché dire costruisce è in un certo senso riduttivo per lui) un oggetto, un disegno, una composizione floreale, ma è sorprendente ed ancor più efficace quando è intangibile, quando è dettata dalle sue parole, soprattutto nello scherzo, nella battuta, nel non-sense. Ed in tutta questa grandezza difficilmente si riesce a scorgere l'emotività, che però emerge quando, paradossalmente, riesce ad essere estremamente lucido, razionale. C'è chi, in certe situazioni, potrebbe pensare, parlando con lui, che alcune sue frasi, che possono sembrare sentenze, siano dettate da cinismo o spietatezza: in verità sono dettate dall'immenso amore che prova per ciò che lo circonda, e che come un novello Machiavelli punta a difendere, adottando qualsiasi mezzo necessario e disponibile. Perché lui è pragmatico, consapevole sia di quali siano i problemi sia di quali siano le soluzioni più adatte, e nella sua razionalità mantiene innanzi tutto una capacità di essere oggettivo disarmante: perché magari può sembrare cattivo, ma prima di qualsiasi considerazione soggettiva dettata da chi lo ascolta o lo osserva agire lui è GIUSTO. 

E mia madre, mia madre è colei che alimenta ogni mia speranza, è colei che mi spinge a crederci, è colei che sebbene attorno ci sia solo il buio riesce in qualche modo a trovare la luce, e se luce proprio non c'è è lei a crearla. Con i suoi occhi, con i suoi sorrisi, con i suoi abbracci, con la sua voglia di non arrendersi mai, nemmeno nel peggiore dei momenti. Lei è la classica persona che diventerebbe in poco tempo la migliore amica di chiunque, perché con lei si può parlare di tutto, con lei ci si può totalmente esporre perché nel suo vocabolario il verbo "giudicare" non esiste. E questo non significa che non sappia distinguere il bene dal male, ma fino a che ha argomenti disponibili cerca di trovare le motivazioni del bene e del male, scava nel profondo, va al di là delle barriere, non ponendosi limiti e non ponendo ad altri alcun limite. Mia madre, ora che non c'è più mia nonna, è probabilmente il perno della famiglia allargata: è moglie e confidente, è madre e confidente, è sorella e confidente, è cognata e confidente, è zia e confidente. Lei è, e trova sempre il modo di far sì che anche gli altri possano cercare di essere, di splendere, di dare. Lei è stata la prima a credere in me quando da piccolo cominciai a cantare, e pur di far sì che io potessi continuare ad allenare il mio talento ha passato ore con me a cantare. Lei è stata la prima a credere in me quando, appena imparato a scrivere ed ad articolare le frasi, cominciai a scrivere le mie prime storielle, avventure in modi lontani o fantastici. Lei ha nutrito ogni giorno la mia sete di conoscenza, leggendomi libri, aiutandomi poi a leggerli ed infine spiegandomeli quando non li capivo. Lei ha instillato in me la maggior parte delle mie passioni, dalla musica alla poesia, e lei mi ha insegnato ad accogliere le emozioni, dalle più belle alle più brutte, dandomi la possibilità di comprendere che non è importante che emozione si stia vivendo, ma che l'importante è viverle, sentirle, fino in fondo. E, cosa più importante di tutte, mi ha insegnato a ricercare la bellezza, non tanto dove è facile trovarla ma in quelle situazioni in cui, per gli occhi di qualcun altro, di bellezza non vi è nemmeno l'ombra. Perché lei, in tutto ciò che ha fatto, non si è mai fermata alla risposta che poteva derivare dalla domanda "Ho indovinato nel scegliere questa strada oppure ho sbagliato?": perché per lei, la cosa più importante, è sempre stato fare del bene, volere il bene, dare il bene, a più persone possibili. Perché se c'è una persona davvero BUONA al mondo, questa è mia madre.

Ed ecco, crescere con la Buona ed il Giusto è stato il più grande regalo che questo mondo potesse farmi, è stata la situazione ideale in cui formarmi, è stata la fonte migliore che il fiume che rappresento potesse avere. Un'acqua sì buona, ma anche sana, consapevole che, per poter scorrere, bisognava scavare nella montagna, emergere, ed aiutato dalle forze esterne aprirmi una via nella valle. Per poter sì far giungere il più lontano possibile la mia buona acqua, ma anche non fermarmi davanti agli ostacoli che si ponevano tra me ed i miei obiettivi, ovvero tutto ciò che di sbagliato avrebbe potuto limitarmi: e così mi sono infiltrato nella montagna, ho visto la luce del sole, ho lentamente creato il mio letto, abbattuto alberi, a volte curvandomi per evitare dei limiti troppo difficili da superare, ma mantenendomi sempre coerente e fedele alla mia missione. 

Prima di raggiungere il mare spero passino ancora tanti post, tanti giorni, tante esperienze, e spero che buona parte di questo tempo che manca al raggiungimento della foce io possa farlo con la fonte ancora viva e rigogliosa. Perché spesso ho parlato di eroi in questo blog, ma i più grandi di tutti, quelli che realmente si vorrebbe potessero essere immortali, sono proprio loro: Marco il Giusto e Luciana la Buona. Grazie, davvero, per questo meraviglioso percorso che mi avete invogliato a intraprendere e che tanto mi sta dando, in nome della bontà, in nome del giusto. In nome dell'amore.







Stefano Tortelli

martedì 5 maggio 2015

Red Hot Chili Peppers: il primo amore non si scorda mai





I miei primi quattordici anni di vita si potrebbero facilmente riassumere in tre fasi musicali, fortemente influenzate dai consigli musicali di mia cugina e da ciò che ai tempi passavano TMC2, All Music ed MTV. Già, quand'ero piccolo MTV ancora trasmetteva video musicali, aveva classifiche su classifiche, contenitori tematici, trasmissioni inerenti alla musica. Mi ricordo che quando avevo 12-13 anni c'era una trasmissione che si chiamava Select, era in programmazione alle cinque di pomeriggio, durante la quale si poteva scegliere il video da far trasmettere tra i cinquanta precedentemente selezionati, e mai me ne perdevo una puntata, se non quando dovevo andare a karate. E sempre MTV ed All Music aprivano le mie giornate: appena sveglio, mentre mi preparavo per andare a scuola, accendevo la tv ed ascoltavo i pezzi che passavano. I primi anni della mia vita erano stati caratterizzati dalla forte presenza degli 883, tanto che ancora ora mi ricordo la maggior parte dei loro testi, le scalette degli album, e se Max Pezzali ripasserà a Torino probabilmente andrò nuovamente ad ascoltarlo. Perché hanno segnato un'epoca, hanno accompagnato molti momenti della mia infanzia, sono loro le prime parole che ho cantato a tre anni, e se ora canto è perché gli 883, per primi, mi hanno fatto innamorare delle canzoni e del cantare le canzoni. 

Dopo è arrivato Eminem: quando uscì The Eminem Show conoscevo il rapper americano soltanto per qualche video dei suoi lavori precedenti (canzoni come The Real Slim Shady, My name is o Stan), ma al primo ascolto di Without me fu subito amore. Non capivo nulla del testo, ma quel semplicissimo passaggio ripetitivo che fa da sostegno all'intera canzone era ipnotico, faceva gesticolare e muovere la testa a ritmo: era come se io fossi un cobra ed Eminem l'incantatore di serpenti in grado di farmi fare quello che voleva con la sua musica. Lo ascoltai tantissimo, tant'è che il disco di The Eminem Show diventò pressoché inutilizzabile a causa dei migliaia di passaggi che fece nello stereo e nel lettore cd portatile. Quando uscì la videocassetta del film 8mile i miei genitori me la regalarono e la vidi almeno una decina di volta, e quando successivamente uscì il dvd, anni dopo, con un settimanale, non potei fare a meno di comprarlo. Cominciai poi a comprare i primi giornali dedicati alla musica: era il periodo d'oro della rete televisiva All Music, tanto che iniziarono a stamparne una rivista, ed a fianco di Topolino e di alcuni libri per ragazzi diventò una mia lettura abituale, così come TuttoMusica.

TuttoMusica entrò per la prima volta in casa per caso, ed è doveroso citarlo in questo post perché il motivo per il quale entrò in casa rappresenta la svolta del mio interesse nel campo musicale. Nel 2002 era uscito By the way dei Red Hot Chili Peppers, ed entro la fine dell'anno erano stati pubblicati i primi due singoli con i relativi video: l'omonimo By the way e The zephyr song. Le ascoltavo, mi piacevano, ma ancora non mi avevano preso totalmente. Ma poi ecco la rivoluzione: un pomeriggio come tanti presentarono su MTV il nuovo singolo dei Red hot, Can't stop. Da lì fu amore, un amore totale, un amore che non avevo provato né per gli 883 né per Eminem. Perché il motivo per cui guardavo MTV ed All Music da quel momento era cambiato: non le guardavo per ascoltare musica e vedere video qualsiasi, le guardavo con la speranza di vedere QUEL video, di sentire QUELLA canzone. Una mattina ero in auto con i miei ,stavamo andando a Torino, mi sembra per una visita in ospedale, ed alla radio passò Can't stop: ero così felice di sentirla anche in via etere che mi ero quasi commosso. E qualche giorno dopo mio padre arrivò da lavoro con in mano un numero di Tuttomusica, quello dell'Aprile 2003, dedicato quasi interamente alle canzoni riguardanti la pace, perché era appena cominciata la seconda guerra in Iraq: a guardarne la copertina, che è attaccata ad un'anta dell'armadio, mi viene da sorridere, perché oltre ad una foto con diversi artisti italiani che si erano prodigati con messaggi e canzoni contro la guerra (e molti di questi artisti sarebbero poi diventati cardini della mia cultura musicale, da Morgan a Pelù, passando per i Modena City Ramblers e la Bandabardò), era anche riportata una frase di una canzone che assolutamente non conoscevo ma che poi mi avrebbe fatto commuovere parecchie volte pochi anni dopo:  Goodbye blue sky dei Pink Floyd. Ma non è tutto qui, anche perché altrimenti non avrebbe alcun senso citare tutto ciò: in allegato alla rivista c'era un cd che, dopo aver approfondito la conoscenza dei Red Hot, sarebbe diventato il mio preferito della band californiana. Era Mother's milk!! E così ebbi finalmente il piacere di ascoltare i Red Hot in qualsiasi momento del giorno, sebbene quell'album non fosse semplice da capire, da apprezzare totalmente, perché lo reputavo ancora troppo duro, violento, per le mie giovani orecchie. Intanto, anche mia cugina era venuta a conoscenza del mio amore incondizionato verso Kiedis e soci, perciò mi scaricò alcune loro canzoni, quelle fondamentali, e ne scaricò anche alcuni video, regalandomi poi per il compleanno il cd. E così avevo tutto ciò che mi serviva per conoscerli a pieno, per approfondirli. E con il tipico "inglese da canzone" cominciai a provare a cantare alcuni loro pezzi, ed in questo caso a venirmi poi in soccorso fu mia madre, che nelle pause a lavoro stampò alcuni testi che ancora custodisco in uno dei miei raccoglitori. 

Grazie ai Red hot aprii le porte del mondo del rock, ed in rapida successione cominciai ad ascoltare i Guns n' Roses (il cui Greatest hits fu il primo cd che acquistai con i miei soldi), i Nirvana, gli AC/DC, i Led Zeppelin, i Metallica, i Queen, i Pink Floyd. Grazie ai Red hot imparai,dopo il primo ascolto di una canzone , a tentare subito di ripercorrerne la linea vocale, a volte con risultati sorprendenti, altre fallendo miseramente, a seconda delle mie ancora grezze capacità e della mia voce ancora non totalmente formata (che però mi permetteva di cantare Bohemian rapsody dei Queen, cosa che ormai non posso più fare). E per questo motivo sento di dovere tanto a questo gruppo, anche il piacere dell'attesa dell'uscita del primo album che sarebbe uscito dopo averli conosciuti: era il 2006, da quattro anni non pubblicavano nulla di inedito (tranne il Greatest hits e il Live in Hyde Park) e ricordo che all'annuncio dell'uscita del nuovo album feci i salti di gioia, segnai sul calendario la data di uscita ed il giorno della pubblicazione mi fermai dopo scuola a Saluzzo, appostandomi davanti al negozio di musica in attesa che riaprisse. Mi portai dietro il lettore cd, in modo da ascoltarlo subito, perché avevo già atteso tanto e non potevo assolutamente far passare ancora mezz'ora, non era accettabile, assolutamente. E così feci il viaggio di ritorno a casa ascoltando il primo dei due cd, entrai in casa e me li gustai dalla prima all'ultima nota (quasi dimenticandomi di nascondere anche il regalo per mia madre per la festa della mamma, ovvero il disco di Bruce Springsteen): ero diventato un loro fan a tutti gli effetti. Ma per suggellare definitivamente questo amore dovetti aspettare ancora cinque anni: nel 2011 venne annunciata la pubblicazione del nuovo album, il primo della seconda era senza Frusciante, ed anche le date del tour. Italia: Roma e Torino. Guardai i prezzi, chiesi agli amici se qualcuno era interessato, ma costava parecchio, i biglietti andarono a ruba e per cui pensai che mi sarei dovuto limitare ad andare al Palaolimpico, sì, ma restando fuori. Poi però ci fu la svolta: una ragazza su Facebook, che sapeva che abito vicino a Torino e che amo i Red Hot, mi scrisse dicendomi che non poteva venire a sentirli e che aveva tre biglietti. In preda alla felicità cercai comunque di mantenere la calma: ero dai miei zii in quel periodo, e dovetti cercare di contenermi per non far sentire le mie urla di felicità per tutti i nove piani del condominio. Presi il telefono, chiamai Ivan ed il Biondo, tenendo un attimo in attesa quell'anima pia che risponde al nome di Arianna: "Ho la possibilità di avere tre biglietti per i Red hot al prezzo d'acquisto, che fate, venite?" "Boia faus, e ce lo chiedi? Certo che sì". Bene, dopo tre minuti scrissi ad Arianna, mi feci dare i suoi dati per mandarle i soldi ed io le mandai il mio indirizzo. Avevo i biglietti! Al concerto andai poi con i miei due fedeli compagni e colei che allora era la mia ragazza, anche lei sfegatata fan dei Peperoncini, e quel concerto fu memorabile. Tra i tanti bei ricordi che mi legano a quel concerto ce n'è uno che mi emoziona sempre in modo particolare: era già passato metà concerto quando, all'improvviso, inizia un arpeggio inconfondibile. Era Under the bridge, il Biondo da circa un quarto d'ora mi aveva raggiunto, e quando si accorse che stava per cominciare quella canzone mi guardò e mi disse: "E' la tua , Ste!!! E' la tua!!!!" Ci abbracciammo e la cantammo dall'inizio alla fine, tutta, in memoria dei tanti viaggi in pullman contraddistinti dal mio cantarla. 

Questo è il potere della musica, un potere che ho avuto modo di sperimentare con tanti altri artisti, di tanti generi diversi, dal cantautorato (ed ovviamente chi poteva esserci con me a sentire Guccini se non il Biondo?) al metal, dal folk al black, ma che mi è stato svelato, in tutte le sue forme, da loro: Anthony Kiedis, Flea, John Frusciante, Chad Smith. A volte mi sento quasi in colpa a non sentirli più così spesso come facevo in precedenza, ma poi, a conti fatti, almeno duecento passaggi all'anno per le mie orecchie li fanno sempre.

E dato che tutto è partito da questa canzone e da questo video, non potrei chiudere il post con una canzone diversa. E non è che non posso, più che altro non voglio!




Stefano Tortelli

lunedì 27 aprile 2015

Antonio Gramsci, "Nino".

Antonio Gramsci. Filosofo, linguista, letterato, giornalista. E Comunista.




"Basta pensare al Partito Comunista. Basta con i pugni chiusi, la falce ed il martello. Basta con i vecchi slogan. Basta rimpiangere le lotte operaie e studentesche. Basta, perché fintanto che non si ritrova il coraggio di dire con fierezza Sì, sono comunista, ripartendo dal padre del comunismo in Italia e dei suoi insegnamenti, tutto questo resta solo puro folklore". Queste sono le parole che Marino Severini ha usato a Torino, in occasione del concerto dei Gang di inizio marzo, per introdurre uno dei brani che compongono il nuovo album Sangue e cenere. Si intitola Nino questa canzone, dedicata ad Antonio Gramsci, ed è una specie di confidenza, di un dialogo a senso unico, pregno di rabbia, di domande, ma che contiene anche una promessa, una dichiarazione di amore: per Nino, per i suoi insegnamenti, per le caratteristiche peculiari dell'essere comunista, del sentirsi comunista. 

Perché sfortunatamente dopo settant'anni di politica anti-comunista e filo-occidentale in Italia il concetto di comunismo è stato devastato da luoghi comuni, stereotipi, promossi prima dalla DC, poi dai filo-americani, passando per Berlusconi ed arrivando a Renzi. Perché ammetto che quando a fine luglio si concretizzò la chiusura del giornale L'Unità, fondato dallo stesso Gramsci, sottovalutai la portata di quel gesto, ed anzi pensai: "Beh, in questo modo finalmente si smetterà di infangare un giornale che è stato la colonna portante del comunismo fino almeno ai primi anni '90". Ma poi, negli ultimi mesi, ho rivalutato la mia posizione, e mi sono reso conto di come la fine de L'Unità fosse l'ennesimo segnale di come, anziché tentare di riprendere in mano una tradizione meravigliosa, ricca di cultura, di lotte, di ideali, si volesse andare in tutt'altra direzione. Del resto da allora Renzi si è manifestato per quel che è, ovvero in tutto e per tutto un altro democristiano prestato alla politica di oggi che si comporta come quello che, teoricamente, era il suo primo antagonista, fino a riabilitarlo, fino, addirittura, a farlo quasi rimpiangere. Se questo è il futuro che ci aspetta, visto che il presente già di per sé non è roseo, siamo veramente messi malissimo. 

C'era invece chi, originario della Sardegna ma trapiantato in Piemonte, aveva, cent'anni fa, teorizzato "La città futura", reso contemporaneo Marx, sottolineando come sì, la lotta operaia e contadina sono importanti, ma che queste per affermarsi al meglio dovevano appoggiarsi alla cultura, alla storia, agli studi. Ed è proprio questa la peculiarità di Gramsci: lui non parlava di classe operaia, non parlava di contadini, per lui esistevano solo gli sfruttati e gli sfruttatori, e vedeva nella cultura, nello studio, nella conoscenza delle proprie radici e delle proprie storie la base per rendere infallibile una rivoluzione, un'evoluzione, un miglioramento per tutti a scapito di pochi. Gramsci aveva anticipato di 40 anni le considerazioni fatte da Fromm e Chomsky in alcuni loro testi. Tutto questo perché Gramsci, prima di essere un filosofo, un linguista, un critico letterario, uno scrittore, era una persona che aveva un'immensa cultura, una grande conoscenza. Cultura e conoscenza che voleva mettere al servizio del popolo, aggiungendoci però qualcosa di suo: le sue teorie, le sue idee, i suoi ideali. E per un certo periodo riuscì a fare tutto questo: nel 1921, il giorno prima del suo compleanno, fu tra i principali promotori della nascita del Partito Comunista, nel 1926 fu tra i più duri contestatori di Mussolini e del fascismo.. Nel '27 venne incarcerato per le sue idee, per la sua strenua resistenza, per la sua incorruttibilità. Una volta in carcere avrebbe potuto rinnegare le sue idee, avrebbe potuto decidere di porre fine alla sua sofferenza voltando le spalle al comunismo, ai simboli: bastava che abiurasse, come fece Galileo Galilei. Ma lui era un Giordano Bruno, e come lui stesso ebbe a scrivere si rese co-responsabile della sua morte, della sua condanna. Era consapevole, Nino, di essere uno, ma era anche consapevole che stava diventando un simbolo vivente dell'ideale comunista, e che un crimine ancora peggiore della sua ingiusta detenzione era il rinnegare tutto per la sua individuale libertà.

Nino scelse, e scelse di donare la speranza della libertà universale anziché condannare il resto del mondo ma salvare se stesso. Parteggiò e non patteggiò, e nemmeno smise di combattere, continuando a riempire quaderni con i suoi appunti, prima dal carcere e poi dalla clinica nel quale venne ricoverato per l'inesorabile peggioramento delle sue condizioni di salute. Morì, nel '37, ma come tutte le morti dei grandi eroi non fu vana. Perché fino all'ultimo seppe dare una direzione, seppe indicare la via, seppe guidare chi silenziosamente si sentiva comunista verso la Rossa Primavera, che cominciò a manifestarsi in tutto il suo splendore dopo l'Armistizio. 

Però Nino è poco ricordato, quasi mai insegnato, se non all'università, ma anche nel mondo accademico lo si incontra negli insegnamenti "di settore", e facilmente lo si ritrova nei testi riguardanti la linguistica, e specialmente la dialettologia, piuttosto che in quelli di filosofia o di storia contemporanea. E probabilmente anche in questo si denota l'influenza catto-capitalista che hanno caratterizzato la storia italiana dal dopoguerra ad oggi. Di Gramsci si parla poco, ed è quindi inevitabile ritrovarsi circondati da persone che non sanno il significato del 25 aprile, di altre che vedono in tutti i partigiani dei banditi, di altre ancora per le quali i comunisti erano mangia-bambini e ladri di terreni. Perché ovviamente per un certo tipo di propaganda era più comodo mostrare quel che è stato il comunismo nell'Est Europa, dove le vergogne verificatesi in nome di un ideale sono state strumentalizzate al massimo, senza spiegare il perché, senza dire a cosa erano dovute. Una vergogna è sempre una vergogna, sia chiaro, ma la vergogna va raccontata dall'inizio alla fine e non soltanto nel momento della sua manifestazione. E la vera vergogna resta l'ignoranza, o meglio l'indifferenza, di fronte a Gramsci, di fronte a Matteotti, di fronte a Turati, di fronte a tutti i partigiani caduti per la libertà, di fronte alla naturale evoluzione del fascismo, ovvero il capitalismo. 

Ma queste sono storie che non si può cercare su alcun libro, queste sono storie che bisogna imparare analizzando la storia, studiando, informandosi. Per non commettere l'errore di grandi compagni che hanno voluto rendere settoriale, dimenticandosi di Gramsci, le varie lotte, finendo ovviamente per perderle il giorno dopo averle vinte. Del resto, questo è il sistema capitalistico ed utilitaristico: nel momento in cui si ottiene lo scopo per cui ci si è uniti è inutile rimanere un corpo unico, a quel punto meglio prendere strade differenti, che non si sa mai che il mio contributo ad una lotta che non sento mia possa recarmi qualche danno. 

Mi dispiace Nino, ed anche io voglio chiederti scusa in nome di chi presto ti ha dimenticato, di chi una volta raggiunto il suo scopo, servendosi dell'ideale, l'ha abbandonato, "gettando la bandiera in un fosso". Ed anche io, Nino, voglio darti la mia parola. Perché io non ti dimentico, ed anzi sempre più approfondirò la conoscenza delle tue opere, di chi in qualche modo si è ispirato a te, di chi continua a portare avanti le tue istanze.

Ma oggi Nino ti do la mia parola,
quella di chi nel pane ci mette tutto il sole,
quella che canta con la città futura,
e corre fino al vento,
oltre le sbarre, oltre i cancelli, oltre queste mura.

Comunista è chi ferma la mano che alza il bastone,
comunista è la terra che c'è oltre ogni nazione,
comunista non è che un sentimento, è Rivoluzione
comunista ora e sempre per l'unità..
Comunista... Comunista... 





Stefano Tortelli

lunedì 23 febbraio 2015

Canzone della sera #6 - A mia nonna


Era un lunedì 23 anche quella mattina in cui, con mio zio, stavo andando in comune ed alle pompe funebri per chiudere le ultime pratiche relative a ciò che la sera prima era successo. Spesso mi chiedo come facciano i condannati a morte ad apparire tranquilli mentre vanno incontro alla morte, che sia un patibolo, una sedia elettrica, una camera a gas. Penso non sia un condizione mentale tanto diversa da quella che ti pervade quando devi accingerti a firmare documenti, a telefonare a destra e manca, a scegliere la foto per il necrologio e la tomba, a trovare una frase per il "ricordino" quando perdi una persona fondamentale della tua vita. 

Mi ricordo bene la sera prima di quel lunedì 23: erano quasi le 9, stavo scendendo da mia nonna e mio zio, stava per cominciare la partita e mi sarei seduto con mio zio a guardarla. Era un rito del weekend, che, sebbene in altre forme, continua tutt'ora. Solo che c'era nell'aria qualcosa di diverso. Sarà perché il giorno prima aveva nevicato per la prima volta, anticipando di fatto di un mese l'avvento dell'inverno, sarà perché da un po' i weekend passati in famiglia avevano un sapore agrodolce, sarà perché ormai s'era persa la speranza. Del resto dovevo immaginarmelo, mentre ero con lei, nella sua camera, con lei distesa sul letto, già una volta l'anima aveva deciso di lasciare il corpo e farsi un giro, per poi tornare appena in tempo. Probabilmente ha voluto fare un sopralluogo, e quando si è resa conto che, sebbene ci fossi io lì, mancavano mia madre e zio, aveva deciso di procrastinare la fuga definitiva di qualche ora. Scesi la prima volta, tornai su, e mentre ancora ero sulle scale mio zio chiamò di sopra: Stefano, manda giù mamma, nonna sta male. Scendemmo entrambi, e mentre zio stava chiamando il 118 io e mamma eravamo al capezzale di nonna. Respirava malissimo, il battito era sempre più flebile, ma stranamente era lucida, dopo che, da ormai due settimane, non riconosceva più nessuno. Nemmeno me, che son stato l'ultima persona che gli era rimasta nella memoria. Magari non riconosceva mamma, non riconosceva zio, non riconosceva gli altri. Ma a mamma, a zio, agli altri chiedeva di me. "Dov'è Stefano?" "Come sta Stefano?" "E' passato Stefano oggi?". Quella sera invece ci riconobbe tutti e tre: sua figlia Luciana, suo figlio Egisto, suo nipote Stefano. Zio mise giù il telefono, entrò anche lui in stanza, ed a quel punto cominciò a lasciarsi andare. Quando racconto o scrivo di questo momento sento sempre una pressione sul gomito, e del resto è lì che è stata la sua mano destra per l'ultima volta. Mentre le accarezzavo il viso lei accarezzava il mio braccio, fino ad arrivare al gomito, per poi stringerlo. Come a dirmi di stare tranquillo, come a dirmi che sì, lei se ne stava andando, ma ci sarebbe sempre stata. In quell'accarezzare e stringere il mio braccio mi aveva trasmesso la sua ultima energia vitale, che automaticamente utilizzai per far capire a mia madre che era finita, che non aveva più senso procedere con inutili tentativi di rianimarla, che bisognava esser forti ed accettare la sconfitta. Il rilevatore del battito cardiaco aveva ormai smesso di avere una sua utilità quando tutti e tre ci stringemmo attorno al letto, ed ecco che, dopo quel momento di cordoglio, si attivò il meccanismo sopra citato: c'erano mille cose da fare, mille persone da avvertire, mille questioni da organizzare. Salii le scale ed avvisai mio padre, poi presi il cellulare di mia madre, l'agenda, e cominciai a chiamare i parenti, le colleghe di mamma, la mia ragazza, alcuni amici. Mio zio chiamò le pompe funebri, il medico e l'infermiera che veniva a casa per le medicazioni giornaliere, mentre intanto mio padre stava vicino a mia madre, che di lì a poco si sarebbe trovata anche lei nella condizione in cui già ci eravamo trovati ad essere zio ed io. Arrivarono gli zii di Torino, le pompe funebri, alcuni vicini, Caterina (l'infermiera). E poi il buio.

Dal momento di buio al funerale c'è solo un ricordo, ed è quello da cui il post è partito. Quei cinque chilometri senza dire una parola, in macchina con mio zio e la radio accesa. Cinque chilometri per cinque minuti per una canzone. Era un lunedì 23 allora, è un lunedì 23 oggi, e quella canzone si è ripresentata dalle casse dell'auto ed ha fatto riaffiorare per l'ennesima volta quel flash nel grigiore di quel mattino di novembre ancora immerso nella nebbia. "Un giorno credi di esser giusto e di essere un grande uomo, in un altro ti svegli e devi ricominciare da zero". Probabilmente nonna si era impossessata delle radio-frequenze ed ha voluto farmi arrivare un ultimo messaggio. Quel mattino, ma soprattutto quella sera, non stavo ricominciando da zero, ma ero diventato un uomo, ero diventato ciò che lei sognava che io potessi essere. Desiderava vivere fino al giorno in cui mi fossi laureato, morì prima che potessi dare il primo esame, ma fu lei, accarezzandomi il braccio e lasciando indelebile la sua firma sul mio gomito, a conferirmi la laurea di adulto, di persona in grado di gestire anche le situazioni peggiori che possono verificarsi nell'arco di una vita e di lottare per ciò che più amo, fino all'ultimo, finché ce n'è. Mi ha riservato la sua ultima carezza, il suo ultimo sguardo, ed a tutti noi, per l'ennesima volta, ha insegnato qualcosa. 

Ti chiamavi Angela, e tutto è tranne che un caso. Ti chiamavano Angela, e per me sei un angelo. Ma soprattutto eri, sei e sempre sarai mia nonna. Grazie, ancora una volta.



Stefano Tortelli

domenica 8 febbraio 2015

Fino all'ultima nota di vita - Andrea Parodi






Stasera ho deciso di farmi del male, influenzato anche da uno dei miei contatti di Facebook che ha deciso di votare questa serata ad Andrea Parodi, voce storica dei Tazenda e dell'orgoglio sardo. 

Fabrizio De André, parlando con Andrea della Sardegna, terra che l'aveva adottato e che per Parodi era la casa natia, sostenne che non erano stati loro a scegliere quella grande isola come propria terra, ma la Sardegna a scegliere di esserlo, di manifestarsi in ogni momento, di far sentire la propria presenza come se, oltre ad averla sotto ai piedi, la si avesse totalmente attorno, sentendola respirare, avvicinarsi accarezzandoli. Ed è un discorso che si può mutuare, che si può applicare a certe voci, a certe personalità della musica. La domanda che si suol usare per scoprire i gusti musicali di una persona è: "Che musica ascolti?"; ma forse ci sopravvalutiamo, forse releghiamo ad una dimensione razionale, e quindi delle scelte, quella che invece è una realtà propria dell'inconscio, delle emozioni, dell'irrazionale. E' la musica che si fa ascoltare, e sono certi artisti che decidono di far sì che si sia in grado di rimanerne affascinati. Questo lo si può notare quando di un artista ci si innamora dopo tanto, tanto tempo che già lo si conosce. Cosa è cambiato rispetto a prima? Cosa ha fatto sì che se fino ad un dato momento è stato per noi inascoltabile, o al più siamo stati nei suoi confronti indifferenti, tutto ad un tratto ci ha totalmente travolti, legando la nostra esistenza a doppio filo con quelle note, quelle parole, quelle voci? 

I Tazenda li incontrai per la prima volta con Bertoli nella sua famosissima Spunta la luna dal monte, e sì, non mi dispiaceva come canzone, ma non è che mi colpì particolarmente (lo stesso discorso lo posso fare per Ivan Graziani, che se prima quasi lo consideravo insopportabile, tutto ad un tratto è diventato uno dei cantautori a cui più sono legato): innanzi tutto non capivo cosa cantassero, ma anche il modo in cui cantavano la parte in sardo non mi lasciava nulla di particolare. Ecco, forse ho toccato il nocciolo della questione con quel verbo "lasciare", che va in un certo senso a confermare la mia ipotesi sul decidere chi è passivo e chi attivo nella musica. E' la musica, di fatto, che lascia a noi qualcosa, non siamo noi che lasciamo qualcosa a lei. E' Lei che si concede a noi, è Lei che ci dona delle emozioni: che sia perché la stiamo ascoltando, che sia perché la stiamo creando, che sia perché la stiamo dedicando, che sia perché la stiamo suonando o cantando. E probabilmente è Lei a decidere quando farlo.

Andrea Parodi ha dedicato la sua vita alla musica ed alla sua terra, ed implicitamente ha dedicato la sua vita a tutti quelli che si sono innamorati della sua persona, della sua arte e dell'uso che ha fatto di quest'ultima. Come disse nell'introduzione alla sua versione di Hotel Supramonte (in occasione di un Tributo a De André tenutosi a Cagliari) la sua arte è stata fortemente influenzata dalla Sardegna, e non l'ha fatto solamente nell'utilizzo della lingua sarda per dar un senso alla sua meravigliosa voce, ma anche cantandone le tradizioni, la lotta, la cultura, le canzoni tradizionali.

L'ha fatto giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Dal 1978, anno in cui è entrato a far parte della band Coro degli Angeli fino al 2006, anno della sua morte ha, prima in Sardegna e poi nell'Italia intera ed in Europa, fatto conoscere un popolo, una terra, una realtà troppo poco considerata e rispettata, massacrata da un cancro che risponde al nome di "profitto ad ogni costo", al nome di "capitalismo sfrenato", al nome di "fanculo le tradizioni, è il soldo che comanda". E quanto possono essere nella storia di una società millenaria come quella sarda sessant'anni, se paragonata alla vita di un uomo? Un anno!? 

Il cancro è una brutta bestia, e chi ha avuto parenti morti di questa malattia ben lo sa. Si nasconde subdolamente in un corpo apparentemente sano, sembra possa essere un disturbo da nulla, causato magari dalla nostra disattenzione, ma poi all'improvviso si manifesta, e se è maligno, se colpisce un organo complicato da curare non c'è cura che tenga. Qualche mese, massimo un anno e ti porta via, distruggendoti, sconvolgendo il tuo fisico, il tuo aspetto, e se manca una certa forza interiore anche la mente, la lucidità. Andrea è stato, anche in questo, come la sua terra. Fino all'ultimo, nonostante un cancro estremamente distruttivo che l'ha di fatto debilitato totalmente, facendolo sembrare un anziano quando invece era ancora nello splendore degli anni, lui è rimasto lucido, lui ha cercato di combattere, lui ha sperato di poter andare avanti. 

Quando per la prima volta vidi questo video piansi tutte le lacrime che avevo per tanto tempo tenuto dentro di me, e benché non rappresentò l'unico elemento responsabile di quell'enorme commozione in quel periodo, di certo fu la mano che aprì il rubinetto arrugginito dei miei occhi. Il concerto dedicato a De André che prima avevo citato è datato 2005, lui aveva ancora i suoi lunghissimi capelli appena tendenti al grigio ed una folta barba, stava per cantare la canzone che ha legato Faber alla Sardegna, e la stava per cantare per ricordare Faber stesso, che ai tempi ci aveva lasciato già da sei anni a causa di un tumore. L'ultimo concerto di Andrea Parodi invece è di un anno dopo: autunno 2006, un viso prosciugato e glabro, un corpo chiaramente sofferente, una testa sulla quale si intravedono pochi capelli che cercano di ricrescere dopo la chemioterapia. Quel che non cambia è la voce, quel che non cambia è l'utilizzo che ne fa: perché se il 20 luglio 2005 lui stava cantando omaggiando il passato, il 22 settembre del 2006 canta per il futuro, canta per la sua compagna di vita, canta per il sangue del suo sangue, canta per la sua terra e per il suo popolo. Dona la sua voce per l'ultima volta a chi e ciò che più ama. 

Salutando il pubblico, ben sapendo che la Morte sarebbe andato a trovarlo per portarlo altrove, non disse addio, ma arrivederci. E con sua moglie Valentina accanto a lui su quel palco che già aveva a lui donato quattro figli, urlò quello che per me è il più bell'inno alla vita che io abbia mai sentito: "Arrivederci!! Magari con un prossimo figlio"...

Il 17 ottobre dello stesso anno, nemmeno un mese dopo la sua ultima esibizione, Andrea è andato via, ma in quella sua ultima interpretazione di No potho reposare è rimasto, di fatto, immortale, poiché in quelle ultime parole cantate ha riassunto la sua vita, ha riassunto il suo essere Sardo, il suo essere musicista. Lui ha dato fino all'ultimo, ha emozionato fino all'ultimo, ha amato fino all'ultimo. Ha vissuto, fino all'ultimo. Ed ha lasciato tantissimo a tutti noi.

Grazie Andrea, ci sarebbe estremamente bisogno di milioni di Uomini come te...





Stefano Tortelli


lunedì 26 gennaio 2015

Goodbye Demis, goodbye.






Stasera è decisamente difficile scegliere quale argomento affrontare per primo, tra la commemorazione della Shoah, le elezioni in Grecia, la morte di Dacia Valent (più per quel che ha suscitato che per il fatto in sé) e quella di Demis Roussos. Appena ho finito di fare lezione ai miei due studenti indiani sono salito in macchina, aspettando che la mia amica Sara uscisse dal laboratorio di falegnameria per fare due chiacchiere prima di andare alle rispettive case. Avevo da poco parlato con il direttore della scuola per sistemare gli ultimi dettagli riguardanti il progetto che sto seguendo e, visto che era ancora presto, ho deciso di telefonare a mia madre per informarla sia del colloquio con il dirigente sia delle mie ancora cagionevoli condizioni di salute. Stavo già pensando, nel mentre, a cosa scrivere riguardo la persecuzione degli Ebrei durante la Seconda guerra mondiale e la vittoria di Tsipras in Grecia, ma un'ultim'ora, direttamente comunicatami al telefono da mia madre ha soffiato via dalla scrivania della mia mente gli appunti riguardanti i sopracitati argomenti. Perché proprio sul finire della telefonata mi dice, con voce triste: "Ah, Ste, è morto Demis". "Chi?" "Demis Roussos". 

Sul momento, preso com'ero dal cercare di resistere ancora un po' alla bronchite e dagli altri pensieri mi sono lasciato relativamente scivolare addosso la cosa. Perché sì, lo ascolto, perché sì, ammiro la sua voce inconfondibile ed inimitabile, ma non è propriamente una colonna portante della mia vita musicale. Tornato a casa, però, mi son reso conto della portata enorme di ciò che era successo: non tanto a livello oggettivo, ma soggettivo. E vi dirò, un brivido di terrore mi ha percorso la schiena quando ho sentito dire da mia madre "E' morto...". Perché ero conscio che al novantanove per cento si stava parlando di un artista del mondo pentagrammato, e, benché la questione anagrafica sia l'ultima da tenere in considerazione in un universo fatto di eccessi e di vizi come quello musicale, la paura che si stesse parlando di Guccini o Cohen era concreta. Quella manifestazione di estremo timore mi ha fatto così capire lo stato d'animo di mia madre, mi ha permesso di immedesimarmi, di entrare nella sua testa. 

Forse lei ed io viviamo la musica in modo fin troppo viscerale, ma sarebbe alquanto ingiusto, limitativo e superficiale definire ciò in questo modo. Perché vedete, Guccini e Cohen non vanno a costituire un parallelo con Roussos soltanto per ciò che sono per me (anche perché sono fondamentali anche per mia madre); vanno a costituire un parallelo per un elemento ancora più profondo, che li rende, insieme a pochi altri ancora in vita (Pink Floyd su tutti) una sorta di eredità esistente tra lei e me. E per lei, Roussos, era l'eredità musicale dei suoi genitori, era i primi vinili comprati dal "su' babbo" per lei, era i commenti con mia nonna sulla beltà di Demis, era il cantarlo con entrambi. E prima poteva essere un gioco come tanti, poi è diventato passione, infine qualcosa di interiore, in grado di caratterizzare un ricordo di un momento, di un periodo, fino ad esserlo di una vita intera. 

Mi ha fatto tenerezza, oggi, vederla triste, in cerca di un abbraccio, e sentirla rimproverarmi con la voce tremolante quando, mentre era tra le mie braccia, le ho intonato We shall dance imitando con lei un ballo. Ed oltre a farmi tenerezza, commuovendo anche me, ha per l'ennesima volta palesato il fatto che certi cerchi sono bel lungi dal chiudersi: non è il cadere di un simbolo che annulla la sua essenza, il suo esserci stato e la possibilità che possa esserci ancora. E quindi non è con la morte di Demis Roussos che certi ricordi svaniscono. Anzi: in certe situazioni, soprattutto quando si parla di artisti che è un po' di tempo che si sono ritirati o che hanno caratterizzato un periodo della propria vita ormai lontano, la "morte del simbolo" fa in modo che tutto riaffiori. In modo più intenso, con un bagaglio di emozioni immenso. Ma con ancora tanto spazio, in questa valigia portatrice di ricordi, sensazioni, sentimenti. Basta trovare il modo di riempirla, e credo che oggi, insieme, un nuovo souvenir made in Roussos si sia aggiunto a questo bagaglio senza fondo.

Ps: Demis era un compagno greco, ha vissuto nel suo Paese la dittatura dei colonnelli ed è stato più volte censurato per il suo stile e per i suoi testi. Strano, anzi bastardo il destino che ha voluto proibirgli di veder germogliare il seme della speranza nella sua terra. Ma da una parte, forse, ha un significato recondito anche questo: forse, finalmente, il vecchio combattente Demis sa di poter riposare in pace, con la sua amata terra pronta ad indicare la strada all'Europa intera... tremila anni dopo...




Stefano Tortelli