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venerdì 8 aprile 2016

La mente di un bambino in un mondo senza soldi

Da Into the wild




Per riuscire a collocare nella mia infanzia ciò che sto per andare a raccontare ho dovuto snocciolare le tante carriere lavorative che da piccolo si erano alternate nei miei desideri. A cinque anni, prima delle elementari, volevo fare il veterinario: ero circondato da animali, e poterli assistere, curarli e star loro vicino mi sembrava una bellissima prospettiva! Poi, a sei anni, complici alcune letture sui dinosauri e sullo spazio, desideravo diventare paleontologo o astronauta. Sai che spettacolo andare nel deserto e cercare i resti di un dinosauro, oppure salire su una navicella spaziale e poter guardare la terra dall'esterno?

Ad otto anni, visto che il veterinario sarebbe stato un casino perché ero allergico al pelo del gatto (e sarebbe stato brutto fare il veterinario solo per altri animali, quasi razzista!), visto che i dinosauri avevano un po' perso di fascino e visto che la carriera di astronauta mi dava alcune preoccupazioni visto il mio terrore, allora, nei confronti degli alieni, ripiegai sul costruire ponti. Non so perché volevo costruire ponti, e forse questo tarlo dei ponti si è “metaforizzato” e, con gli studi che poi effettivamente ho fatto, qualche “ponte” potrei anche riuscire a costruirlo...

Chiesi a mia mamma che cosa sarei dovuto diventare, e lei mi disse: “Ingegnere o architetto. Ma meglio ingegnere, tu ami la matematica (amore poi non più corrisposto), saresti bravissimo e ti toglieresti tante soddisfazioni!” “Ma mamma, hanno tanti soldi gli ingegneri?” “Sì, Stefano“Ah sì??” “Eh sì, gli ingegneri guadagnano tanto perché le cose che fanno servono a tante persone!” Subito pensai che avesse ragione: un ponte deve stare in piedi per tanti anni, deve essere funzionale, deve dare la possibilità a migliaia di automobili, di camion, di trattori, di mietitrebbie (non potevo non citare le mietitrebbie, amavo le mietitrebbie da bambino) di andare dove devono andare. Poi però pensai: “Ok, ma anche gli ingegneri devono mangiare. E mangiano quanto i miei genitori. Anche gli ingegneri hanno bisogno di una casa, di vestiti, di tutto ciò di cui ha bisogno la mia famiglia e che la mia famiglia si può permettere. E non gliene servono di più che a papà!” Poi pensai che alla fin fine, se un ingegnere non può andare a lavorare, viene licenziato e non guadagna più. E per andare a lavorare necessità di strade, e ok, può farle lui, ma chi le costruisce? Ha bisogno di una macchina, e chi costruisce la macchina? Chi lavora i materiali necessari per costruire la macchina? E poi la macchina non va da sola, serve la benzina, servono i benzinai.

E tra l'altro l'ingegnere deve mangiare, c'è bisogno che qualcuno coltivi il cibo, allevi il bestiame, prepari il pane, i dolci (anche gli ingegneri mangiano dolci, no?). L'ingegnere ha bisogno che un sacco di persone lavorino “per” lui, e queste persone potrebbero sfruttare il suo ponte per i loro spostamenti. Non è uno scambio questo? “Mamma, ma i soldi, se tutti lavorano e tutti fanno qualcosa per gli altri, in un modo o nell'altro, a che cosa servono? Papà fa le macchine, se una persona usa una macchina che lui ha fatto gratuitamente, e questa persona è un insegnante, potrebbe insegnare a me gratuitamente, no? E se fosse un panettiere potrebbe darci il pane, cose così”... “Sì Stefano, ma ogni cosa ha un suo valore e per cui più soldi hai e più cose di valore puoi comprare!!” “Ok mamma, ma anche per fare le cose che valgono di più serve qualcuno che lavori, quindi alla fine i soldi non servono! Mamma, i soldi non servono. Ma si potrà vivere senza soldi prima o poi?” “Non credo, Stefano. Ma è già una bella cosa pensarlo, sperarlo.”

“Mamma, ma i soldi sono sempre esistiti?” “No Stefano, li ha inventati l'uomo."“E prima come facevano?” “Eh, si scambiavano le cose” “Ecco, non è uno scambio anche il MIO?” “Sì...” “E non erano più tranquilli gli antichi?” “Sì, forse sì, Stefano...”

Ora, non so se la conversazione andò propriamente così, sicuramente non usai questo tipo di linguaggio, ma quel giorno mi si aprì un mondo. Pensavo al mio paese, a 5000 persone che, senza aver bisogno di guidare, di utilizzare particolari strumenti, senza avere troppe pretese potevano vivere tranquillamente mangiando ciò che veniva coltivato, costruendo con i materiali che qui si producono, allevare il bestiame e mangiarne la carne, imparare ed insegnare, curarsi e farsi curare... e per 5000 persone ci sarebbe stato fin troppo cibo, fin troppa sabbia, fin troppa ghiaia, che si sarebbe potuta scambiare... e questa cosa con non troppe difficoltà, questa microsocietà insomma, si sarebbe potuta espandere a livello provinciale, regionale, nazionale, mondiale.. tutti ovviamente dovevano lavorare per poter avere a disposizione ciò che reputavano necessario, tutti avrebbero potuto tranquillamente godere di ogni cosa figlia del lavoro degli altri perché il loro lavoro dava altre cose che avrebbero soddisfatto le altre persone. Senza la mediazione dei soldi, senza capitali fermi e quindi inutili, senza evasioni, senza menate... E quel che sarebbe mancato in un posto si sarebbe scambiato con ciò che avanzava, dando la possibilità ad altri di avere ciò che da soli non potevano produrre o reperire...

E così tutti avremmo avuto da mangiare, tutti avremmo avuto da bere, tutti avremmo remato nella stessa direzione per uno sviluppo sempre maggiore, funzionale al bene comune... non ci sarebbero stati problemi legati al nucleare o ai carboni fossili perché già ora avremmo auto ad idrogeno, elettriche, ad impatto zero... e magari sarebbero state meno performanti rispetto a quelle attuali, ma pace, perché i ritardi non sarebbero stati un problema, non ci sarebbe stato il timore di rimanere senza soldi a causa di un licenziamento... tutti vivremmo più sereni, più tranquilli, più sani, in armonia.

Certo, per fare tutto questo sarebbe necessaria una rettitudine morale di ogni individuo, ma questa rettitudine secondo me è andata a perdersi proprio a causa della creazione del denaro, portando gli individui a cercare escamotage per averne di più con uno sforzo sempre minore...

Togli il denaro a questo pianeta, e lo salverai. Togli il potere a chi lo brama soltanto per fare i propri comodi economicamente, e vedrai che, in assenza di denaro, chi prima desiderava potere sarà l'ultimo a volerlo, perché dovrà fare senza un rendiconto visibile al bancomat.

La nostra è una società malata di tumore, un tumore che ha colpito ognuno di noi, e dal quale ci si può curare soltanto eliminando le cellule tumorali. Le cellule tumorali sono i soldi.


Ci vorrà un cataclisma di dimensioni epiche per poter avere le condizioni necessarie ad attuare tutto ciò, l'intervento di un'entità extraterrestre, una tempesta elettrica che resetta ogni conto in banca esistente... nell'eventualità queste cose non succedessero, siamo, ahimè, condannati all'estinzione... e, la cosa buffa, e che non sarò neppure soddisfatto nel poter dire, in punto di morte “Però, c'avevo visto lungo...”




Stefano Tortelli

giovedì 15 ottobre 2015

Giovani assopiti: il fallimento delle generazioni precedenti.






La canzone O cara moglie di Ivan Della Mea è del 1966. Una canzone ambientata nel periodo dei grandi scioperi, dei picchetti ai cancelli delle fabbriche, delle lotte tra gli operai ed i capi, ma anche tra scioperanti e crumiri. 

Era un periodo profondamente democratico, molto più democratico di quello che stiamo vivendo adesso. Perché è vero, molti diritti non erano ancora stati conquistati (o forse concessi!?), in determinati campi (libertà sessuale, libertà di scelta riguardo ad aborto e divorzio) eravamo ancora estremamente indietro, ma ai tempi valeva la legge del 50% più uno: se per un determinato diritto si mobilitava la maggioranza, che fosse a livello microsociale (un'azienda, una località) o macrosociale (lo Stato intero), questo diritto facilmente veniva conquistato. E non sono così convinto che, ai tempi, si combattesse per determinati diritti perché ci si ritrovava ridotti alla fame o perché non si riusciva a sopperire ai propri bisogni con gli status quo che sussistevano allora. Credo invece che, tra gli anni '60 e gli anni '70, c'era un senso di collettivo, di appartenenza ad una determinata classe sociale, c'era il desiderio di anteporre il bisogno di tutti a quello individuale, senza mai comunque perdere di vista la dignità del singolo individuo, cosa che invece è venuta a mancare nel momento in cui l'opportunismo, la necessità del superfluo e la prevaricazione sono entrati nella mente di tanti che fino a poco prima avevano combattuto per giuste cause. Come cantava Pietrangeli, del resto, "Se il vento fischiava ora fischia più forte, le idee di rivolta non sono mai morte,se c'è chi lo afferma non state a sentire, è uno che vuole soltanto tradire; se c'è chi lo afferma sputategli addosso, la bandiera rossa gettato ha in un fosso", e perciò, forse forse, socialisti, questi, non erano mai stati. 

Ma lasciando perdere chi ha cambiato colore man mano che è riuscito ad ottenere ciò di cui necessitava sfruttando qualsiasi mezzo a sua disposizione, vorrei soffermarmi sulla tanto paventata crisi di valori degli ultimi anni, soprattutto nella generazione che rappresento, quella dei giovani tra i venti ed i trent'anni. Noi siamo cresciuti nel ventennio berlusconiano, abbiamo avuto modo di sentire man mano, crescendo, le ripercussioni di politiche distruttive, le quali hanno minato alla base lo stato sociale, la scuola, la libertà d'informazione, la capacità di discernere tra il giusto e lo sbagliato. Siamo cresciuti nell'opulenza, e chi più chi meno abbiamo comunque assorbito un certo modo di vivere, di pensare, di agire. Tutto questo è sicuramente frutto di vent'anni di mal governo, che è però riuscito a destabilizzare così audacemente tutto ciò che poteva darci una cultura di base che siamo cresciuti sostanzialmente ignoranti, privi di reali interessi, assuefatti dalla televisione e dalle vane promesse di Silvio e soci. 

E' vero, siamo ignoranti, privi di stimoli, incapaci di agire in senso collettivo, abbiamo perso ogni contatto con le realtà di insieme: in primis quelle che riguardano i nostri comuni, le nostre regioni, poi quelle che riguardano il nostro Stato, infine quelle che riguardano il mondo intero. E' vero, ci facciamo abbindolare, dobbiamo avere paura dell'Isis, fidarci degli Stati Uniti, lodare la Germania, guardare con sospetto Grecia e Russia, ed intanto farci dare i soldi dai nostri genitori o investire buona parte dei nostri stipendi da stagisti/apprendisti per comprare il nuovo I-Phone. Siamo un gregge, non c'è dubbio. Siamo un gregge come la generazione che ci ha anticipato, quella che ora ha tra i trenta ed i quarantacinque anni: quella che si è convinta che i contratti flessibili, i part-time fossero positivi perché davano libertà di azione. Peccato che questa libertà d'azione era sempre e comunque vincolata dal datore di lavoro di turno, quindi era immaginaria; quella che si è convinta che era bello poter avere a disposizione una pay tv attraverso la quale vedere le partite, i film in prima visione esclusiva ed assoluta, senza rendersi conto che così facendo ora sui canali in chiaro non danno più niente di nuovo perché i diritti sono quasi tutti di Sky o Mediaset Premium, e magari si lamentano anche del canone Rai; quella che si è venduta in toto, lasciandosi indirizzare verso il consumo folle incentivato dalle offerte, dalle rate, dagli abbonamenti, dai leasing.

E, andando ancora a ritroso, mi chiedo dove sia la grandezza delle generazioni passate se all'unico importante compito alle quali erano state chiamate, non tanto istituzionalmente e socialmente parlando ma a livello puramente biologico, hanno fallito miseramente. Dov'è la loro esperienza? A chi è stata tramandata? Per quale motivo i loro figli non sono stati cresciuti con il culto della lotta, della protesta e del collettivo? Siamo sicuri che due genitori siano più deboli della tv e degli stimoli esterni? Siamo sicuri che se è vero che la mia generazione non ha identità, spirito di condivisione e dignità individuale, questo non sia il frutto della perdita, in primis, di tutto questo da parte di chi ci ha cresciuti? Perché è tanto facile poi, a posteriori, dire che i giovani di adesso sono annoiati, statici, apatici. Ma è così che la maggior parte di noi è stata cresciuta, è così che ci ha voluto la società, ma è anche vero che è così che i nostri genitori ci hanno voluto far diventare. Quindi, prima di innanzi tutto generalizzare e dopodiché attaccare i giovani d'oggi, sarebbe il caso di chiedersi che ruolo si ha avuto all'interno di questo meccanismo di disgregazione del pensiero collettivo e della dignità individuale, che cosa non si è fatto per evitare che ciò accadesse e quali sbagli, come individuo e come generazione che si rappresenta, si sono commessi. E poi, magari, provare a riparare, insieme, senza vedere barriere generazionali. Di barriere ora come ora ce ne sono veramente tante, troppe, ed inserire pure quelle anagrafiche mi sembra piuttosto eccessivo e, ovviamente, controproducente.

Voglio concludere spiegando il perché io abbia cominciato l'articolo citando O cara moglie di Ivan Della Mea. Ecco, questa canzone viene ricordata soprattutto per il suo valore all'interno dell'antologia delle canzoni di protesta, poiché racconta per filo e per segno uno sciopero, i conflitti con i crumiri, l'odio verso il padrone e la differenza di risultati che derivano da una lotta totale che coinvolge tutta la forza lavoro ed una lotta frammentata. Quello che però è il messaggio più importante in questa canzone è il totale stravolgimento dello scenario d'apertura quando si giunge alla fine della canzone. Perché se all'inizio il figlio deve andare a dormire "perché le cose che io ho da dire, non sono cose che deve sentire", alla fine l'operaio si rende conto dell'errore, chiede alla moglie di richiamare il figlio perché "venga a sentire, perché ha da capire che cosa vuol dire lottare per la libertà". Ecco, ecco dove AVETE sbagliato. Vi siete fermati alle strofe centrali, alla lotta, all'estemporaneità dei fatti, senza pensare a ciò che a livello interiore questa potesse portare, ovvero alla comprensione che se è vero che certi argomenti sono difficili, a volte duri, sicuramente di difficile comprensione per un bambino o un ragazzino, questi valgono molto più di tante parole e raccomandazioni che da genitore si fanno, non tanto perché si vuole, ma perché si devono fare, perché fanno parte del ruolo del padre o della madre. Sarebbe invece stato il caso di parlare con i vostri figli di politica, o come minimo discuterne in loro presenza, far emergere le vostre preoccupazioni, i vostri disagi legati magari alle condizioni difficili sul posto di lavoro, all'essere in cassa integrazione, all'essere disoccupati. 

Forse si pensa di proteggere i figli mandandoli a dormire, evitando loro i discorsi che "non devon sentire"... ma così facendo non li si protegge, ne si posticipa soltanto il momento in cui saranno carne da macello per questo sistema cannibale.





Stefano Tortelli

martedì 14 luglio 2015

"Storia di un impiegato" di Fabrizio De André




Il vero peccato non è fare del male, il vero peccato è non fare del bene. Credo che con questa semplice frase si possa riassumere il pensiero racchiuso da Fabrizio De André nel suo "Storia di un impiegato". Era il 1973, Fabrizio stava cominciando ad avere un peso rilevante nel panorama cantautorale italiano, e con il suo sesto album andava idealmente a chiudere un secondo capitolo della sua discografia, ovvero quello dei concept album. E se "La buona novella" rappresenta uno dei suoi dischi più controversi e di difficile lettura (ed io in un post di aprile ho provato a dargli una mia personalissima interpretazione), se in "Non al denaro non all'amore né al cielo" ha cercato di definire, utilizzando le poesie di Edgar Lee Masters tradotte divinamente da Fernanda Pivano, gli archetipi delle persone che vivono il nostro tempo, con "Storia di un impiegato" ha sostanzialmente descritto il processo mentale che un uomo della classe media percorre dal momento in cui abbraccia la lotta di classe al momento in cui, dopo aver perso tutto, anche la libertà fisica e l'amore, riesca comunque a sentirsi vincente. Perché è vero, è stato sconfitto su tutti i fronti: ma ci ha provato. Ha perso, ma ci ha provato.

Doveva essere una storia comune quella raccontata da Fabrizio quando lui prese carta, penna e chitarra per dar vita a questo capolavoro. Erano gli anni delle contestazioni studentesche, delle occupazioni, degli scioperi e dei picchetti davanti alle fabbriche. Spesso mio padre mi racconta di quegli anni: lui a diciotto anni ed un mese entrò in Fiat, ed a quei tempi la fabbrica era non solo il primo motore dell'economia italiana, ma anche la fucina di giovani menti che avrebbero potuto e dovuto, ma soprattutto voluto, portare avanti la lotta, la stessa lotta che trent'anni prima mise sotto scacco il fascismo con i famosi scioperi di Mirafiori che coinvolsero centinaia di migliaia di lavoratori. Non era una passeggiata il lavoro in fabbrica, non lo è mai stato, ma in quel periodo c'era ancora la speranza, c'era la consapevolezza che si poteva anche cambiare lavoro, perché di lavoro ce n'era fuori dalle mura degli stabilimenti. Chi restava lo faceva quasi per scelta, e spesso questa scelta era dettata dalla consapevolezza, dall'identità operaia: sì, quella classe operaia che è stata sistematicamente distrutta negli ultimi anni per rendere arido il terreno più fertile per i semi del socialismo, della lotta di classe, della guerra senza quartiere nei confronti del sistema capitalista. Lotta che dalle fabbriche, allora, si estese alle università, agli uffici, a quelle realtà che prima d'allora mai, più di tanto, si erano interessate ad un certo tipo di pensiero politico e sociale: gli anni a cavallo dei '60 e '70 del secolo scorso hanno in un certo senso rappresentato un nuovo illuminismo, illuminismo che coinvolse anche il protagonista della storia di Fabrizio. Perché l'impiegato del quale vengono narrati gli ultimi mesi di libertà fisica e del suo processo di liberazione mentale era un piccolo borghese, che nulla aveva da chiedere alla vita perché la vita già gli aveva dato tutto. Eppure, ad un certo punto, si rese conto che gente meno fortunata di 
lui, sebbene calpestata, rinchiusa, picchiata, vessata stava vivendo, stava respirando, e respirando dava vita ad un vento nuovo, un vento forte, un vento fresco; lui invece in quella bambagia stava sopravvivendo, i giorni erano tutti uguali. Se ne rese conto, e decise di unirsi alla lotta. Decise di vivere. Decise di decidere. Ma per fare ciò doveva sostanzialmente distruggere ciò che fino a quel momento l'aveva oppresso: non era la mancanza di denaro ad averlo distrutto, ma la monotonia della sua vita, i miti con i quali era stato cresciuto, quelle figure che danzano mascherate nel suo sogno. Andavano distrutte, andavano fatte esplodere. Ed andavano ripudiate anche le sue origini: la madre, il padre. E soprattutto andava sabotato alle radici il sistema: quello giudiziario, quello economico, quello politico. 

E pensare che questo processo mentale è stato "inizializzato" da un canto di protesta che ripeteva ad ogni strofa il coinvolgimento dell'uomo medio nell'oppressione delle lotte, delle rimostranze, dei soprusi ai danni delle classi più colpite dal sistema vigente. La Canzone del maggio fu l'incipit, fu la sveglia per questo impiegato trentenne, che si è trovato a ragionare più e più volte su cosa fosse giusto fare: i suoi dubbi, i suoi timori, la sua voglia di riscatto, il suo desiderio di dare un contributo ne tormentavano i giorni e le notti, fino a decidere di abbracciare la causa, e di armarla. E così cominciò a sognare, ad immaginarsi in diversi contesti, ad affrontare i suoi nuovi nemici, figure che fino a poco tempo prima lo affascinavano e ne edulcoravano l'esistenza. Ma lo stesso destino toccava anche a chi l'aveva, secondo il suo giudizio, cresciuto nella tranquillità abituandolo ad ogni agio, ma di fatto rendendolo ignorante ed indifferente alle giuste cause. Arrivò poi il momento della resa dei conti, il momento di agire, il momento di far saltare il simbolo del potere. Ma l'attentato non ha successo, portandolo quindi a perdere la sua libertà fisica, la sua vita, il suo amore. Ed è l'amore la cosa alla quale non avrebbe mai voluto rinunciare, ed è la sua amata la persona alla quale più spesso si ritrovò a dedicare i pensieri, immaginandola sommersa di domande, ripercorrendo la vita passata insieme a lei, ragionando su ciò che lei avrebbe potuto fare dopo la fine forzata della loro storia d'amore. Ed in quel "Continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?" c'è un significato più profondo di quello puramente legato all'amore: c'è anche un significato legato ad ogni potere decisionale di ogni individuo, spesso delegato a qualcun altro, qualcuno più forte di noi, qualcuno che apparentemente è più autorevole (ed in una realtà in cui la donna era ancora estremamente subordinata all'uomo il potere decisionale che l'impiegato sperava potesse finalmente essere esclusivamente nelle mani di sua moglie rappresenta l'emancipazione dei più deboli dai dettami di chi detiene il potere) e che, in seguito alle prese di coscienza del protagonista di questa storia, non doveva essere d'altra persona se non di lei.

Ma la storia dell'impiegato non è finita qui. Anzi, la storia di questo piccolo borghese diventato rivoluzionario non ha una fine. Perché sebbene fosse finito in carcere, sebbene fosse stato privato di ogni libertà d'azione, il nostro eroe sfortunato non perse ciò che finalmente aveva conquistato: la libertà di pensiero, e di conseguenza la vita. Finora non ho accennato minimamente alla musica che accompagna le parole di Fabrizio De André, ma in questo caso è doveroso: il nostro eroe è stato imprigionato, ha sostanzialmente perso, teoricamente ci si dovrebbe aspettare una musica cupa, triste, carica di dolore. E invece no, l'atmosfera creata è ariosa, serena, forse un po' rassegnata, ma che da un senso di libertà. La stessa libertà che poteva respirare durante l'ora d'aria, ora d'aria che decise però di disertare perché non voleva condividere quel cortile con un secondino, ovvero con il simbolo dell'oppressione, del sistema, del potere. Fedele alla linea fino in fondo, e così si limitava a ragionare su tutto ciò che gli era capitato, a come con orgoglio rivendicava ogni sua azione, ogni sua presa di posizione, di coscienza, difendendo così, di fatto, la sua libertà mentale, che pian piano si stava diffondendo tra i suoi compagni di reclusione. Tanto da rinchiudere il secondino durante l'ora di libertà, rivoluzionando così le gerarchie, sebbene per poco tempo, sebbene per uno spazio limitato. E rivendicando anche quell'azione, cantando ancora una volta, un'altra volta ancora, e chissà quante altre volte: "Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti".

Questo è "Storia di un impiegato", un album che per decenni è stato censurato, nascosto ed anche raramente proposto nei live. Un disco anarchico, un disco che mette al centro la libertà decisionale di ogni singolo individuo, una libertà decisionale che, se incanalata nel verso giusto, non può che contribuire al bene di tutti. Perché lottare è una scelta, lottare è fare il bene, e facendo il bene si fa la cosa giusta. Altrimenti si può rimanere a guardare, si può assistere, si può vivere da spettatori non paganti, limitandosi a sopravvivere, a discolparsi, a pensare che tutto sommato va bene così... 

Sono ancora estremamente attuali queste canzoni di Fabrizio De André, e benché questo lo renda ancora vivo e presente, penso che non sia poi così felice di sapere che c'è ancora bisogno di ascoltare questo disco... significa che in quarant'anni non è cambiato niente, anzi... e significa che probabilmente queste canzoni non sono state poi così utili... fino ad ora...





Stefano Tortelli

sabato 25 aprile 2015

Le stelle, grandi motori di un sistema perfetto




Raramente non ho avuto rispetto di un oggetto. Ogni oggetto con cui abbiamo a che fare è frutto del lavoro di qualcun altro, e non averne cura sarebbe, in un certo senso, come mancare di rispetto alla persona che ha dedicato la sua conoscenza per renderlo usufruibile, utilizzabile. E, in una società globalizzata come la nostra, dove è già tanto avere la sicurezza della provenienza di ciò che acquistiamo e, quindi, usiamo, è probabilmente impossibile conoscere la persona che con le sue sapienti mani ha reso un prodotto finito materiali di per sé apparentemente inutili. Ma ciò non toglie che il rispetto per questa persona o per più persone è dovuto, secondo me. Del resto fino a che c'era uno stretto legame tra il produttore e l'oggetto prodotto, quando ancora l'industria contava più sugli individui che sulle macchine, la perfetta riuscita del lavoro era una gratificazione per l'operaio, e questo concetto si può estendere alle coltivazioni, alle estrazioni minerarie, per non parlare di tutta l'industria o l'artigianato manifatturiero. Poi, con l'avvento dell'industrializzazione e dell'automatizzazione, promossa dalla catena di montaggio, la stretta correlazione è venuta a mancare, portando all'alienazione, all'assenza di un rapporto tra l'io che produce ed il prodotto finito. Hegel la spiega molto meglio di me questa questione, e benché per tanti è il filosofo promotore del capitalismo io sostengo invece che sia il precursore di Marx e di tutta la corrente anti-capitalista della filosofia occidentale. 

In ogni caso, spogliando le mie considerazioni di ogni caratteristica politica e restando soltanto nell'universo umanistico e spirituale, ogni oggetto merita rispetto in quanto qualcosa di esistente, e, nella mia concezione dell'universo, dotato di una carica energetica, una sorta di anima. Ed è per questo che non mi piacciono certe scale di valori adottate da certe organizzazioni ambientaliste, che mettono al primo posto gli animali di compagnia, poi gli animali di allevamento, poi i mammiferi in via di estinzione, i mammiferi in genere e gli uccelli... qualcuno va oltre prendendo in considerazione i pesci, ma già i rettili, dopo secoli di rigetto religioso nei loro confronti, sono poco calcolati, per non parlare degli invertebrati... quando poi si tratta di passare ad un altro regno, già il discorso è incasinatissimo: perché molti animalisti hanno i paraocchi e non considerano il regno vegetale, molti ambientalisti si fermano a questi due regni, altri li calcolano tutti... ma poi, quando si parla di ciò che è inanimato, la stragrande maggioranza tace. C'è considerazione verso l'acqua, verso il riscaldamento globale che si strumentalizza per altri scopi, ma poi, il silenzio. Tra l'altro sul riscaldamento globale bisognerebbe aprire una parentesi, dire che stiamo uscendo da una piccola glaciazione, tenere conto della ciclicità de periodi climatici, asserire che forse se i leoni e gli elefanti ancora 2000 anni fa erano in Sicilia e poi sono scomparsi forse la colpa non è solo dei Romani che li uccidevano ma anche di un cambiamento climatico che ne ha ridotto l'habitat naturale. Resta comunque il fatto che credo che il rispetto si debba avere per ogni singolo elemento che compone la Terra, e pensare anche che, se proprio si volesse fare una scala di valori, al primo posto bisognerebbe mettere in coabitazione l'acqua e la terra, elementi che combinandosi tra loro pongono i primi presupposti per far sì che ci sia la vita. E tutto questo è detto in modo estremamente semplicistico, senza considerare l'apporto imprescindibile che hanno tutti gli elementi rocciosi che forniscono i minerali per rendere terreno fertile la vita e concime fertile l'acqua. E stimo questi due elementi, perché nulla chiedono in cambio, nulla pretendono da chi di loro si serve per essere, esserci, esistere. 

Sono questi, in effetti, gli elementi che primariamente gli astronomi cercano al di fuori della nostra atmosfera per stabilire dove sarebbe possibile trovare vita o sbarcare per rendere una nuova Terra un altro pianeta, ed è per questo che l'attenzione in primis viene data a Marte, il pianeta a noi più vicino che ha una temperatura tale da poter preservare l'acqua, sebbene in un stato solido, sotto forma di ghiaccio: perché Venere è bollente, Mercurio lo è di più, i pianeti gassosi non hanno superficie, e tutt'al più possono avere alcuni satelliti interessanti per creare delle basi d'appoggio ma non delle vere e proprie città. Perché manca l'atmosfera, la gravità sarebbe presumibilmente troppo forte per qualsiasi realtà che deve durare nel tempo. Resta Marte, nel sistema solare. Ed al di fuori? Al di fuori si cerca la "fascia dei riccioli d'oro", ovvero la fascia abitabile, quella che si trova ad una distanza sufficiente ma non eccessiva per far sì che un pianeta possa avere acqua allo stato liquido: un altro pianeta come il nostro in tutto e per tutto. 

Ma questi pianeti necessitano di energia, necessitano della fonte primaria della vita: più dell'acqua, più della terra, più dei minerali, più della vita stessa. Necessitano del Sole, necessitano di una stella in grado di alimentarli ogni giorno, in grado di dar loro la forza, in grado di dare l'energia necessaria ad ogni eventuale forma di vita che questi pianeti ospitano per far sì che nasca, che sopravviva, che cresca al meglio, che evolva, che sia anch'essa, poi, necessaria ad altri elementi dell'universo. "Le stelle sono tante, milioni di milioni", e sono secondo me la più grande forma di "vita" esistente nell'universo: nascono, crescono, creano tutto ciò che le circonda, e dopo averlo creato lo preservano, lo alimentano, lo migliorano. E non pretendono nulla in cambio, non si pongono il problema di ricevere tanto quanto danno, men che meno di ricevere di più. Se ne stanno lì, a roteare su se stesse, bruciando, creando energia con la quale irradiare il proprio sistema solare, che è da esse sì dipendente ma che mai hanno chiesto, preteso.

Sarebbe bello se, oltre ad avere un'anima, ogni elemento dell'universo potesse parlare, perché sarebbe interessante scoprire con che animo si prodiga per tutti gli altri elementi. Credo comunque che le stelle siano qualcosa di santo, di divino, di sovrannaturale, perché del resto è così che vengono considerati gli uomini e le donne che si sono comportati in questo modo nei confronti dei propri simili e del proprio mondo: dando tantissimo, ricevendo poco o nulla, finendo però poi sui libri di storia, sui calendari religiosi, nelle leggende e nei miti. Credo anche che le stelle, con i loro sistemi solari, siano la più grande manifestazione di quel che è un sistema anarchico perfetto, dove tutti fanno la loro parte, dove tutti hanno il giusto per poter essere al meglio delle proprie potenzialità, per potersi esprimere, per poter essere, esserci ed esistere. Senza aver bisogno di resistere, sempre che qualcosa al loro interno non ne mini la stabilità. 

E proprio noi, che siamo in parte i responsabili dell'instabilità del nostro pianeta, già solo per la sovrappopolazione che lo sta portando ad essere insufficiente per il fabbisogno di ogni individuo e di ogni essere che è ospite della Terra, siamo stati fin dall'alba dei tempi devoti al Sole: l'abbiamo divinizzato in ogni angolo del globo chiamandolo, ognuno con la propria lingua, Dio. E, paradossalmente, sarà proprio lui a determinare quando arriverà l'Apocalisse, a far cessare la vita ovunque. E non per cattiveria, non perché è un dio vendicativo, ma per il semplice fatto che, venendo a mancare lui, il sistema anarchico perfetto collasserà, finirà nel caos, finirà nella distruzione. Scomparirà.

Fortunatamente di tempo per ammirare il sole e tutte le altre stelle ne abbiamo molto, e penso che sia giusto e doveroso continuare a sorrider loro, a guardarli con ammirazione, a desiderare che non si spengano mai. E mi piacerebbe che si ricominciasse a dar loro un nome come facevano i nostri avi anziché una sigla seguita da un numero: sono loro le divinità, non noi, e non è rispettoso trattare come elementi da catalogo qualcosa di così meraviglioso. 

Del resto le notti stellate sono uno spettacolo indescrivibile, e chissà che a volte, anche loro, prendendosi una pausa dal loro incessante lavoro, non si fermino a guardare verso di noi anche solo per un istante.



Stefano Tortelli



lunedì 30 marzo 2015

"La buona novella" di Fabrizio De André

La prima copertina di La buona novella (1970)



Ieri era la Domenica delle Palme, giorno in cui comincia la settimana santa, i sette giorni più importanti del Nuovo Testamento, quelli in cui Gesù è finalmente giunto a Gerusalemme, pronto a predicare nella capitale di Israele. A Gerusalemme però troverà la morte, ucciso dai Romani per volere dei Farisei, tradito dal suo amico Giuda e rinnegato da Pietro, colui che da più tempo lo seguiva e che di lui prenderà, per primo, il testimone. Potrà sembrare paradossale, ma è proprio in questi pochi giorni che emerge secondo me la natura umana, terrena e temporale della figura di Gesù. Non i miracoli, non la discendenza diretta da Dio, non le sue parole apparentemente trascendentali sono il cardine delle sue ultime ore, ma elementi comuni nella vita di ognuno di noi. Il tradimento da parte di un amico, l'apprensione di chi ci ama per il nostro futuro, la disperazione di una madre e di una compagna di fronte alla morte del figlio e del partner, il disprezzo e l'odio di chi teme un individuo così speciale, così carismatico, così "potente". E la morte in sé, propria di ogni essere vivente, elemento imprescindibile di ogni realtà che può esser definita tale. Ciò che vive deve morire, poiché se non muore presumibilmente non ha mai vissuto. E' biologia, è scienza. 

Gesù come uomo, come uno di noi, come persona che nasce, vive, muore e lascia un ricordo immortale, tanto da risorgere ogni giorno nella mente di miliardi di persone. Ed è su questo che gioca Fabrizio De André, è la natura umana del Cristo che risalta ne "La buona novella", l'album che l'ha sostanzialmente consacrato nel panorama del cantautorato italiano. Parla di Gesù questo disco, ma parla di Gesù attraverso le bocche di chi gli ha dato vita, di chi l'ha cresciuto, di chi l'ha visto morire, di chi, con un solo sguardo, condividendo con lui il momento più tragico della propria esistenza, l'ha capito ed apprezzato, ammirato, tanto da rimanere lui stesso impresso, per sempre, nella mente del Cristo. Di fatto, Gesù non viene mai nominato in tutto l'album ma è presente in ogni singola canzone. Gesù ce lo immaginiamo come naturale conseguenza al matrimonio combinato tra Maria, ancora bambina, e Giuseppe, lo vediamo tra le mani di Giuseppe piene attorno ai fianchi di Maria prima che lei racconti il suo sogno, prima che lei, di fatto, confessi il suo tradimento, è nella dolcezza di Ave Maria, dove viene cantata la meraviglia della gravidanza, del parto, del passare dall'essere femmina all'essere madre. Un inno alle donne e, per inciso, la più bella canzone che mai sia stata scritta per l'altra metà del cielo. E c'è poi nel presagio di morte che viene scandito dal ritmo marziale che accompagna il dialogo tra Maria ed il falegname che sta ultimando le croci sulle quali moriranno Gesù, Tito e Dimaco, nella frenesia e nella tensione delle ultime ore, che nonostante glorifichino ciò che di grande quell'uomo aveva fatto ed i semi che aveva seminato per l'avvenire mettono in luce la naturale paura della morte, il suo rifiuto, la voglia di vivere ancora. Cosa c'è di più umano e naturale di tutto ciò? C'è il dolore di tre madri che devono sopravvivere ai rispettivi figli, che vedono il loro amore ed i loro sforzi agonizzare in croce. E c'è il porsi quesiti fino all'ultimo secondo di vita di un uomo, che dieci volte si chiede il senso di regole divine che, di fatto, non vengono rispettate in primis da chi queste leggi vuol fare rispettare. 

Non è Dio e non è la religione che trionfa, ma l'uomo, la sua capacità di autodeterminazione, la sua emotività, il suo errare ed il suo desiderare, il suo non voler sottostare non tanto a leggi divine ma leggi naturali. Ed a spiegare il corpus di questo disco sono la prima e l'ultima traccia, simili nella melodia ma totalmente opposte nel contenuto, nel testo, nel titolo. Da "Laudate dominum" a "Laudate hominem" il passo è breve, dal voler vedere lontano e trascendentale una figura come Gesù al sentirla realmente come un nostro fratello è sufficiente prendere coscienza della realtà storica del Cristo, immortale non tanto perché semidivina ma perché sulla Terra ha lasciato un ricordo indelebile, indimenticabile. 

De André ha raccontato vita e morte di Gesù, ha fatto risaltare la sua grandezza attraverso l'amore ed il dolore della madre, la stima di Tito, il fermento che ne ha caratterizzato la fine. E probabilmente non sarebbe stato tanto diverso come disco se al posto di Gesù ci fosse stato un altro grande personaggio della storia dell'uomo, ma umanizzando Gesù ha eliminato ogni scusa ad ogni uomo di non dover provare ad essere migliore solo perché non divino. Del resto questi sono alcuni dei cardini dell'anarchia: l'autodeterminazione, la libertà che finisce dove inizia quella di un altro individuo, il divincolarsi da schemi malati e precostruiti, che siano questi di natura religiosa o temporale. 

"Storia di un impiegato" sarà sì estremamente diretto e senza fronzoli, ma "La buona novella" è ancor più ricco di significato, è ancor più politico, è soprattutto è più attuale. Più reale. 

E come ogni anno, sotto Pasqua, eccomi ad ascoltare "La buona novella". Un rito ateo, un ossimoro. Ma, come la religione, quando viene messa in gioco l'emotività, c'è poco da sindacare. Resta solo da premere play.




Stefano Tortelli

sabato 24 gennaio 2015

Oniriche danze... nelle stanze della Signora Libertà, Signorina Anarchia, Donna Rivoluzione




I miei sogni sono da sempre molto condizionati da ciò che ho pensato, vissuto, letto, detto, visto il giorno prima. Come i sogni che, secondo Freud, sono tipici dei bambini, i miei prendono spunto dalle ultime esperienze e, come un abile regista, il mio subconscio crea spesso delle parodie alquanto pacchiane della realtà, altre volte la implementa di elementi fantastici che, tutto sommato, sarebbe bello esistessero, altre volte ancora, ma più raramente e come oggi pomeriggio (forse anche a causa della stessa influenza che mi porto avanti da ormai un mese e che puntualmente, nel weekend, si palesa in tutta la sua grandezza), con allegorie degne dei più grandi sceneggiatori di Hollywood o Cinecittà.

Domani ci saranno le elezioni in Grecia, c'è aria di cambiamento e rivoluzione, ma come riportavo nel post riguardante l'anniversario della fondazione del PCI non sono pochi i pseudo-compagni che sputano sentenze a sproposito su Tsipras e sul suo partito. "E' un prodotto del capitalismo!!!", "Partecipa a libere elezioni! Le libere elezioni sono democratiche! La democrazia è figlia del sistema capitalistico!!", "Tsipras non ha mai detto di essere comunista! I comunisti sono altri!", e puttanate varie (puttanate nel vero senso della parola, perché sotto sotto questi elementi, quando sono soli con una penna ed una scheda elettorale davanti, se va bene fanno la croce sul PD... se va bene... quindi sono prostitute, si vendono in cambio anche solo del poter dire: "Ohhh, sìììì! Ho vinto le elezioni", ma tra sé e sé, perché fuori dalla cabina elettorale loro hanno votato comunista): questi sono i commenti delle menti eccelse che bazzicano le pagine anarcomuniste di Facebook, gente che parla parla ma non ha mai fatto nulla, o che tuttalpiù ha partecipato a qualche occupazione con quelli dei centri sociali (gente che, per inciso, di comunista o anarchico ha ben poco). Solo che ripeto, alla gente piace mostrarsi migliore degli altri, anche quando gli altri sono come te, sono tuoi fratelli e tuoi compagni, sono quelli con i quali potresti fare la rivoluzione. Logicamente poi arriva il vero compagno di turno che si prende gli insulti da questi, ed arriva il secondo vero compagno a dire: "Beh, vi preoccupate dei fascisti, ma tanto a distruggerci ci pensiamo già noi". Tutte queste questioni evidentemente hanno condizionato il mio subconscio, che nel momento in cui è stato chiamato all'opera dall'emittente che mi fornisce i sogni quotidiani ha dato vita ad un'allegoria meravigliosa che ora proverò a raccontare.

Era pomeriggio, ero in compagnia. C'erano un paio di ragazze ed un paio di ragazzi, camminavamo per le strade di una grande città. Non era Torino, non era Bologna, non era Roma o Milano. Era una città immaginaria, senza nome, ma chiaramente moderna, caratterizzata da grandi palazzi, larghe strade e numerose insegne. Le strade erano però deserte, come quelle proprie di una città soggetta al coprifuoco, o come quelle che si possono percorrere durante degli eventi di portata mondiale che, ovviamente, vengono vissuti in solitudine davanti alle televisioni. In quel momento, comunque, la città era nostra, e le nostre parole rompevano il silenzio della via abbandonata dall'uomo. I nostri discorsi spesso erano confusi, ed a caratterizzarli, almeno agli inizi, erano i nostri modi di essere, il nostro abbigliamento, i nostri volti. I due ragazzi, come me, avevano i capelli lunghi e la barba, indossavano vestiti propri degli anni '70, della contestazione studentesca, delle lotte nelle piazze; le ragazze avevano sguardi intensi, capelli lunghissimi, una delle due era mulatta, l'altra europea ma con un abbigliamento tipico dell'America del Sud. Sapevamo che stava per succedere qualcosa di estremamente epocale, ne stavamo parlando, sorridevamo, ma allo stesso tempo eravamo tesi, inquieti: si era fatto tutto il possibile, ma chissà se quel possibile era sufficiente, chissà se si era lasciato comunque qualcosa di intentato. Si stava facendo buio in quella città senza nome, e la compagnia di cinque persone si era ridotta. Eravamo rimasti in tre: l'europea, uno dei due compagni ed io. Eravamo sotto casa del ragazzo: un palazzo altissimo, tipico delle periferie industriali, anonimo all'esterno ma ricco di particolari all'interno di ogni appartamento caratterizzanti la provenienza, le idee, le attitudini di chi lo abitava. Una volta salutato eravamo rimasti solo più lei ed io. I discorsi si stavano facendo sempre più fitti ed intensi, gli occhi di entrambi erano sempre più luminosi, un po' per le emozioni e la commozione, un po' perché se si crede a ciò che si dice, se ci si crede veramente, è impossibile nasconderlo: il fuoco negli occhi vale più di mille parole. Lei però era estremamente preoccupata, tesa, aveva paura. Cercavo di tranquillizzarla, ed ad un certo punto ecco che il sogno diventa un po' più chiaro: era il giorno prima delle elezioni politiche in quel luogo, lei aveva 29 anni e, se le cose fossero andate bene, sarebbe salita al potere. Una donna, under 30, primo ministro di uno Stato. La libertà, l'anarchia fatta persona era in procinto di sedere al vertice di una Nazione. Eravamo giunti davanti al portone del suo palazzo: "Non voglio rimanere sola stanotte, non voglio sognare da sola, non voglio svegliarmi da sola". Salivamo insieme le scale, ed il mio conscio, mentre ancora la pellicola del sogno si stava proiettando sulle palpebre chiuse, mi suggeriva che qui le cose stavano facendosi estremamente interessanti. Stavo per condividere il letto con la Rivoluzione, stavo per fare l'amore con il desiderio di Libertà, stavo per riposare al fianco dell'Anarchia. La Rivoluzione, la Libertà, l'Anarchia stavano per essere alla guida di una realtà europea grazie ai meccanismi propri della democrazia, grazie all'impegno di compagne e compagni, grazie all'unione e non alla divisione.
Era mattina ormai, ci eravamo rivestiti e, senza quasi aver chiuso occhio, dovevamo raggiungere il nostro futuro. La mia donna ed io eravamo pronti per quello che sarebbe stato il nostro compito per gli anni a venire: guidare i giovani, guidare il paese, renderlo un posto migliore, per tutti. Per gli studenti, per gli operai, per gli stranieri, per le donne e per gli uomini di ogni provenienza e "direzione", di ogni condizione economica e di ogni estrazione sociale. L'ansia non era poca, ma la voglia di vivere tutto questo era troppa per venire turbata dal timore.

Mi sono poi svegliato, colpito ed emozionato dal sogno. Ci ho pensato su, e ci sto pensando tutt'ora. Quella donna non mi ricordava nessuna ragazza che ho incontrato ultimamente o che ho vissuto in passato, come non ci son legami tra la ragazza mulatta ed i due ragazzi con la realtà. Ci son solo i paralleli nelle elezioni (ma in Grecia) e negli ideali, sempre presenti nella mia vita, che io stia dormendo o sia sveglio. Raccontando il sogno ho però chiaramente fatto riferimento alla personificazione della Libertà e dell'Anarchia propri di Fabrizio De André nella sua canzone "Se ti tagliassero a pezzetti". Ho però voluto aggiungere un terzo elemento in questa ragazza dubbiosa ma desiderosa di trionfare, con me al mio fianco: la Rivoluzione. E voglio sottolineare che la rivoluzione, prima di essere un aspetto collettivo, dev'essere individuale, dev'essere una spinta che parte dall'interno, dall'inconscio... dal subconscio.


Sarà per questo che si parla di sogni quando si desidera ardentemente qualcosa. E' il nostro subconscio che ci mostra la direzione, ma la strada da prendere e, soprattutto, la decisione di percorrerla o meno, è tutta qui, nel mondo reale, nella nostra volontà.

Ps: raramente parlo di anarchia, e mai mi sono considerato anarchico. Solo che, da più parti, dopo la lettura dell'ultimo post sono stato definito tale, non come insulto ma come elogio. Mi fa piacere ma, come per ogni etichetta, passo oltre, limitandomi a scrivere quel che più rispecchia il mio modo di pensare, di essere e di agire. Per rifugiarmi in un'etichetta ho una vita intera.