Racconti, canzoni, riflessioni sull'attualità e sulla storia, su musica e film, su personaggi, società, filosofia...
La mia quotidianità cerebrale da condividere con chi vuole leggere.. e che magari un giorno ascolterà o vedrà.
Il tutto con estrema passione, senza filtro, bandendo ogni moderazione.
Mattina presto, inizio ottobre, gli sguardi dei passanti ancora alternano immagini oniriche alla realtà. Il tram si ferma e mi permette di sfuggire per un po' ai primi freddi; cerco posto svogliatamente, non lo trovo, mi appoggio allo scheletro del vagone, intento a sciogliere i nodi delle cuffie che qualche folletto dispettoso ogni notte accuraramente tesse con le sue tanto piccole quanto abili dita.
Fa freddo ma c'è il sole, i passeggeri cercano nel giornale e nel cellulare un po' di compagnia e qualche emozione. Premo play e mi abbandono alla musica, mi guardo attorno e tengo il tempo ticchettando su una delle sbarre del tram.
All'improvviso vedo lei, qualche metro più in là, raccolta nei suoi capelli rossi e nel giubbotto dello stesso colore. Mi vede, distogliamo lo sguardo, ma non passa una canzone che siamo di nuovo lì, a metà strada. I nostri occhi di incontrano tra la madre col passeggino e l'impiegato che guarda l'orologio sbuffando periodicamente. Noto il filo degli auricolari, abilmente nascosti dalla sua chioma color tramonto, vedo il suo piede che batte sul pavimento e va a ritmo con le mie dita... chissà se stiamo ascoltando la stessa canzone!? Sorrido pensandoci, ed intanto lei ancora non scende. Andrà dove vado io?
Mancano sempre meno fermate, lei è impassibile al suo posto, io mi sposto ma ci vediamo ancora. E ancora cinque fermate, ho il 20% di possibilità, non male. Scenderemo insieme e forse faremo qualche passo insieme... ma non è così, si avvicina alle porte, prenota la fermata. Il mio sguardo si aggrappa ad ogni suo gesto, quasi a supplicarla. Non vorrebbe dirle addio. Ma è un tentativo vano. Il tram si ferma, Torino si riapre a noi e lei è già per strada.
La cerco per un'ultima volta, si gira per attraversare e per commiato gli sguardi si incrociano per lasciarsi in un attimo.
Sarà per un'altra vita, pendolare dai capelli color del tramonto...
Ma se ci penso, dopo tutto, un breve tratto del lungo percorso che si chiama Vita l'abbiamo condiviso.
In occasione del Premio Tenco del 1997, la grande Fernanda Pivano, premiando Fabrizio De André, disse, chiudendo il suo discorso, che se effettivamente c'è una correlazione tra l'opera di De André e quella di Bob Dylan, anziché sostenere che De André sia il Dylan italiano bisognerebbe dire che è Bob Dylan ad essere il Fabrizio americano. La Pivano ha sicuramente ecceduto in campanilismo in quell'occasione, del resto Bob Dylan è emerso prima di Fabrizio, e Fabrizio ha attinto a piene mani dallo stile di Bob per i suoi album degli anni '70, perciò, se proprio si vuol far valere questo paragone, è De André ad essere il Dylan italiano. E comunque non sono totalmente d'accordo, secondo me il nostro Bob Dylan è Guccini, De André è più il nostro Cohen, come, secondo me, Bertoli è il nostro Pete Seeger.
C'è però, secondo me, un De André straniero, un artista che è "arrivato" dopo Faber e che, con il passare degli anni, ha palesato totalmente la sua vena cantautorale, prima con il suo gruppo e poi proseguendo da solo la sua strada. Ci ho messo molto tempo ad accorgermene, un po' meno ad accertarmene, ma il paragone, sia nei contenuti sia nello stile con il quale cerca di esporli (ovviamente al netto della differenza del genere musicale proposto), regge perfettamente, anche prendendo in considerazione l'estrazione sociale dei due soggetti in questione.
Sto, tanto per cambiare, parlando di Roger Waters. Tra la miriade di artisti che dall'estero sono giunti fino a noi attraverso le radio, i vinili ed i tour (per poi passare a Youtube, i cd ed i film al cinema, senza però far decadere i primi tre elementi) l'ex leader dei Pink Floyd è sicuramente quello che più può rappresentare una sorta di De André d'Oltremanica. Entrambi figli della borghesia degli anni '40, De André e Waters hanno in gioventù compiuto cammini simili, ed anche i loro primi album con i rispettivi stili (ovviamente parlando di Waters faccio riferimento alla prima produzione dei Pink Floyd) sono sia innovativi sia acerbi, con uno stile di scrittura abbastanza semplice, nel caso di Fabrizio probabilmente per riuscire a raggiungere nell'immediato gli ascoltatori e nel caso di Waters per conciliare il rock psichedelico ai testi, senza rischiare di perdere il significato ma rispettando una metrica un po' incasinata. Inoltre Waters, facendo parte di una band, doveva anche andare incontro alle esigenze degli altri componenti (e, tra l'altro, nei primissimi album dei Pink Floyd la penna principale era quella di Barrett e non la sua). Con il passare degli anni, però, gli stili dei due artisti sono cambiati e, spesso, assomigliati parecchio: l'utilizzo del concept album, la ricchezza di metafore e il linguaggio spesso criptico ma assolutamente efficace sono tutti elementi che li accomunano, e forse, proprio nei loro concept album più apprezzati e di successo (rispettivamente Storia di un impiegato e The Wall) la loro vicinanza diventa clamorosamente palese. Perché le strutture dei due album sono decisamente simili, i percorsi anche, ed anche a livello musicale, non tanto nei suoni ma nelle atmosfere che puntano a creare, ci sono grandi analogie. Penso all'ultima canzone di Storia di un impiegato, Nella mia ora di libertà, ed a Comfortably numb e le tracce seguenti: due misti di rassegnazione ma anche di speranza, di sconfitta ma anche di ricerca di riscossa, ed una chiusura che però sa anche di apertura, di un urlo silenzioso comune che fa sapere al mondo che "non finisce qui". Outside the wall è questo, come lo è l'ideale rivincita dei prigionieri nei confronti dei secondini durante l'ora di libertà.
E' però secondo me ancora più vicino a Storia di un impiegato l'ultimo disco di Waters con i Pink Floyd: The Final Cut. Un album meraviglioso ma inviso ai fans dei Pink Floyd, che lo vedono come il simbolo della fine dell'amore tra Waters, Gilmour, Mason e Wright (che già era andato via prima delle registrazioni), ma che è forse il più alto punto della storia floydiana per quanto riguarda i testi. Inoltre in quest'album Waters fa emergere totalmente e spudoratamente il suo punto di vista politico, la sua voglia di non stare più al gioco, il suo desiderio di uscire dal muro ed urlare al mondo come la pensa. Ed oltre tutto lo urla nella maniera che meglio conosce: scrivendo dei testi estremamente efficaci, cantando in modo sublime (il miglior Waters al microfono di tutta la sua carriera) e collegandosi allo stile musicale di quel The Wall uscito cinque anni prima che aveva stravolto totalmente, facendolo ampiamente evolvere, il modo di comporre e suonare dei Pink Floyd. Brani come The post war dream, Your possible pasts, The Fletcher memorial home e The final cut hanno parecchi punti di contatto con La bomba in testa, Al ballo mascherato e Verranno a chiederti del nostro amore, tanto che ci si potrebbe quasi domandare se Waters conoscesse Storia di un impiegato. E soprattutto le similitudini tra The Fletcher memorial home e Al ballo mascherato e The final cut e Verranno a chiederti del nostro amore sono lampanti e disarmanti. Perché nel primo caso, se Waters si immagina di concentrare in una singola casa tutti i capitalisti ed i potenti della terra, far loro vivere una sorta di Grande fratello (nell'orwelliana accezione) che li mostri ancora in possesso del potere e poi attuare una soluzione finale, De André concentra in una festa tutte le figure che per due millenni hanno contraddistinto e rafforzato il potere per poi farle saltare in aria; nel secondo caso, invece, ci si trova di fronte a due storie d'amore finite proprio a causa della militanza contro il potere costituito, e ci si rivolge all'oggetto dell'amore perduto con frasi estremamente simili, in alcuni casi dubbiose (in Verranno a chiederti del nostro amore il protagonista si chiede come lei lo dipingerà davanti ai microfoni, mentre in The final cut l'ipotetico io chiede alla sua lei se venderà la loro storia ai giornali), e la presa di coscienza in un certo senso che il sentimento d'amore non cesserà di esistere (sebbene in De André questo avvenga in Nella mia ora di libertà).
Waters ha poi, dopo The Final Cut, continuato, nella sua carriera da solista, a percorrere la strada dei concept album e della critica sociale; De André ha fatto la stessa cosa a più riprese, talvolta con i concept album (L'Indiano, Rimini), talvolta con dischi che presentano tracklist con un filo conduttore meno palese (Vol.8, Le Nuvole ed Anime salve). E Waters, oltre tutto, ha continuato a portare in giro il suo manifesto più grande, quel The Wall che ha riproposto a Berlino in occasione della caduta del Muro, che ha portato più volte in giro negli stadi e nei palazzetti di tutto il mondo e che da ieri ora è al cinema con il film documentario che tratta sia la storia dell'ultimo tour di The Wall sia il pensiero politico-filosofico di Waters. De André ha invece probabilmente lasciato, nel peggiore dei modi, molto lavoro in sospeso, ma fino all'ultimo ha continuato a portare il suo messaggio in giro per l'Italia, consegnandoci poi come testamento tutta la sua produzione, estremamente attuale, bella ed utile.
Per concludere, è necessaria anche una chiosa legata ad un ultimo elemento che li accomuna e che, però, non è oggettivo ma soggettivo. De André e Waters sono gli unici due artisti in grado di commuovermi, smuovermi ed emozionarmi con un'intensità disarmante, in grado di provocarmi lucciconi negli occhi sia per l'emozione legata a certi pezzi sia per lo stupore nell'ascoltare e riascoltare certe frasi che son diamanti di valore immenso ma anche, nel mondo di De André, un letame con il quale coltivare nuove idee, nuovi desideri di lotta, riscossa e ribellione.
Sicuramente non vivrò mai un concerto così intenso e ricco di emozioni come quello di Roger Waters del 28 luglio 2013 a Roma, ma sono altrettanto sicuro che soltanto un altro artista avrebbe potuto eguagliarlo. Fabrizio De André.
Ieri sono tornato in Piemonte, tra i campi di granturco, dopo aver passato qualche giorno in Toscana tra i castagni. In Garfagnana, tra le colline delle Alpi Apuane, ritrovo le mie radici, forti e vive come quelle dei vecchi castagni che rigogliosi crescono nei boschi che circondano il piccolo borgo nel quale la mia famiglia paterna è nata e cresciuta, sebbene mia nonna e mio nonno si innamorarono a Torino per via di numerose coincidenze, ma questa è un'altra storia...
Casatico, frazione di Camporgiano, è all'incirca a metà strada tra Lucca ed Aulla: ad ovest la Lunigiana, a sud-est la Versilia. Al centro la Garfagnana. Ed a pochi chilometri, in una direzione o nell'altra, ci sono alcuni luoghi che sono diventati tristemente famosi ai tempi della Linea gotica, Stazzema e Vinca su tutti. Ma se la prima località è più o meno conosciuta da tutti, a causa del film di Spike Lee e delle celebrazioni che almeno fino a qualche anno fa hanno avuto una forte cassa di risonanza a livello mediatico (a ragion veduta, dato che vennero massacrate e violentate cinquecentosessanta persone, di cui 130 bambini, dalle SS che stavano ripiegando verso nord), Vinca è pressoché sconosciuta alla maggior parte delle persone. E c'è modo e modo per avere modo di conoscere una nuova storia: c'è chi sfoglia enciclopedie alternative, chi si affida a siti internet di settore, chi ai film.. io, nonostante abbia le mie radici a circa quaranta chilometri da Vinca, ho conosciuto i fatti del 24 agosto 1944 grazie all'album che meglio di tutti racconta la storia della seconda guerra mondiale: Un biglietto del tram degli Stormy Six.
Un biglietto del tram è il classico album progressive italiano: un concept, che segue un filo conduttore il quale lega storie, luoghi, ma soprattutto testi e musiche. Nonostante manchi un tema musicale ricorrente nelle diverse tracce, il fatto che l'album in questione sia un concept è facilmente intuibile dai titoli delle canzoni: sono nomi di persone, di località e di realtà che hanno avuto una valenza enorme durante la seconda guerra mondiale, ed in particolare durante la resistenza europea al nazi-fascismo: Dante Di Nanni e Gianfranco Mattei, Stalingrado e Vinca, la fabbrica ed il tram che porta a Piazzale Loreto. Come ogni storia, Un biglietto del tram ha un inizio, uno svolgimento ed una fine. E l'inizio è ad appannaggio di due canzoni che in realtà danno vita ad una suite: questo perché si è voluto dare una continuità, un senso di unità, di correlazione, di un unico inizio benché collocato in due nazioni e due realtà ben diverse. Perché abbiamo nella prima parte il racconto dell'assedio spezzato di Stalingrado, la vittoria dell'Armata Rossa contro il contingente nazi-fascista inviato in Russia, l'inizio della fine dei regimi di estrema destra; mentre nella seconda parte è raccontato l'inizio della Resistenza: prima del governo Badoglio, prima dell'Armistizio, prima della corsa alle montagne e della nascita delle Brigate di Liberazione, la resistenza ha cominciato a fermentare nelle fabbriche, grazie agli scioperi di Torino, Milano, Genova e di tutte le grandi città italiane. Ed infatti gli ultimi versi di Stalingrado, prima dello strumentale atto a legare la prima canzone a La fabbrica, recitano "Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa, d'ora in poi troverà Stalingrado in ogni città". E le nostre prime Stalingrado furono proprio nelle grandi città industriali del nord-Italia, e famoso (e citato nella seconda canzone) è lo sciopero alla FIAT di Torino, quando centinaia di migliaia di lavoratori scioperarono e si rivoltarono alle camicie nere mandate a reprimere i manifestanti. "E come a Stalingrado i nazisti son crollati, alla preda rossa in sciopero i fascisti son crollati"...
A scombinare però i piani della Resistenza, dei liberatori della patria, fu l'invasione del Sud Italia degli anglo-americani. La loro descrizione lascia ben poco all'immaginazione: la vana speranza di liberazione dal nazi-fascismo, la falsa promessa di una rinascita dell'Italia intera è racchiusa in tavolette di cioccolato che hanno solo il sapore di libertà. Ma la verità è Anzio, è l'Abbazia di Montecassino, è la non volontà di interferire troppo con i partner economici italo-tedeschi frenando l'avanzata e permettendo ai nazisti di riprendere Roma... Perché ok liberare l'Italia, ma prima lasciamo che i nazi-fascisti facciano fuori un po' di comunisti, che non si sa mai...
Arriva l'8 settembre, lo scenario politico nazionale cambia totalmente, ma ciò che è allucinante è che non solo l'Italia è divisa in due tra fascisti e partigiani. Ad essere divisi tra fascisti e partigiani sono tutti i comuni e tutte le città d'Italia, tanto da dar vita a scontri fratricidi, a faide, a rappresaglie spesso dettate non da motivi politici ma da motivi personali. Da una parte e dall'altra. Perché come c'erano camicie nere buone (ma sicuramente un po' ingenue), c'erano anche partigiani che volevano approfittare della situazione caotica per perseguire i propri interessi.
E quindi eccoci a Vinca, ad una delle tante rappresaglie dei nazi-fascisti contro i partigiani, ad uno di quegli eccidi che sono passati alla storia per la loro efferatezza, per la loro crudeltà. "Fanno tiro a segno, cani macellai, ma che bella mira, non la sbaglian mai, non la sbaglian mai". Funzionava così nel biennio '43-'45: i partigiani combattevano per la libertà, si rifugiavano nei boschi per non mettere in pericolo le famiglie, ma c'era sempre qualche fascista pronto a dire chi era nella brigata e dove vivevano i suoi figli, e subito le SS o i fascisti arrivavano per la rappresaglia. Dieci a uno, se andava bene... a Vinca morirono in 170 per l'assalto ad un camion...
I luoghi spesso diventano famosi in base a chi vi è nato, vissuto, morto: Vinci non sarebbe che uno dei tanti paesi della Toscana non fosse stato per Leonardo... Borgo San Paolo ha un'eco particolare per i cultori della Resistenza grazie a Dante Di Nanni, del quale ampiamente parlai in un mio post precedente (accompagnato oltre tutto dalla canzone di quest'album). A lui è stata dedicata questa canzone, di lui è raccontata la storia, ma sostanzialmente nella figura di Dante Di Nanni è racchiusa l'essenza di ogni partigiano comunista morto per la libertà, per la propria patria. Ogni singolo partigiano caduto non è caduto invano, ogni partigiano morto non è morto veramente, perché nel suo sacrificio, nell'esempio che ha dato ad altri giovani in Italia e nel mondo (la nostra Resistenza è invidiata da tutti gli Stati che hanno conosciuto l'egemonia fascista, in Europa e non solo...) risiede il suo essere immortale, il suo essere ancora presente per le strade dei luoghi che l'han visto lottare, vivere, resistere e morire in nome della nostra libertà.
La seconda figura raccontata è quella di Gianfranco Mattei, ebreo e comunista, professore di chimica che diede appoggio alle brigate partigiane romane prima come fabbricante di ordigni esplosivi ed in seguito come esecutore materiale di azioni contro i nazi-fascisti. E non è un pezzo superfluo all'interno dell'album, non va a creare una rottura nella linea narrativa, perché descrive una particolare figura di partigiano. Se Dante Di Nanni era un giovane operaio, Gianfranco Mattei era un professore universitario affermato; se Dante Di Nanni era figlio del proletariato immigrato, Gianfranco Mattei era figlio della borghesia romana ed ebrea. Ma il suo essere di una classe sociale superiore non gli ha impedito di prendere parte alla resistenza: le idee, ed in questo caso il voler proteggere la propria identità religiosa, l'hanno portato ad essere idealmente al fianco di Dante Di Nanni. Due diverse culture, due diverse estrazioni, due diverse città: lo stesso destino, la stessa immortalità.
Arriva il 25 aprile, l'Italia è libera. Tra macerie e festeggiamenti giunge anche l'ora di dover seppellire i propri morti, e ciò rende la gioia non totalmente completa. Da una parte e dall'altra della barricata è tempo di ricostruire, ma anche di scavare, di dar degna sepoltura ai cari periti durante gli scontri. Camicie nere o fazzoletti rossi il dolore è lo stesso e parla italiano. Non tedesco, non inglese. Italiano. E si fa un salto in avanti, si arriva all'illusione degli anni '60, al boom economico che sembra far dimenticare ciò che fu soltanto vent'anni prima. Ma è per l'appunto un'illusione perché i fascisti ci sono ancora, Ordine Nuovo e compagnia bella fanno saltare in aria banche, treni e stazioni, anarchici e comunisti vengono uccisi o "suicidati"... ma è il boom economico, si sta bene, il dolore è solo un ricordo che deve rimanere sotto terra...
Un biglietto del tram, album del 1975, finisce con l'omonima canzone che fa riferimento al "suo" presente. La gente è distratta, pensa alla quotidianità, ma l'Italia è comunque in subbuglio, perché oltre alla crescita economica c'è anche il fermento delle proteste, delle manifestazioni. Sono gli anni di piombo, è il periodo in cui diventano famosi i celerini, e sebbene in tanti non vogliono ricordare ci sono luoghi, simboli che devono rievocare nella mente delle persone un passato che sebbene può sembrare remoto ha ancora i suoi strascichi nel presente. Il brano è ambientato a Milano, ed il biglietto del tram serve per andare a Piazzale Loreto: di Piazzale Loreto ci viene soltanto raccontato "quello" della fine di aprile del 1945, quando Mussolini e la Petacci vennero esposti a testa in giù insieme ai cadaveri di altri gerarchi nazisti... ma non ci viene raccontata tutta la storia, le radici di questo comunque ignobile gesto, che di per sé è una rappresaglia all'oltraggio che un anno prima venne perpetrato ai cadaveri di diversi partigiani lasciati legati per i piedi nello stesso luogo per più giorni, come monito ai compagni dei caduti... Ecco perché Piazzale Loreto è la destinazione, la fine della storia della Seconda Guerra Mondiale raccontataci dagli Stormy Six: a Piazzale Loreto prima si era cercato di spezzare le ali alla resistenza e poi, benché in un modo piuttosto discutibile, mostrata la fine dell'incubo.
Un biglietto del tram degli Stormy Six è un album che racconta molte storie: alcune di queste vanno di diritto in quella che Marino Severini dei Gang ama definire l'epica della Resistenza, altre si collocano nell'ambito delle canzoni a tema storico, altre ancora hanno avuto lo scopo di raccontare ai contemporanei che di lavoro da fare ce n'era ancora molto. L'album intero va invece di diritto in quella raccolta di dischi estremamente utili a ridestare le coscienze, a smuoverle ed a portarle ad agire, mostrando come per cominciare a resistere non bisogna aspettare l'ultimo momento, mostrando come per cominciare a resistere bisogna sapersi organizzare, riuscire a pianificare, agire. E soprattutto porta a ricordare che gli anni tra il 1940 ed il 1945 sono lontani solo qualche decennio: tre o sette non fa differenza. Sono dietro l'angolo, sono storia di ieri.
Il vero peccato non è fare del male, il vero peccato è non fare del bene. Credo che con questa semplice frase si possa riassumere il pensiero racchiuso da Fabrizio De André nel suo "Storia di un impiegato". Era il 1973, Fabrizio stava cominciando ad avere un peso rilevante nel panorama cantautorale italiano, e con il suo sesto album andava idealmente a chiudere un secondo capitolo della sua discografia, ovvero quello dei concept album. E se "La buona novella" rappresenta uno dei suoi dischi più controversi e di difficile lettura (ed io in un post di aprile ho provato a dargli una mia personalissima interpretazione), se in "Non al denaro non all'amore né al cielo" ha cercato di definire, utilizzando le poesie di Edgar Lee Masters tradotte divinamente da Fernanda Pivano, gli archetipi delle persone che vivono il nostro tempo, con "Storia di un impiegato" ha sostanzialmente descritto il processo mentale che un uomo della classe media percorre dal momento in cui abbraccia la lotta di classe al momento in cui, dopo aver perso tutto, anche la libertà fisica e l'amore, riesca comunque a sentirsi vincente. Perché è vero, è stato sconfitto su tutti i fronti: ma ci ha provato. Ha perso, ma ci ha provato.
Doveva essere una storia comune quella raccontata da Fabrizio quando lui prese carta, penna e chitarra per dar vita a questo capolavoro. Erano gli anni delle contestazioni studentesche, delle occupazioni, degli scioperi e dei picchetti davanti alle fabbriche. Spesso mio padre mi racconta di quegli anni: lui a diciotto anni ed un mese entrò in Fiat, ed a quei tempi la fabbrica era non solo il primo motore dell'economia italiana, ma anche la fucina di giovani menti che avrebbero potuto e dovuto, ma soprattutto voluto, portare avanti la lotta, la stessa lotta che trent'anni prima mise sotto scacco il fascismo con i famosi scioperi di Mirafiori che coinvolsero centinaia di migliaia di lavoratori. Non era una passeggiata il lavoro in fabbrica, non lo è mai stato, ma in quel periodo c'era ancora la speranza, c'era la consapevolezza che si poteva anche cambiare lavoro, perché di lavoro ce n'era fuori dalle mura degli stabilimenti. Chi restava lo faceva quasi per scelta, e spesso questa scelta era dettata dalla consapevolezza, dall'identità operaia: sì, quella classe operaia che è stata sistematicamente distrutta negli ultimi anni per rendere arido il terreno più fertile per i semi del socialismo, della lotta di classe, della guerra senza quartiere nei confronti del sistema capitalista. Lotta che dalle fabbriche, allora, si estese alle università, agli uffici, a quelle realtà che prima d'allora mai, più di tanto, si erano interessate ad un certo tipo di pensiero politico e sociale: gli anni a cavallo dei '60 e '70 del secolo scorso hanno in un certo senso rappresentato un nuovo illuminismo, illuminismo che coinvolse anche il protagonista della storia di Fabrizio. Perché l'impiegato del quale vengono narrati gli ultimi mesi di libertà fisica e del suo processo di liberazione mentale era un piccolo borghese, che nulla aveva da chiedere alla vita perché la vita già gli aveva dato tutto. Eppure, ad un certo punto, si rese conto che gente meno fortunata di
lui, sebbene calpestata, rinchiusa, picchiata, vessata stava vivendo, stava respirando, e respirando dava vita ad un vento nuovo, un vento forte, un vento fresco; lui invece in quella bambagia stava sopravvivendo, i giorni erano tutti uguali. Se ne rese conto, e decise di unirsi alla lotta. Decise di vivere. Decise di decidere. Ma per fare ciò doveva sostanzialmente distruggere ciò che fino a quel momento l'aveva oppresso: non era la mancanza di denaro ad averlo distrutto, ma la monotonia della sua vita, i miti con i quali era stato cresciuto, quelle figure che danzano mascherate nel suo sogno. Andavano distrutte, andavano fatte esplodere. Ed andavano ripudiate anche le sue origini: la madre, il padre. E soprattutto andava sabotato alle radici il sistema: quello giudiziario, quello economico, quello politico.
E pensare che questo processo mentale è stato "inizializzato" da un canto di protesta che ripeteva ad ogni strofa il coinvolgimento dell'uomo medio nell'oppressione delle lotte, delle rimostranze, dei soprusi ai danni delle classi più colpite dal sistema vigente. La Canzone del maggio fu l'incipit, fu la sveglia per questo impiegato trentenne, che si è trovato a ragionare più e più volte su cosa fosse giusto fare: i suoi dubbi, i suoi timori, la sua voglia di riscatto, il suo desiderio di dare un contributo ne tormentavano i giorni e le notti, fino a decidere di abbracciare la causa, e di armarla. E così cominciò a sognare, ad immaginarsi in diversi contesti, ad affrontare i suoi nuovi nemici, figure che fino a poco tempo prima lo affascinavano e ne edulcoravano l'esistenza. Ma lo stesso destino toccava anche a chi l'aveva, secondo il suo giudizio, cresciuto nella tranquillità abituandolo ad ogni agio, ma di fatto rendendolo ignorante ed indifferente alle giuste cause. Arrivò poi il momento della resa dei conti, il momento di agire, il momento di far saltare il simbolo del potere. Ma l'attentato non ha successo, portandolo quindi a perdere la sua libertà fisica, la sua vita, il suo amore. Ed è l'amore la cosa alla quale non avrebbe mai voluto rinunciare, ed è la sua amata la persona alla quale più spesso si ritrovò a dedicare i pensieri, immaginandola sommersa di domande, ripercorrendo la vita passata insieme a lei, ragionando su ciò che lei avrebbe potuto fare dopo la fine forzata della loro storia d'amore. Ed in quel "Continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?" c'è un significato più profondo di quello puramente legato all'amore: c'è anche un significato legato ad ogni potere decisionale di ogni individuo, spesso delegato a qualcun altro, qualcuno più forte di noi, qualcuno che apparentemente è più autorevole (ed in una realtà in cui la donna era ancora estremamente subordinata all'uomo il potere decisionale che l'impiegato sperava potesse finalmente essere esclusivamente nelle mani di sua moglie rappresenta l'emancipazione dei più deboli dai dettami di chi detiene il potere) e che, in seguito alle prese di coscienza del protagonista di questa storia, non doveva essere d'altra persona se non di lei.
Ma la storia dell'impiegato non è finita qui. Anzi, la storia di questo piccolo borghese diventato rivoluzionario non ha una fine. Perché sebbene fosse finito in carcere, sebbene fosse stato privato di ogni libertà d'azione, il nostro eroe sfortunato non perse ciò che finalmente aveva conquistato: la libertà di pensiero, e di conseguenza la vita. Finora non ho accennato minimamente alla musica che accompagna le parole di Fabrizio De André, ma in questo caso è doveroso: il nostro eroe è stato imprigionato, ha sostanzialmente perso, teoricamente ci si dovrebbe aspettare una musica cupa, triste, carica di dolore. E invece no, l'atmosfera creata è ariosa, serena, forse un po' rassegnata, ma che da un senso di libertà. La stessa libertà che poteva respirare durante l'ora d'aria, ora d'aria che decise però di disertare perché non voleva condividere quel cortile con un secondino, ovvero con il simbolo dell'oppressione, del sistema, del potere. Fedele alla linea fino in fondo, e così si limitava a ragionare su tutto ciò che gli era capitato, a come con orgoglio rivendicava ogni sua azione, ogni sua presa di posizione, di coscienza, difendendo così, di fatto, la sua libertà mentale, che pian piano si stava diffondendo tra i suoi compagni di reclusione. Tanto da rinchiudere il secondino durante l'ora di libertà, rivoluzionando così le gerarchie, sebbene per poco tempo, sebbene per uno spazio limitato. E rivendicando anche quell'azione, cantando ancora una volta, un'altra volta ancora, e chissà quante altre volte: "Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti".
Questo è "Storia di un impiegato", un album che per decenni è stato censurato, nascosto ed anche raramente proposto nei live. Un disco anarchico, un disco che mette al centro la libertà decisionale di ogni singolo individuo, una libertà decisionale che, se incanalata nel verso giusto, non può che contribuire al bene di tutti. Perché lottare è una scelta, lottare è fare il bene, e facendo il bene si fa la cosa giusta. Altrimenti si può rimanere a guardare, si può assistere, si può vivere da spettatori non paganti, limitandosi a sopravvivere, a discolparsi, a pensare che tutto sommato va bene così...
Sono ancora estremamente attuali queste canzoni di Fabrizio De André, e benché questo lo renda ancora vivo e presente, penso che non sia poi così felice di sapere che c'è ancora bisogno di ascoltare questo disco... significa che in quarant'anni non è cambiato niente, anzi... e significa che probabilmente queste canzoni non sono state poi così utili... fino ad ora...
Non avevo ancora sei anni quando per la prima vidi il film "The Blues Brothers". In verità con l'universo correlato a questo capolavoro della cinematografia ebbi alcuni contatti già in precedenza, quando ancora abitavo a Torino: probabilmente ne vidi solo alcune scene, ma qualche flash che ha come ambientazione la casa dove ho vissuto per i miei primi quattro anni di vita c'è, anche perché negli anni seguenti avevo spesso il desiderio di vederlo, sebbene logicamente capissi ben poco la trama ed i contenuti. Ma mi piaceva la musica, mi facevano ridere Jack ed Elwood, e poi era sempre un piacere immenso vederlo in casa, sul divano, con i miei genitori.
Ricordo che durante la famosa scena introduttiva del film, quando Jack sta per uscire di prigione e l'agente incaricato di dargli i suoi effetti personali fa l'elenco di tutti gli oggetti dei quali Jack era in possesso quando fu arrestato, mi soffermai sulla parola "profilattico": la mia genuina curiosità, tipica di un bambino di sei anni, mi portò a chiedere ai miei cosa fosse... "E' un cerotto, tesoro!!": fu la risposta di mia madre, che nonostante fosse stata presa in contropiede seppe rifugiarsi abilmente in corner, lasciando che fossero gli anni e l'esperienza ad insegnarmi il vero significato di quella parola. Ciò che poi ha sempre contraddistinto le visioni familiari della pellicola di John Landis furono le risate, i balletti (spesso da seduti ma talvolta da in piedi) improvvisati, le citazioni del film che venivano riproposte ad ogni ora per almeno tutta la settimana successiva. The Blues Brothers ha rappresentato quindi un forte legante tra i miei genitori e me, e crescendo, comprendendo ancora di più certe battute, contestualizzandole, ed apprezzando ulteriormente la colonna sonora, il discorso Blues Brothers è spesso stato trattato con mamma e papà, come è successo per altri film che con loro ho visto ed imparato ad apprezzare.
I Blues Brothers però, forse più di tutti gli altri, oltre a rappresentare un legante è diventato anche un legame tra i miei ed io, per una molteplicità di fattori: innanzi tutto i miei andarono a vedere il film al cinema quando uscì, ed io, venti anni dopo, andai a vederlo nel 2012 al Reposi di Torino con quella che allora era la mia ragazza, ripercorrendo più o meno gli stessi passi che fecero loro due decenni prima; i Blues Brothers è uno di quei film dei quali ho spesso parlato ai miei amici, ad alcuni di loro l'ho fatto vedere e con alcuni di loro mi sono ritrovato a ridere a crepapelle non solo guardandolo ma riproponendo le varie scene per strada, al pub, nei ristoranti. Quando con i miei amici andai a Roma a vedere Roger Waters ovviamente c'erano tante suore per le strade della capitale, e si faticava a trattenere un "Ed allora sono cavoli tuoi, sorella!" ogni volta che ne avvistavamo una! Oppure per fare gli scemi ordinare "Quattro polli fritti ed una coca!", ricevendo sguardi alquanto perplessi dei ristoratori di turno... ma era più forte di noi, e soprattutto con il Biondo una celebrazione settimanale di qualche scena o canzone dei Blues Brothers non può assolutamente mancare. E se poi quando tutto ciò avviene è presente anche mio padre, allora apriti cielo, perché se è vero che il Biondo ed io conosciamo a memoria il film, papà è come se lo avesse scritto, come se fosse stato lui a consigliare a Dan Aykroyd l'intera sceneggiatura.
Si aprì un cerchio diciannove anni fa, quella sera in salotto, mentre la mia famiglia ed io guardavamo i Blues Brothers... e diciannove anni dopo, ieri sera, ci siamo nuovamente ritrovati mamma, papà ed io per gustarci i Blues Brothers: stavolta però erano su un palco, della formazione originale erano rimasti Blue Lou Marini (il sassofonista) e Steve Cropper (il chitarrista col barbone), ma le canzoni erano le stesse, le emozioni erano le stesse, e Piazza San Carlo era diventato il nostro salotto di casa: decisamente affollato con quelle 35000 persone a farci compagnia, ma comunque il senso era lo stesso.
Si è chiuso un cerchio ieri sera in Piazza San Carlo, ma il fatto che la penna abbia compiuto un intero giro non significa che la musica sia finita... le puntine su un vinile fanno centinaia di giri prima che la musica cessi di riecheggiare dalle casse.
E poi, come se non bastasse, c'è sempre il lato B.
Illustrazione estemporanea di Giulio Peranzoni durante "Sai com'è" dei Gang & Gaetano Liguori, alla fine dello spettacolo di Daniele Biacchessi "Giovanni e Nori. Storie d'Amore e Resistenza"
12 maggio 2015. Alba, provincia di Cuneo. Sala Beppe Fenoglio. Alba-Fenoglio è uno di quei binomi che rimarranno nell'eternità delle memorie, della letteratura, della Resistenza. Perché Fenoglio prima di diventare un partigiano, uno scrittore, un narratore della lotta partigiana era un intellettuale, amante della filosofia, della lettura, della conoscenza. Ed era nato ad Alba, nel 1922, da una famiglia come tante, di classe sociale medio-bassa, che però desiderava dare ai propri figli una vita migliore insegnando loro la cultura sì del lavoro, ma anche della lotta sociale in nome del progresso comune. E questa è una storia comune, una radice propria di tanti giovani che, dopo il '43, si sono diretti verso le colline, con qualche vecchio fucile in spalla, poche cartucce nelle tasche ma una volontà, una passione ed un amore nel cuore più grandi di ogni fatica, di ogni sacrificio, di ogni paura. Fenoglio era ad Alba il 10 ottobre del 1944, quando "la presero in duemila", ed ad Alba era quando il 2 novembre "la persero in duecento". L'occupazione partigiana di Alba durò per meno di un mese, ma la sconfitta albese è una di quelle battaglie perse che non sono sinonimo di sconfitta in guerra. Perché a distanza di cinque mesi l'Italia sarebbe stata finalmente liberata, e Beppe, come altri intellettuali che hanno combattuto, ha raccontato nei suoi libri le sue esperienze, le sue lotte, gli intrecci continui tra amicizie, amori, fughe, avanzate. Il sapore del fango, l'umidità dei boschi alpini, la ricerca del cibo, l'assistenza dei tanti paesani che in quei giovani di grandi speranze ci credevano fermamente. Dopo la fine della guerra Fenoglio ebbe modo di conoscere Calvino, Vittorini, Natalia Ginzburg, grandi autori ma soprattutto grandi personaggi estremamente attivi durante la Resistenza. E nacquero così nuovi intrecci, reciproci aiuti, reciproche attenzioni, perché prima di qualsiasi altra cosa era fondamentale attestare ciò che in quegli anni successe: le generazioni future dovevano sapere, ricordare, tramandare ciò che era stato il Ventennio Fascista e cosa fu necessario per porre a questo nefasto periodo la parola fine.
Sono degli intrecci, intrecci che sono alla base delle storie, da quelle più recenti alle più antiche della storia dell'uomo. Ed è una storia di intrecci quella che il 12 maggio 2015, ad Alba, nella Sala Beppe Fenoglio, è stata raccontata da Daniele Biacchessi: intrecci che, se osservati in modo superficiale, possono apparire casuali, ricchi di coincidenze, alquanto fortuiti. La verità è che ad avvicinare i fili delle vite dei personaggi che animano questa storia sono la Resistenza, l'amore per la propria patria, per i propri ideali; e l'amore nato tra i due protagonisti di questa "Storia d'amore e Resistenza" è stato partorito da un grembo fertile figlio anch'esso degli amori che hanno portato non solo i due fili ad incontrarsi ma ad intrecciarsi, perdersi, ritrovarsi per poi non lasciarsi più. Perché questa è la storia del compagno Giovanni Pesce e della compagna Onorina Brambilla: lui alessandrino, lei milanese. Pesce era emigrato con la famiglia in Francia durante i primi anni del Ventennio perché il padre, socialista, si trovò obbligato a lasciare l'Italia per dare un futuro alla propria famiglia. In Francia Pesce conobbe le miniere, le storie dei minatori, molti di loro come lui esuli, ed una volta maturo decise di partire per combattere la sua prima Resistenza, quella spagnola, con le Brigate internazionali e contro i Franchisti ed i nazi-fascisti. La perse la sua prima Resistenza, ed una volta tornato in Italia, poco dopo l'inizio della Seconda Guerra Mondiale, venne incarcerato a Ventotene perché antifascista. In prigione ebbe modo di arricchire ulteriormente la sua coscienza politico-sociale grazie ad uno strumento che ormai è fuori moda, ovvero il libro, ovvero il pensiero filosofico, ovvero la base di ogni grande azione dell'uomo. Dopo l'Armistizio raggiunse Torino e si unì ai GAP del capoluogo piemontese, e fu tra i più grandi partigiani che la città sabauda poté ammirare. E sicuramente ebbe paura più di una volta, sicuramente fu condizionato dall'incertezza di premere o meno un grilletto o di posizionare o meno un ordigno, ma la sua volontà, la sua voglia di libertà, la sua tenacia lo portarono ad agire sempre nel modo giusto. A Milano ci arrivò nel maggio del '44, dopo che, con il grande Dante Di Nanni, aveva sabotato un'antenna presieduta dai fascisti che disturbava le frequenze di Radio Londra. Di Dante Di Danni ho già parlato prima del 25 aprile, ma è fondamentale mettere in luce anche in questo caso un altro intreccio: quello che ha portato a combattere fianco a fianco due grandi partigiani, quello che ha fatto sì che la memoria del partigiano caduto potesse venir raccontata grazie al ricordo del partigiano sopravvissuto e che fino all'ultimo ha cercato di salvare la vita al proprio compagno.
A Milano Pesce riorganizzò il gap locale, prese contatti con gli altri partigiani, cominciò a pianificare la resistenza. E conobbe Onorina, "Nori", una compagna che sarebbe diventata la SUA compagna. Nori fu però arrestata e portata nei campi di concentramento di Bolzano, Pesce rimase fino al giorno della Liberazione a Milano, continuando a combattere, con il cuore mosso non solo più dall'amore per la libertà ma anche dall'amore per la donna amata. Il 25 aprile 1945 Milano festeggiò la Liberazione, e pochi giorni dopo anche Nori poté raggiungere la città: perché i nazisti abbandonarono Bolzano, liberarono i detenuti, e per Nori, come se non fosse successo nulla nei venti anni precedenti, fu semplicissimo raggiungere il capoluogo longobardo: stazione di Bolzano, treno, Milano, tram, sede del GAP. Giovanni.
Giovanni e Nori si sposarono due mesi dopo, e sebbene deposero i loro fucili mai smisero di maneggiare le armi della lotta sociale, della memoria, dell'impegno. Entrambi si impegnarono anima e corpo per l'ideale comunista, ma finalmente potevano farlo sempre insieme, fianco a fianco, fino alla fine dei loro giorni.
Questa è la storia di Giovanni e Nori, questa è la storia che ci è stata raccontata da Daniele Biacchessi ad Alba. E limitarmi a citare soltanto la penna e poi voce che ci ha accompagnato lungo i fili delle vite di Giovanni Pesce ed Onorina Brambilla sarebbe uno sbaglio, perché porterebbe alla non citazione di un altro intreccio. Quello tra la letteratura e la lettura, rappresentate da Daniele Biacchessi, la musica dei Gang e di Gaetano Liguori e le illustrazioni di Giulio Peranzoni: un'opera multimediale quella andata in scena alla Sala Beppe Fenoglio, che ha coinvolto, commosso, scosso, e spero risvegliato in chi ancora ce l'aveva sopito il senso della propria esistenza, della propria voglia di essere, esistere, resistere.
E, giusto per sottolineare una volta in più l'importanza degli intrecci, intrecci che sostanzialmente condizionano estremamente il processo del filo che ognuno di noi rappresenta, è importante sottolineare come le canzoni eseguite dai Gang siano esemplari per sì raccontare la Resistenza, ma anche per mostrare in quanti alla Resistenza hanno dedicato le loro note e le loro parole. Perché oltre a La pianura dei sette fratelli, brano immancabile quando si parla di Lotta partigiana e scritto dai Gang stessi, sono state cantate Dante di Nanni degli Stormy Six, Su in collina di Guccini, Sai com'è (testo scritto da Lolli) ed Eurialo e Niso di Bubola.
La vita di ognuno di noi è il prodotto di milioni di intrecci, e la morale di questa storia risiede nel ricordare le storie di ieri, le memorie, gli avvenimenti che hanno fatto sì che ad un certo punto del nostro filo sia presente un nodo: uno dei tanti, forse, ma fondamentale per spiegare il motivo, insieme a tutti gli altri nodi, per il quale noi, adesso, in questo preciso istante, siamo quelli che siamo.
Grazie a Daniele Biacchessi, ai Gang, a Giulio Peranzoni, a Gateano Liguori per il meraviglioso spettacolo, per avermi commosso nuovamente con le storie della Lotta partigiana che tanto amo leggere e raccontare ma che, mostrate così, hanno tutto un altro sapore. Grazie ad Alba che si è dimostrata sempre attenta al suo passato, alla memoria di uno dei suoi migliori figli e di ciò che lui, Beppe, ha rappresentato per Alba e per l'Italia intera.
E grazie a voi, grandi uomini e donne che soprattutto tra il '43 ed il '45, ma anche prima e dopo, avete fatto sì che in Italia si possa ancora provare a pensare, a raccontare, a ricordare, a sperare, a vivere.
Non posso che chiudere questo mio post con la canzone che raccoglie tutta la storia, che la sintetizza e ne mostra la morale più profonda, più intensa, più vera. Giovanni e Nori. Storia d'amore e resistenza, non poteva che concludersi con l'esaltazione di queste due sfumature di rosso, che da sempre e per sempre determineranno il percorso del mio filo e ne detteranno i futuri intrecci.
Ieri sera, come tante sere, ero all'Orso con gli amici di sempre, a fare le solite cose. Chiacchiere, birre, scherzi, gli immancabili discorsi riguardanti la musica, che però spesso vengono inframezzati da discorsi seri, perché se è vero che il divertimento condiviso avvicina le persone che lo condividono, i discorsi seri creano amicizie, le rafforzano, le cementificano. Ed a volte si parla dei problemi di uno di noi, a volte di problemi comuni, altre volte ancora dell'attualità, della storia, della politica. Stavo raccontando ad alcuni di loro che ieri, complice il tempo, mi sono preso la libertà di starmene per buona parte del tempo a letto, rinunciando ad andare a Torino in Borgo San Paolo per i festeggiamenti della Liberazione a pochi passi da Via Di Nanni. E così è stato introdotto il discorso della Resistenza, portato avanti dal Biondo che sottolineava come sia un bel giorno, ogni anno, il 25 aprile perché sua nonna, ora novantenne, racconta come una ragazzina, con lo stesso piglio e la stessa intensità di una ventenne, gli anni della guerra, i bombardamenti alleati, le persecuzioni da parte di fascisti e nazisti, le torture psicologiche nei confronti dei partigiani catturati, le fucilazioni, ed infine la liberazione vera e propria.
Ognuno di noi ieri sera ha raccontato delle storie: Angelo, il barista, le storie di alcuni vigonesi che quando faceva le medie intervistò con la scuola, Bruno i racconti tramandati dai familiari di ciò che era successo nella campagna che circondava la sua casa, Biondo le storie di Villafranca, io le storie dei miei nonni materni a Torino e dei miei nonni paterni in Toscana. Dissi anche che fu un paradosso decisamente strano il fatto che, se non fosse stato per la guerra, forse mia nonna e mio nonno mai si sarebbero incontrati a Torino, mai sarebbero nati i miei zii e mia mamma, e di conseguenza mai sarei nato io. E tutti noi sottolineavamo come, sfortunatamente, il nome dei partigiani è stato infangato da quei banditi che si mischiarono alle brigate partigiane per poter fare i loro comodi: i vari assassini, stupratori, ladri, traditori, che gli stessi partigiani isolarono o uccisero per poter portare avanti la propria lotta. Del resto, noi che la pensiamo in un certo modo, abbiamo il pregio (che forse a volte diventa un difetto) di discernere la differenza tra ciò che è giusto e sbagliato e tra chi è buono e chi cattivo, a volte anche dandoci delle colossali mazzate sui piedi perché rischiamo di avallare le tesi di chi si mette contro a certi ideali, a certi movimenti che duramente tentiamo di sostenere.
Ieri sera, mentre parlavamo di tutto ciò, inevitabilmente in testa si materializzarono testo e spartito di una canzone che scoprii poco meno di una decina di anni fa, che spesso ho collegato a mia nonna, ma anche a tanti anziani che, magari, non hanno mai assistito ad un assassinio da parte dei nazi-fascisti ma che per almeno due anni hanno avuto paura, ogni giorno, ad ogni ora: paura per loro, per i loro conoscenti, per la loro realtà, che fosse contadina, montana o cittadina. Questa canzone si intitola Nella chiesa di Bellusco, pubblicata nel 2005 dai Mercanti di Liquore sull'album "Che cosa te ne fai di un titolo", e racconta una storia come tante, una storia comune benché sbagliata, che ben descrive il terrore che pervadeva ogni singolo individuo tra l'8 settembre '43 e l'aprile del '45. Ed inoltre sottolinea come in certe situazioni le differenze di idee venivano dopo qualsiasi altra cosa, soprattutto se in gioco c'era la vita di alcuni membri della comunità che stanno lottando per i propri vicini, i propri parenti, i propri simili. Perché Nella chiesa di Bellusco parla di un rastrellamento da parte dei nazisti, alla ricerca di alcuni partigiani che erano stati nascosti sul campanile dal parroco del paese: le SS arrivarono durante la messa, fregandosene della spiritualità, fregandosene del luogo di culto, comunicando al prete il motivo per cui si trovavano lì, chiedendogli collaborazione, promettendogli che nessuno si sarebbe fatto male. Il prete prova a divagare, dice che non ci sono partigiani nascosti in chiesa, ma i tedeschi si fanno pressanti, cominciano a spaventare i presenti. Finché un soldato non decide di accendersi una sigaretta, proprio mentre è appoggiato all'altare, e così il prete, toccato nel profondo, si arma di tutto il suo coraggio e da uno schiaffo al soldato, urlando che "nella casa del Signore non si spara e non si fuma". A quel punto il comandante decide di radunare il suo plotone ed andar via, risparmiando il prete, i presenti ed i partigiani ancora nascosti, per poi non ripresentarsi più.
Nessuna vittima, né da una parte né dall'altra, ma uno di quegli spaccati di una storia difficile e movimentata che è quella della Resistenza, ed in generale del post-Armistizio, quando nessuno sapeva più chi era amico, chi nemico, chi neutrale, quando bisognava contare semplicemente su se stessi e sui legami che esistevano tra le persone in un certo contesto, per poter sopravvivere, andare avanti, resistere, puntando sul motto "o tutti o nessuno", perché allora, probabilmente, era ancora forte lo spirito di aggregazione, di imprescindibilità di ogni elemento della comunità. Ed è per questo che questa storia, questa canzone, ha un'importanza secondo me fondamentale, perché ci da l'immagine di ciò che potevano essere i tanti paesi del centro-nord italiano negli ultimi due anni della guerra. Come in Val Varaita, così nell'alta pianura; come sulle colline dell'Appennino Tosco-Emiliano, così nella pianura lombarda. E così via.
Una storia comune, una storia sbagliata. Una storia che tanti anziani ricordano ed alla quale si limitano a cambiare il luogo in cui è avvenuta. Perché è una che da Bellusco vale per tutta l'Italia intera.
Aspettavo questo giorno da un po' di tempo, quasi fosse una sorta di compleanno o di capodanno. Volevo tornare qui, in queste pagine, nell'interfaccia di editing, per poter nuovamente lasciar ritmicamente danzare le dita sulla tastiera, le quali da diverse settimane agognavano di dar vita ad una nuova coreografia allegorica, atta ad inscenare la realtà, il passato, il presente, le emozioni, i sogni. O a disegnare i contorni di vecchi e nuovi volti, vecchi e nuovi sorrisi e tante nuove esperienze. Ho proibito loro queste attività per tanto, troppo tempo. Perché c'erano da sfogliare le pagine dei libri dell'università, ma anche da riavvolgere il nastro, premere play e sottolineare ciò che negli ultimi mesi non funzionava e che ho affrontato nel modo sbagliato, trovando mille espedienti per non riconoscere i miei errori, le mie debolezze, le mie mancanze. Ma ora che hanno riavvolto il nastro, sottolineato ciò che non andava, impugnato gli attrezzi del mestiere per riparare, ricucire e rammendare, e sfogliato le pagine da studiare in modo efficace, ecco che finalmente possono tornare a far ciò che più a loro piace.
Ed è curioso come, a preannunciare questo loro ritorno sul palcoscenico, sia stato un inaspettato messaggio su Whatsapp: "Quando potrò leggere qualcosa di nuovo sul blog?" Oggi, amica mia. Perché oggi sento il bisogno di dire che, sebbene con qualche giorno di ritardo rispetto al calendario, è tornata la primavera anche qui, è tornato a splendere il sole, sono nuovamente sbocciati i sorrisi e le mie vene sono nuovamente fiumi in piena diretti verso al mio cuore e ricchi di sensazioni, emozioni ed esperienze da rimettere prontamente in circolo. E probabilmente era necessario, per mettere in atto tutto questo, collassare, addormentarmi dopo uno sfogo enorme, anche solo per qualche ora, disintegrando non tanto il resto del mondo quanto un me stesso che non mi soddisfaceva più perché troppo immobile, troppo fossilizzato, troppo monumentale. E come spiega la storia dell'universo, è necessaria un'esplosione, è necessario distruggere, per poter costruire qualcosa di nuovo. Anche con lo stesso "materiale", ma pensare di poter fare tutto ciò solo con qualche accorgimento, solo con soluzioni di compromesso, solo evitando di dire o fare cose ritenute sbagliate che però si sente la necessità di non tenere più dentro ed esprimere è pura fantascienza, è il classico filmetto di serie b, il classico romanzo da adolescenti. Perché a volte, è inutile girarci attorno, è necessaria un'autodistruzione per poter rinascere, per potersi risvegliare.
Ed il Risveglio non poteva avvenire in un momento migliore di questo, con la primavera ormai a pieno regime, con tanti concerti dietro l'angolo, con gli ultimi esami alle porte ed una laurea che ormai posso vedere ad occhio nudo, con tante nuove persone ad animare i miei giorni e le mie notti ed i vecchi amici di nuovo qui, i quali forse mai se n'erano andati ma che io non riuscivo a vedere. E poi ci sono gli ultimi sogni, nei quali stanno cambiando i protagonisti, nei quali tira una nuova aria, dai quali è bello risvegliarsi perché potrebbero essere realtà, potrebbero essere premonizioni, potrebbero essere anticipazioni. Non vedo l'ora di poter scoprire tutto ciò, dando un seguito al continuo divenire di queste ultime settimane che si era interrotto per un non precisato periodo di tempo, sperando di poter presto risentire mio uno dei versi di Guccini nei quali ho sempre voluto rispecchiarmi: "Io sono sempre lo stesso, sempre diverso".
Del resto il Risveglio, come viene descritto in Siddharta da Hermann Hesse, è una sorta di rinascita, di resurrezione, ma anche di liberazione, di alleggerimento dato dal divincolarsi da ciò che per tanto, troppo tempo aveva turbato il giovane brahmino. Questa, tra l'altro, è la parte che più adoro di quel meraviglioso romanzo, che tante volte ho letto e che probabilmente riprenderò in mano, riassaporandone le parole, ritoccandone le parole e immaginando nuovamente quel volo in prima persona sopra i campi, lungo i fiumi, dato dal riuscire ad immedesimarsi totalmente in un airone tanto da essere quell'airone.
Comunque, e per concludere, il mio sbaglio è stato voler ingannare il tempo, prendermi gioco di lui, dimenticandomi che per ogni cosa c'è un tempo, e voler bruciare alcune tappe, saltarne altre, solo per trarre una soddisfazione momentanea che, di fatto, non può dare un reale piacere, è semplicemente il miglior modo per posticipare ulteriormente il vero sorriso, l'autentico respiro, la genuina emozione. E forse mi son sbagliato perché, a forza di non ascoltare questa canzone, me n'ero dimenticato.
Ps: da domani si ricomincia a scrivere davvero, "ho ancora tante storie ancora da raccontare"...
Ieri era la Domenica delle Palme, giorno in cui comincia la settimana santa, i sette giorni più importanti del Nuovo Testamento, quelli in cui Gesù è finalmente giunto a Gerusalemme, pronto a predicare nella capitale di Israele. A Gerusalemme però troverà la morte, ucciso dai Romani per volere dei Farisei, tradito dal suo amico Giuda e rinnegato da Pietro, colui che da più tempo lo seguiva e che di lui prenderà, per primo, il testimone. Potrà sembrare paradossale, ma è proprio in questi pochi giorni che emerge secondo me la natura umana, terrena e temporale della figura di Gesù. Non i miracoli, non la discendenza diretta da Dio, non le sue parole apparentemente trascendentali sono il cardine delle sue ultime ore, ma elementi comuni nella vita di ognuno di noi. Il tradimento da parte di un amico, l'apprensione di chi ci ama per il nostro futuro, la disperazione di una madre e di una compagna di fronte alla morte del figlio e del partner, il disprezzo e l'odio di chi teme un individuo così speciale, così carismatico, così "potente". E la morte in sé, propria di ogni essere vivente, elemento imprescindibile di ogni realtà che può esser definita tale. Ciò che vive deve morire, poiché se non muore presumibilmente non ha mai vissuto. E' biologia, è scienza.
Gesù come uomo, come uno di noi, come persona che nasce, vive, muore e lascia un ricordo immortale, tanto da risorgere ogni giorno nella mente di miliardi di persone. Ed è su questo che gioca Fabrizio De André, è la natura umana del Cristo che risalta ne "La buona novella", l'album che l'ha sostanzialmente consacrato nel panorama del cantautorato italiano. Parla di Gesù questo disco, ma parla di Gesù attraverso le bocche di chi gli ha dato vita, di chi l'ha cresciuto, di chi l'ha visto morire, di chi, con un solo sguardo, condividendo con lui il momento più tragico della propria esistenza, l'ha capito ed apprezzato, ammirato, tanto da rimanere lui stesso impresso, per sempre, nella mente del Cristo. Di fatto, Gesù non viene mai nominato in tutto l'album ma è presente in ogni singola canzone. Gesù ce lo immaginiamo come naturale conseguenza al matrimonio combinato tra Maria, ancora bambina, e Giuseppe, lo vediamo tra le mani di Giuseppe piene attorno ai fianchi di Maria prima che lei racconti il suo sogno, prima che lei, di fatto, confessi il suo tradimento, è nella dolcezza di Ave Maria, dove viene cantata la meraviglia della gravidanza, del parto, del passare dall'essere femmina all'essere madre. Un inno alle donne e, per inciso, la più bella canzone che mai sia stata scritta per l'altra metà del cielo. E c'è poi nel presagio di morte che viene scandito dal ritmo marziale che accompagna il dialogo tra Maria ed il falegname che sta ultimando le croci sulle quali moriranno Gesù, Tito e Dimaco, nella frenesia e nella tensione delle ultime ore, che nonostante glorifichino ciò che di grande quell'uomo aveva fatto ed i semi che aveva seminato per l'avvenire mettono in luce la naturale paura della morte, il suo rifiuto, la voglia di vivere ancora. Cosa c'è di più umano e naturale di tutto ciò? C'è il dolore di tre madri che devono sopravvivere ai rispettivi figli, che vedono il loro amore ed i loro sforzi agonizzare in croce. E c'è il porsi quesiti fino all'ultimo secondo di vita di un uomo, che dieci volte si chiede il senso di regole divine che, di fatto, non vengono rispettate in primis da chi queste leggi vuol fare rispettare.
Non è Dio e non è la religione che trionfa, ma l'uomo, la sua capacità di autodeterminazione, la sua emotività, il suo errare ed il suo desiderare, il suo non voler sottostare non tanto a leggi divine ma leggi naturali. Ed a spiegare il corpus di questo disco sono la prima e l'ultima traccia, simili nella melodia ma totalmente opposte nel contenuto, nel testo, nel titolo. Da "Laudate dominum" a "Laudate hominem" il passo è breve, dal voler vedere lontano e trascendentale una figura come Gesù al sentirla realmente come un nostro fratello è sufficiente prendere coscienza della realtà storica del Cristo, immortale non tanto perché semidivina ma perché sulla Terra ha lasciato un ricordo indelebile, indimenticabile.
De André ha raccontato vita e morte di Gesù, ha fatto risaltare la sua grandezza attraverso l'amore ed il dolore della madre, la stima di Tito, il fermento che ne ha caratterizzato la fine. E probabilmente non sarebbe stato tanto diverso come disco se al posto di Gesù ci fosse stato un altro grande personaggio della storia dell'uomo, ma umanizzando Gesù ha eliminato ogni scusa ad ogni uomo di non dover provare ad essere migliore solo perché non divino. Del resto questi sono alcuni dei cardini dell'anarchia: l'autodeterminazione, la libertà che finisce dove inizia quella di un altro individuo, il divincolarsi da schemi malati e precostruiti, che siano questi di natura religiosa o temporale.
"Storia di un impiegato" sarà sì estremamente diretto e senza fronzoli, ma "La buona novella" è ancor più ricco di significato, è ancor più politico, è soprattutto è più attuale. Più reale.
E come ogni anno, sotto Pasqua, eccomi ad ascoltare "La buona novella". Un rito ateo, un ossimoro. Ma, come la religione, quando viene messa in gioco l'emotività, c'è poco da sindacare. Resta solo da premere play.
Sono sempre molto curiose le coincidenze nelle quali ci si imbatte durante il proprio cammino, soprattutto quando arricchiscono di ulteriori significati un dato momento, un evento, un qualcosa che ci si appresta a fare. Non sapevo che ieri sarebbe stato il compleanno di Pier Paolo Pasolini, e non ero neppure al corrente della sua passione per il calcio, un amore che superficialmente ben poco si sposava con le sue idee politiche, con le sue arti, con il suo essere fuori dagli schemi. Che poi gli schemi chi li decide? Se è pur vero che l'italiano medio è invasato di calcio, dove sta scritto che chi è considerato o si autodefinisce pecora nera o mosca bianca debba per forza di cosa disinteressarsi allo sport nazionale, o tuttalpiù tifare realtà tutt'altro che vincenti? Togliatti era juventino, ed appena risvegliatosi in seguito all'intervento subito dopo l'attentato di cui era stato oggetto chiese informazioni sulla partita, Berlinguer seguiva il calcio con estrema passione, Pertini... Pertini sappiamo tutti con che gioia partecipò ai festeggiamenti del mondiale vinto nel 1982. Questi sono gli esempi più lampanti e forse più significativi, perché nelle tre figure più importanti della sinistra italiana del dopoguerra la passione per il calcio era forte. Il caso di Togliatti poi è emblematico: il comunista più potente dell'Europa filo-americana, l'uomo che avrebbe potuto dare il via ad una nuova rivoluzione, colui che ha permesso al partito comunista di prosperare per circa trentacinque anni era tifoso della squadra degli Agnelli, dell'emblema della potenza del capitalismo, del simbolo del potere e della subordinazione nel mondo calcistico.
Ieri sera sono andato a vedere con mio padre quello che in casa è il derby, la partita più sentita, quella della quale si parla per settimane prima che venga giocata e per altre settimane dopo che è stata disputata: Juventus-Fiorentina. Lui fiorentino e simpatizzante torinista, io juventino atipico, sempre felice nel vedere piccole realtà affermarsi (squadre come Empoli, Sassuolo, Livorno, Cesena) e non particolarmente ostile nei confronti degli storici nemici della Fiorentina e dei cugini torinisti: anzi, il fatto che al momento Torino sia la capitale italiana del calcio, così come lo è stata negli ultimi due anni, è per me una grande soddisfazione, e parte del merito va anche ai granata, che mai come negli ultimi anni sono stati così competitivi dagli anni '90 ad oggi. E' stata la prima volta che sono andato allo stadio con mio padre, e per lui è stata la prima volta che è andato allo stadio con il biglietto (lontani sono i tempi in cui, al Comunale, si poteva entrare a metà del secondo tempo quando venivano aperti i cancelli, facendo diventare così uno spazio libero ed uno spettacolo per tutti la partita di calcio; altri tempi, altra cultura, altra gente). Ho deciso di comprare i biglietti l'indomani la vittoria della Fiorentina nei quarti sulla Roma, con l'intenzione di fare a mio padre un regalo diverso per la festa del papà. Un po' in anticipo, ma le date, come le regole, son fatte per non essere rispettate. Ed è così che ieri sera eravamo allo Juventus Stadium, fianco a fianco, a guardare la partita: lui a gioire (sebbene dovendosi contenere) ed io ad inveire nei confronti dei giocatori della Juve che mai hanno dimostrato di voler e poter vincere la partita. Ma va bene così, perché altrimenti sarebbe stato un regalo a metà, un dono agrodolce, un piacere in parte limitato. Entrambi però osservavamo nello stesso modo le dinamiche che animano lo stadio, le due curve, la tribuna, gli spalti dedicati ai vip ed ai facoltosi, notando i tempi ed i modi che interessavano questo o quell'altro settore. Le tribune, ovvero i settori dedicati ai "normali" spettatori, erano già affollati quando, un'ora prima del fischio di inizio, abbiamo preso posto: abbonati, frequentatori dello stadio occasionali, famiglie e tifosi "in borghese" erano i principali animatori di questi spazi; le curve, sia quella sud del tifo organizzato juventino sia quella del settore ospiti si sono riempite pochi minuti prima del fischio di inizio, ed in base all'andamento della partita e del comportamento della curva rivale modificavano il loro atteggiamento, quasi mai indipendente dalla gara e dagli stimoli dei tifosi avversari; la tribuna d'onore è stata semivuota per almeno dieci minuti dopo il fischio di inizio, si è svuotata a pochi minuti dall'intervallo e si è di nuovo riempita giusto in tempo per assistere al secondo gol di Salah: l'importante non era essere della partita, l'importante era, per loro, avere il biglietto in tasca ed un posto riservato, il resto contava relativamente. Faceva poi specie notare poi come la coscienza individuale, una volta preso il proprio posto a sedere, fosse stata delegata allo speaker, ai capi ultrà, a ciò che in campo e sugli spalti succedeva. E tutto quanto è facilmente paragonabile ai meccanismi che animano sia una religione sia i suoi principali eventi, cioè i riti. Come ci si alza in piedi per il Padre Nostro o per un canto, ci si alza in piedi per recitare i nomi dei giocatori e cantare l'inno della squadra, come ci si chiude in se stessi nei momenti di preghiera lo si fa quando sta per cominciare la partita, come si discute fuori dalla chiesa, finita la messa, della predica domenicale, lo si fa fuori dallo stadio o tra gli amici della prestazione della squadra. Ed entrambi sono universi che noi non possiamo fino in fondo vivere, poiché in entrambi i casi ne siamo principalmente spettatori e non attori, per quanto comunque, se solo ne fossimo totalmente consapevoli, potremmo influire e non poco in entrambe le situazioni. Il discorso di Durkheim riguardante il sacro ed i riti è applicabile al calcio, dunque, come lo è per i concerti. Sostanzialmente, è applicabile a tutte quelle situazioni in cui l'uomo cede la sua individualità alla collettività, delegando ad altri o ad altro il suo potere decisionale. Si può definire questo un comportamento da pecoroni, da bigotti. Io preferisco limitarmi a dire che è un comportamento privo di alcuna visione critica di ciò che succede, che addirittura porta alla deformazione della realtà. E chi di calcio mangia lo sa, e non mi riferisco ai calciatori o alle società ma soprattutto ai giornalisti che sanno benissimo con chi hanno a che fare e sono in grado di farti vedere un fuorigioco che non c'è o negare un fallo di mano, come sanno ben cucire ad una squadra degli stereotipi o qualità immense ad un giocatore o ad un allenatore. E non c'è nulla di diverso da quello che succede nelle religioni quando i potenti di un credo fanno passare per mostri quelli che credono in qualcos'altro: i processi sono gli stessi, e per fare un esempio, se nel calcio i ladri sono gli juventini nelle religioni sono gli ebrei, ovviamente secondo gli occhi di chi è contro gli juventini e di chi è contro gli ebrei.
Non so se mai si arriverà a fare una guerra per il calcio come si è fatta per la religione. Di certo di gente che è rimasta uccisa in nome del pallone ce n'è stata, ce n'è e ce ne sarà, perché a quanto pare una sciarpa di un colore diverso rende una persona diversa da te: la rende nemica, la rende inferiore, la rende cattiva, la rende degna di sofferenza e morte. E sono sufficienti i cori negli stadi ed i commenti nei forum di calcio (ma vale anche per tutti gli sport più seguiti) per capire che queste righe non sono poi così lontane dalla realtà dei fatti.
Il calcio, in quanto sport (e come il calcio tanti altri), null'altro è che una guerra figurata. I giocatori scendono in campo, entrambe le squadre hanno una zona da difendere, hanno un qualcosa da controllare, hanno uomini il cui scopo è attaccare ed un unico obiettivo: perforare la difesa e mettere a segno il punto. Calcio, tennis, pallavolo, pallacanestro, ping pong e così via. E c'è chi vince, c'è chi perde e c'è chi pareggia. Come nei conflitti armati. Ed i conflitti armati sono spesso stati veicoli sui quali ha trovato posto una religione, pronta a viaggiare per raggiungere e colonizzare i nuovi territori conquistati, animati da altre persone, con lo scopo di aumentare la propria sfera di influenza, il proprio dominio spirituale. E come il cristianesimo è la religione che ha più credenti perché è quella che si è schierata più spesso dalla parte dei vincenti nelle guerre, la Juventus in Italia è quella con più tifosi perché ha vinto più scudetti, vincendo quindi più partite, vincendole sia in casa, difendendo le mura amiche, sia in trasferta, assediando gli stadi altrui.
"Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l'unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro", scrisse Pasolini. Aggiungerei anche l'aspetto bellico a quello sacro, sottolineando come tutto sia facilmente interscambiabile, interconnesso, trasportabile da una all'altra dimensione. Perché la religione è sacra di suo, il calcio ne ha assunto i contorni simili, la guerra ne adotta la terminologia o è adottata dalla religione per i suoi scopi.
Sarebbe bello che le parole di Pasolini valessero per quello che sono, per il significato più profondo che contengono, ovvero per come sia una fonte di estrema passione positiva uno sport, una passione che oltre tutto si condivide e non si vive da soli, che porta all'interazione, alla coesione, ma soprattutto alla consapevolezza che sebbene gli altri decidano di tifare un'altra squadra sono comunque movimentati dalla nostra stessa passione. Soltanto colorata diversamente. E sarebbe bello che si capisse che chiunque, a prescindere dal pensiero politico, dalla classe sociale di appartenenza, dal modo di essere che è proprio del suo io possa tifare questa o quella squadra, svincolandosi almeno in questo da tutto ciò che lo influenza nella vita di tutti i giorni, facendo sì che in quei novanta minuti sia lì, in trepidante attesa di un gol, come chiunque altro sia attaccato alla radio, alla televisione o seduto allo stadio. Lo sport teoricamente dovrebbe funzionare da livellatore delle classi sociali, sia per chi lo pratica sia per chi lo tifa, e fino ad un po' di anni fa era così, fino a quando si è semplicemente considerato un divertimento, una passione, un'evasione.
Perché per ora, in questa società, tutto ciò che assume importanza finisce per venire massacrato dagli interessi e dall'ignoranza. E' successo alle arti, è successo alla politica, è successo allo sport.
Io continuerò a tifare Juve fino alla morte, così come continuerò a portare avanti le mie idee ed a coltivare le mie passioni. E sarò ben contento di confrontarmi con chi, come mio padre, può essere in questo o quel settore di una "fazione" diversa ma mosso dalle mie stesse emozioni. Ecco perché Togliatti, Berlinguer e Pertini erano così legati al calcio nonostante la loro storia politica. Ecco perché Pasolini lo seguiva e lo praticava nonostante il suo mondo fosse apparentemente tanto diverso dal calcio. Nulla è razionalizzabile quando ha a che fare con le emozioni, e nulla dovrebbe essere assoggettato a delle leggi di mercato o a degli interessi quando il suo scopo primo è emozionare. Ma se son riusciti a farlo con l'amore, era ovvio che ci sarebbero riusciti con il calcio...
In ogni caso, comunque vada, come la si pensi... Forza Juve, fino alla fine!!!!
(PS: "Fino alla fine Forza Juventus", "Hasta la victoria siempre"... trovatemi le differenze)
Da quando ho aperto questo blog più volte mi è venuta voglia di raccontare lo spazio nei quali nascono la stragrande maggioranza dei post che finora ho scritto. Perché raramente prendo appunti appena mi viene in mente qualcosa, o nel momento in cui ciò che mi circonda preme l'interruttore della mia mente portandola a creare. Sono un diesel, probabilmente, o più semplicemente preferisco essere tranquillo quando devo scrivere. Ed effettivamente se un foglio bianco si accinge ad accogliere l'inchiostro delle mie penne, probabilmente si trova disteso su una superficie riconducibile ad un luogo che potrei tranquillamente chiamare casa. Ma, come i migliori sogni notturni, i miei scritti prendono forma tra le mura della mia camera, nella quale porto le mie impressioni per poi riportarle sotto forma di parole.
Nel post precedente, al quale in parte è legato questo e che è stato il fiammifero che ha acceso l'irrefrenabile desiderio di scrivere ciò che seguirà, ho fatto riferimento ad elementi che qui trovano posto (i Dylan Dog, i cd), spiegandone anche alcune peculiarità, alcuni significati. Ma di cose in questa stanza ce ne sono parecchie, non è tutto riducibile a questi due elementi. Perché c'è una vita, qua dentro.
Ma non è soltanto dentro ai muri che è racchiusa la mia storia: i muri stessi ne raccontano una parte. La mia stanza è grande, tutt'altro che calda (ed anche per questo motivo, dopo anni passati a temperature non propriamente confortevoli, preferisco il freddo al caldo: anche perché il freddo lo si può affrontare, il caldo no, è un nemico pressoché invincibile), con un soffitto a volte piuttosto alto. Due anni fa decisi di renderla a mia immagine e somiglianza: le cinque volte hanno cinque colori dell'arcobaleno, riproposti poi su tre delle quattro pareti. Perché la restante, quella che veglia sulla mia testa quando vado a dormire, è nera, con sopra disegnato un triangolo nel quale entra un fascio bianco e dal quale esce l'arcobaleno. Un modo come un altro per dire che quando dormo c'è la copertina pitturata di Dark side of the moon a vegliare su di me. Decisi di dare quest'impronta floydiana alla camera mentre stavo facendo un puzzle, sempre dei Pink Floyd, che invece capeggia su una libreria che comprai e che poi montai, nella quale sono riposti i miei cd, i libri dell'università, gli spartiti ed i testi delle canzoni che ho studiato, scritto o cantato negli ultimi anni. Ci sono anche alcuni vinili di mia madre, tra i quali ho mischiato quelli che ho portato a casa io: alcuni ad implementare la sua raccolta, andando a riempire i vuoti lasciati nelle discografie di De André e dei Pink Floyd, altri invece sono i primi pezzi di nuovi percorsi (Folkstone, Metallica, Iron Maiden, Litfiba). Di alcuni vinili ho deciso di appendere le copertine: sono tutti dischi di artisti dei quali ho visto dei concerti, ed insieme ad essi è incorniciato anche il biglietto del rispettivo live, a testimoniare che c'ero, che l'ho vissuto. Alcuni cd invece arrivano da luoghi lontani nei quali sono stato: c'è chi compra dei souvenir o delle cartoline, io compro cd, non per forza legati alla città o alla nazione nei quali li ho comprati. Al legame tra l'oggetto ed il contesto in cui l'ho comprato ci penso io. E così ci sono dischi comprati a Bilbao, a Tolosa, a Strasburgo, a Taranto, a Firenze, e così via. Sempre tra quei titoli ci sono dei regali: di amici, di parenti, di ragazze, e regali che io ho fatto ai miei genitori, ma che per comodità trovano spazio in camera mia. La parete opposta a quella con il murale è colei che porta il peso di milioni di parole: i Dylan Dog, i libri che ho letto e che voglio leggere, i miei diari, i miei quaderni. Su di lei poggiano le mie due scrivanie, sulle quali trovano spazio il computer, il mixer, la pianola, le casse, e che spesso hanno accolto la mia testa stanca o disperata, quando la mia forza fisica o di volontà non era sufficiente per contrastare la forza di gravità. Accanto alle scrivanie, infine, trova posto il mio armadio, nel quale ripongo i miei vestiti e che al tempo stesso è vestito. Da ritagli di giornale, da locandine, da scalette, dai biglietti dei concerti e dei film visti al cinema (risalenti la maggior parte al periodo in cui stavo a Torino con una delle mie ragazze, estremamente appassionata di cinema), da fotografie, da biglietti di auguri, da sottobicchieri provenienti dalle birrerie che ho frequentato con le persone a me care. Infine c'è la parete rossa, anch'essa mio specchio oltre che il sostegno allo specchio. E' un rosso acceso, è il rosso della lotta, mentre il rosso dell'amore, quello purpureo, è quello delle tende che alterano la visione del mondo fuori dalla finestra.
Ci sono mille altre cose, che per brevità e per timore di annoiare non cito, ma ovviamente non mancano gli altri strumenti (la chitarra, la batteria elettronica, il microfono, i tin whistle, il bodhran, che però al momento è in prestito altrove), il quadro di Buddha che sin da piccolo mi ha affascinato, le fotografie in compagnia delle mie migliori amiche, una stampa raffigurante il sogno cubano. i vestiti che per ultimi hanno accompagnato la mia vita fuori da questa camera sparsi sulla poltrona o sugli altri mobili, i videogiochi. E soprattutto qui dentro ci sono tutte le persone che hanno portato qualcosa nella mia vita: alcuni libri dei miei nonni, la tessera del PCI del mio nonno paterno, una lampada fatta da mio zio, dischi e libri dei miei genitori, simboli degli amori passati e simboli di esperienze condivise con i miei più cari amici.
Ci sono io, in questa stanza, ma questa stanza è me, ed in me, se in questa stanza ci sono tutte queste persone, tutte queste parole, tutte queste idee, tutte queste note, probabilmente c'è tutto questo, ed anche di più.
C'è chi sostiene che è interessante guardare dalla finestra alla quale abitualmente si affaccia una persona perché da quel panorama si possono intuire molte cose di questa persona... ma guardare il contenuto della stanza di una persona lo è altrettanto, se non di più. Non ho particolari ricordi di molte case che ho visitato, ma delle camere delle persone ho molti flash, che valgono più di mille parole.
Dato che i Pink Floyd hanno rubato la scena al resto degli artisti qui presenti, e dato che Dark side of the moon la fa da padrone, credo sia scontata la mia scelta.. "Home, home again.. I like to be here when I can"
Sono tanti i possibili insegnanti che possiamo incontrare lungo il nostro cammino su questa Terra: scrittori, cantautori, sceneggiatori, insegnanti di professione, filosofi, statisti. Sono cose che ho già detto, lo so, ma la mia ridondanza è doverosa, alla luce degli ennesimi stimoli che la quotidianità mi offre per arrivare ad alcune congetture.
Dopo l'esame dato la settimana scorsa e complici le feste di Carnevale che hanno tenuto chiusa la scuola nei giorni in cui avrei dovuto fare lezione, ho dedicato gli ultimi giorni alla visione integrale delle prime due stagioni di X-Files, alle quali devo aggiungere le prime cinque puntate della terza serie. Di spunti ne da tanti, soprattutto ad una persona che crede all'esistenza degli alieni, all'esistenza di entità non visibili, al fatto che non siano casuali certe coincidenze e che ancora meno lo siano certe incongruenze. Ma non è questa, almeno per ora, la sede in cui parlerò di Scully e Mulder, né tanto meno dei fantasmi o degli alieni. Come ogni serie che si rispetti, però, anche X-Files ha un filo conduttore ben curato, sebbene spesso sia nascosto e controverso, ma considerare questo un aspetto negativo sarebbe sbagliato. Anzi, il segreto di X-Files è proprio questo... Ci sono però degli episodi cruciali nei quali è impossibile nascondere il filo, ed allora eccolo sbattutoci in faccia, con due o tre episodi legati tra loro, dei veri e propri film all'interno della serie. L'ultimo di questi film nel telefilm è quello che raccorda la seconda e la terza stagione, narrato per larghi tratti da un capo indiano. Senza andare a perderci nella trama, ciò che emerge dal suo racconto, implicitamente ed esplicitamente è il seguente: di Storia ce n'è una sola e viene scritta dai vincitori, che racconteranno ciò che a loro fa comodo.. ma di storie, e quindi di memorie, ce ne sono tante, infinite. E finché queste verranno raccontate la verità continuerà a sopravvivere, benché in condizione di latitanza, di illegalità, in netta minoranza. Ieri sera Marino Severini, cantante dei Gang, ha detto praticamente la stessa cosa spiegando il perché sia necessario raccontare storie del passato, soprattutto quello della resistenza partigiana. Le nostre radici risiedono nella memoria, non nella storia.
Due insegnanti di diversa provenienza (il creatore di X-Files è statunitense, Marino è italiano) e di diversa professione per uno stesso concetto, applicato in modo differente, la cui forma differisce anche nell'ambito che va a trattare: X-Files è fantasia, la Resistenza è realtà.
Ho già detto in articoli passati che l'arte è allegoria della realtà, ed è molto più efficace quando viene presentata di soppiatto perché leggere tra le righe o interpretare è molto più efficace che il prendere così com'è una determinata scena, un brano tratto da un disco o da un libro, senza suscitare particolari ragionamenti interiori. Certo, bisogna essere in grado di ragionarci su, e qui si torna alla questione dell'intelligenza, ma dato che io presumo di esserlo e presumo che chi mi legge lo sia, do certi presupposti come certi.
Finora avrò visto una quarantina di episodi di X-Files, e teoricamente ci sarebbe da scrivere un post almeno per la metà di questi. Alcuni sono fantasiosi, fanno riferimento a leggende americane o cristiane, e offrono pochi elementi sottoponibili ad analisi, ma altri sono una miniera di riflessioni. Ad esempio c'è una puntata in cui un uomo aveva la passione per le unghie ed i capelli delle donne morte: lavorava per un'agenzia di pompe funebri e depredava i cadaveri, ma poi, una volta licenziato, ha dovuto trovare un'altra strada per ampliare la propria collezione di trofei: uccidere. Ora, senza andare a prendere in considerazione casi limite come quelli dei serial killer (che comunque spesso si appropriano di qualcosa che apparteneva alla vittima), voglio prendere in analisi alcuni casi che mi è capitato di incontrare lungo la strada. Persone che si svenano per avere una moneta od un francobollo, decine e decine di euro per acquistare il primo numero in edizione originale di Dylan Dog (altro che decine, si parla di centinaia di euro), dischi acquistati e mai ascoltati, e se nuovi nemmeno liberati dal cellofan. Un accumulo continuo di oggetti o denaro (perché c'è anche chi guadagna e non spende, e non in ottica di risparmio ma in ottica di accumulo), il tutto volto a soddisfare il proprio bisogno di possedere, di avere. C'è addirittura chi fa diventare una collezione le persone con cui è andata a letto. Cinque, dieci, venti, cento. Ma ne basta anche una, sotto un certo punto di vista... Mi chiedo però se si ricorda il nome, le generalità, l'aspetto, l'odore di queste donne o uomini con le quali ha avuto un amplesso, se ne ha mai assaporato l'essenza, se mai si è posta il problema di quali emozioni queste persone possano aver provato.
Che siano monete, dischi, libri rari, fumetti, persone, il principio è lo stesso. Il possedere è alla base della loro natura, e questa natura è influenzata da freudiani impulsi sessuali mai totalmente espressi, e quindi almeno in parte repressi. Il capitalismo ha di certo facilitato questo meccanismo, promuovendolo e mettendolo a disposizione di qualsiasi tipo di tasche: c'è chi colleziona macchine, chi case, chi tappi di bottiglia, chi cartoline. Il paradosso però è che viene snaturato il prodotto del capitalismo: il capitalismo dovrebbe fornire beni di consumo, non beni da accumulare, e questa disfunzione all'interno del sistema è alquanto curiosa. Resta comunque il fatto che il capitalismo è sempre un passo avanti e sa bene come creare nuove cose da collezionare, anche perché sa che di malati ce ne sono parecchi, per di più inconsapevoli di essere affetti da questo germe.
Non nego il fatto che anche io colleziono fumetti e dischi, ma lo scopo è un altro. Saranno pur tutti in ordine i miei fumetti di Dylan Dog, ma tutti sono stati letti almeno una volta, e che siano prima, seconda o terza edizione mi interessa ben poco. I miei cd anche sono in ordine alfabetico per artista e cronologico per anno di pubblicazione, ma giusto per poterli trovare più in fretta ed ascoltare, vivere, rigare, consumare, strappare. A volte penso alla mia prima auto, alle decine di migliaia di chilometri che con lei ho fatto, le città che insieme abbiamo raggiunto e visitato, le persone che sono salite in macchina e che con me hanno cantato a squarciagola le canzoni dei miei cd, con le quali sono andato ai concerti, suonati o ascoltati... Mille storie ad essa legate, mille ricordi, mille cose da ricondurre a quella Grande Punto, anche una sua sorellina, o meglio una sua Evoluzione, che in terra veneta ho guidato come se fosse mia. Tutti quindi possono possedere, ma vivere un qualcosa, stabilire un legame, un rapporto con gli oggetti, una reciprocità, è un altro discorso, e non ha assolutamente a che fare con il collezionismo, con l'accumulo, con il piacere dato esclusivamente dall'avere una cosa.
Il guardare ma non toccare, nel collezionismo, diventa l'avere ma non usare, e facilmente si trasforma in un non avere: un non aver vissuto, un non aver partecipato, un non aver condiviso.
Il verbo avere è meraviglioso, perché oltre ad essere sinonimo di possesso è, soprattutto, il participio passato di azioni compiute. Ho vissuto, ho visto, ho amato, ho letto, ho ascoltato, ho emozionato. Queste, però, sono cose dettate dal vivere e dall'essere, non dall'essere in base all'avere...
Tutto questo ve lo dice un collezionista... ma di esperienze, che nessuno potrà togliermi, ma che chiunque potrà "toccare".
Non so perché, ma questa canzone di De André spesso la riconduco alla condizione che può vivere un irrefrenabile collezionista. Forse sta tutto in un verso: "e ogni giorno un altro giorno da contare"... se si riconduce tutto alla quantità, il tutto diventa un nulla.