Visualizzazione post con etichetta socialismo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta socialismo. Mostra tutti i post

venerdì 8 aprile 2016

La mente di un bambino in un mondo senza soldi

Da Into the wild




Per riuscire a collocare nella mia infanzia ciò che sto per andare a raccontare ho dovuto snocciolare le tante carriere lavorative che da piccolo si erano alternate nei miei desideri. A cinque anni, prima delle elementari, volevo fare il veterinario: ero circondato da animali, e poterli assistere, curarli e star loro vicino mi sembrava una bellissima prospettiva! Poi, a sei anni, complici alcune letture sui dinosauri e sullo spazio, desideravo diventare paleontologo o astronauta. Sai che spettacolo andare nel deserto e cercare i resti di un dinosauro, oppure salire su una navicella spaziale e poter guardare la terra dall'esterno?

Ad otto anni, visto che il veterinario sarebbe stato un casino perché ero allergico al pelo del gatto (e sarebbe stato brutto fare il veterinario solo per altri animali, quasi razzista!), visto che i dinosauri avevano un po' perso di fascino e visto che la carriera di astronauta mi dava alcune preoccupazioni visto il mio terrore, allora, nei confronti degli alieni, ripiegai sul costruire ponti. Non so perché volevo costruire ponti, e forse questo tarlo dei ponti si è “metaforizzato” e, con gli studi che poi effettivamente ho fatto, qualche “ponte” potrei anche riuscire a costruirlo...

Chiesi a mia mamma che cosa sarei dovuto diventare, e lei mi disse: “Ingegnere o architetto. Ma meglio ingegnere, tu ami la matematica (amore poi non più corrisposto), saresti bravissimo e ti toglieresti tante soddisfazioni!” “Ma mamma, hanno tanti soldi gli ingegneri?” “Sì, Stefano“Ah sì??” “Eh sì, gli ingegneri guadagnano tanto perché le cose che fanno servono a tante persone!” Subito pensai che avesse ragione: un ponte deve stare in piedi per tanti anni, deve essere funzionale, deve dare la possibilità a migliaia di automobili, di camion, di trattori, di mietitrebbie (non potevo non citare le mietitrebbie, amavo le mietitrebbie da bambino) di andare dove devono andare. Poi però pensai: “Ok, ma anche gli ingegneri devono mangiare. E mangiano quanto i miei genitori. Anche gli ingegneri hanno bisogno di una casa, di vestiti, di tutto ciò di cui ha bisogno la mia famiglia e che la mia famiglia si può permettere. E non gliene servono di più che a papà!” Poi pensai che alla fin fine, se un ingegnere non può andare a lavorare, viene licenziato e non guadagna più. E per andare a lavorare necessità di strade, e ok, può farle lui, ma chi le costruisce? Ha bisogno di una macchina, e chi costruisce la macchina? Chi lavora i materiali necessari per costruire la macchina? E poi la macchina non va da sola, serve la benzina, servono i benzinai.

E tra l'altro l'ingegnere deve mangiare, c'è bisogno che qualcuno coltivi il cibo, allevi il bestiame, prepari il pane, i dolci (anche gli ingegneri mangiano dolci, no?). L'ingegnere ha bisogno che un sacco di persone lavorino “per” lui, e queste persone potrebbero sfruttare il suo ponte per i loro spostamenti. Non è uno scambio questo? “Mamma, ma i soldi, se tutti lavorano e tutti fanno qualcosa per gli altri, in un modo o nell'altro, a che cosa servono? Papà fa le macchine, se una persona usa una macchina che lui ha fatto gratuitamente, e questa persona è un insegnante, potrebbe insegnare a me gratuitamente, no? E se fosse un panettiere potrebbe darci il pane, cose così”... “Sì Stefano, ma ogni cosa ha un suo valore e per cui più soldi hai e più cose di valore puoi comprare!!” “Ok mamma, ma anche per fare le cose che valgono di più serve qualcuno che lavori, quindi alla fine i soldi non servono! Mamma, i soldi non servono. Ma si potrà vivere senza soldi prima o poi?” “Non credo, Stefano. Ma è già una bella cosa pensarlo, sperarlo.”

“Mamma, ma i soldi sono sempre esistiti?” “No Stefano, li ha inventati l'uomo."“E prima come facevano?” “Eh, si scambiavano le cose” “Ecco, non è uno scambio anche il MIO?” “Sì...” “E non erano più tranquilli gli antichi?” “Sì, forse sì, Stefano...”

Ora, non so se la conversazione andò propriamente così, sicuramente non usai questo tipo di linguaggio, ma quel giorno mi si aprì un mondo. Pensavo al mio paese, a 5000 persone che, senza aver bisogno di guidare, di utilizzare particolari strumenti, senza avere troppe pretese potevano vivere tranquillamente mangiando ciò che veniva coltivato, costruendo con i materiali che qui si producono, allevare il bestiame e mangiarne la carne, imparare ed insegnare, curarsi e farsi curare... e per 5000 persone ci sarebbe stato fin troppo cibo, fin troppa sabbia, fin troppa ghiaia, che si sarebbe potuta scambiare... e questa cosa con non troppe difficoltà, questa microsocietà insomma, si sarebbe potuta espandere a livello provinciale, regionale, nazionale, mondiale.. tutti ovviamente dovevano lavorare per poter avere a disposizione ciò che reputavano necessario, tutti avrebbero potuto tranquillamente godere di ogni cosa figlia del lavoro degli altri perché il loro lavoro dava altre cose che avrebbero soddisfatto le altre persone. Senza la mediazione dei soldi, senza capitali fermi e quindi inutili, senza evasioni, senza menate... E quel che sarebbe mancato in un posto si sarebbe scambiato con ciò che avanzava, dando la possibilità ad altri di avere ciò che da soli non potevano produrre o reperire...

E così tutti avremmo avuto da mangiare, tutti avremmo avuto da bere, tutti avremmo remato nella stessa direzione per uno sviluppo sempre maggiore, funzionale al bene comune... non ci sarebbero stati problemi legati al nucleare o ai carboni fossili perché già ora avremmo auto ad idrogeno, elettriche, ad impatto zero... e magari sarebbero state meno performanti rispetto a quelle attuali, ma pace, perché i ritardi non sarebbero stati un problema, non ci sarebbe stato il timore di rimanere senza soldi a causa di un licenziamento... tutti vivremmo più sereni, più tranquilli, più sani, in armonia.

Certo, per fare tutto questo sarebbe necessaria una rettitudine morale di ogni individuo, ma questa rettitudine secondo me è andata a perdersi proprio a causa della creazione del denaro, portando gli individui a cercare escamotage per averne di più con uno sforzo sempre minore...

Togli il denaro a questo pianeta, e lo salverai. Togli il potere a chi lo brama soltanto per fare i propri comodi economicamente, e vedrai che, in assenza di denaro, chi prima desiderava potere sarà l'ultimo a volerlo, perché dovrà fare senza un rendiconto visibile al bancomat.

La nostra è una società malata di tumore, un tumore che ha colpito ognuno di noi, e dal quale ci si può curare soltanto eliminando le cellule tumorali. Le cellule tumorali sono i soldi.


Ci vorrà un cataclisma di dimensioni epiche per poter avere le condizioni necessarie ad attuare tutto ciò, l'intervento di un'entità extraterrestre, una tempesta elettrica che resetta ogni conto in banca esistente... nell'eventualità queste cose non succedessero, siamo, ahimè, condannati all'estinzione... e, la cosa buffa, e che non sarò neppure soddisfatto nel poter dire, in punto di morte “Però, c'avevo visto lungo...”




Stefano Tortelli

giovedì 15 ottobre 2015

Giovani assopiti: il fallimento delle generazioni precedenti.






La canzone O cara moglie di Ivan Della Mea è del 1966. Una canzone ambientata nel periodo dei grandi scioperi, dei picchetti ai cancelli delle fabbriche, delle lotte tra gli operai ed i capi, ma anche tra scioperanti e crumiri. 

Era un periodo profondamente democratico, molto più democratico di quello che stiamo vivendo adesso. Perché è vero, molti diritti non erano ancora stati conquistati (o forse concessi!?), in determinati campi (libertà sessuale, libertà di scelta riguardo ad aborto e divorzio) eravamo ancora estremamente indietro, ma ai tempi valeva la legge del 50% più uno: se per un determinato diritto si mobilitava la maggioranza, che fosse a livello microsociale (un'azienda, una località) o macrosociale (lo Stato intero), questo diritto facilmente veniva conquistato. E non sono così convinto che, ai tempi, si combattesse per determinati diritti perché ci si ritrovava ridotti alla fame o perché non si riusciva a sopperire ai propri bisogni con gli status quo che sussistevano allora. Credo invece che, tra gli anni '60 e gli anni '70, c'era un senso di collettivo, di appartenenza ad una determinata classe sociale, c'era il desiderio di anteporre il bisogno di tutti a quello individuale, senza mai comunque perdere di vista la dignità del singolo individuo, cosa che invece è venuta a mancare nel momento in cui l'opportunismo, la necessità del superfluo e la prevaricazione sono entrati nella mente di tanti che fino a poco prima avevano combattuto per giuste cause. Come cantava Pietrangeli, del resto, "Se il vento fischiava ora fischia più forte, le idee di rivolta non sono mai morte,se c'è chi lo afferma non state a sentire, è uno che vuole soltanto tradire; se c'è chi lo afferma sputategli addosso, la bandiera rossa gettato ha in un fosso", e perciò, forse forse, socialisti, questi, non erano mai stati. 

Ma lasciando perdere chi ha cambiato colore man mano che è riuscito ad ottenere ciò di cui necessitava sfruttando qualsiasi mezzo a sua disposizione, vorrei soffermarmi sulla tanto paventata crisi di valori degli ultimi anni, soprattutto nella generazione che rappresento, quella dei giovani tra i venti ed i trent'anni. Noi siamo cresciuti nel ventennio berlusconiano, abbiamo avuto modo di sentire man mano, crescendo, le ripercussioni di politiche distruttive, le quali hanno minato alla base lo stato sociale, la scuola, la libertà d'informazione, la capacità di discernere tra il giusto e lo sbagliato. Siamo cresciuti nell'opulenza, e chi più chi meno abbiamo comunque assorbito un certo modo di vivere, di pensare, di agire. Tutto questo è sicuramente frutto di vent'anni di mal governo, che è però riuscito a destabilizzare così audacemente tutto ciò che poteva darci una cultura di base che siamo cresciuti sostanzialmente ignoranti, privi di reali interessi, assuefatti dalla televisione e dalle vane promesse di Silvio e soci. 

E' vero, siamo ignoranti, privi di stimoli, incapaci di agire in senso collettivo, abbiamo perso ogni contatto con le realtà di insieme: in primis quelle che riguardano i nostri comuni, le nostre regioni, poi quelle che riguardano il nostro Stato, infine quelle che riguardano il mondo intero. E' vero, ci facciamo abbindolare, dobbiamo avere paura dell'Isis, fidarci degli Stati Uniti, lodare la Germania, guardare con sospetto Grecia e Russia, ed intanto farci dare i soldi dai nostri genitori o investire buona parte dei nostri stipendi da stagisti/apprendisti per comprare il nuovo I-Phone. Siamo un gregge, non c'è dubbio. Siamo un gregge come la generazione che ci ha anticipato, quella che ora ha tra i trenta ed i quarantacinque anni: quella che si è convinta che i contratti flessibili, i part-time fossero positivi perché davano libertà di azione. Peccato che questa libertà d'azione era sempre e comunque vincolata dal datore di lavoro di turno, quindi era immaginaria; quella che si è convinta che era bello poter avere a disposizione una pay tv attraverso la quale vedere le partite, i film in prima visione esclusiva ed assoluta, senza rendersi conto che così facendo ora sui canali in chiaro non danno più niente di nuovo perché i diritti sono quasi tutti di Sky o Mediaset Premium, e magari si lamentano anche del canone Rai; quella che si è venduta in toto, lasciandosi indirizzare verso il consumo folle incentivato dalle offerte, dalle rate, dagli abbonamenti, dai leasing.

E, andando ancora a ritroso, mi chiedo dove sia la grandezza delle generazioni passate se all'unico importante compito alle quali erano state chiamate, non tanto istituzionalmente e socialmente parlando ma a livello puramente biologico, hanno fallito miseramente. Dov'è la loro esperienza? A chi è stata tramandata? Per quale motivo i loro figli non sono stati cresciuti con il culto della lotta, della protesta e del collettivo? Siamo sicuri che due genitori siano più deboli della tv e degli stimoli esterni? Siamo sicuri che se è vero che la mia generazione non ha identità, spirito di condivisione e dignità individuale, questo non sia il frutto della perdita, in primis, di tutto questo da parte di chi ci ha cresciuti? Perché è tanto facile poi, a posteriori, dire che i giovani di adesso sono annoiati, statici, apatici. Ma è così che la maggior parte di noi è stata cresciuta, è così che ci ha voluto la società, ma è anche vero che è così che i nostri genitori ci hanno voluto far diventare. Quindi, prima di innanzi tutto generalizzare e dopodiché attaccare i giovani d'oggi, sarebbe il caso di chiedersi che ruolo si ha avuto all'interno di questo meccanismo di disgregazione del pensiero collettivo e della dignità individuale, che cosa non si è fatto per evitare che ciò accadesse e quali sbagli, come individuo e come generazione che si rappresenta, si sono commessi. E poi, magari, provare a riparare, insieme, senza vedere barriere generazionali. Di barriere ora come ora ce ne sono veramente tante, troppe, ed inserire pure quelle anagrafiche mi sembra piuttosto eccessivo e, ovviamente, controproducente.

Voglio concludere spiegando il perché io abbia cominciato l'articolo citando O cara moglie di Ivan Della Mea. Ecco, questa canzone viene ricordata soprattutto per il suo valore all'interno dell'antologia delle canzoni di protesta, poiché racconta per filo e per segno uno sciopero, i conflitti con i crumiri, l'odio verso il padrone e la differenza di risultati che derivano da una lotta totale che coinvolge tutta la forza lavoro ed una lotta frammentata. Quello che però è il messaggio più importante in questa canzone è il totale stravolgimento dello scenario d'apertura quando si giunge alla fine della canzone. Perché se all'inizio il figlio deve andare a dormire "perché le cose che io ho da dire, non sono cose che deve sentire", alla fine l'operaio si rende conto dell'errore, chiede alla moglie di richiamare il figlio perché "venga a sentire, perché ha da capire che cosa vuol dire lottare per la libertà". Ecco, ecco dove AVETE sbagliato. Vi siete fermati alle strofe centrali, alla lotta, all'estemporaneità dei fatti, senza pensare a ciò che a livello interiore questa potesse portare, ovvero alla comprensione che se è vero che certi argomenti sono difficili, a volte duri, sicuramente di difficile comprensione per un bambino o un ragazzino, questi valgono molto più di tante parole e raccomandazioni che da genitore si fanno, non tanto perché si vuole, ma perché si devono fare, perché fanno parte del ruolo del padre o della madre. Sarebbe invece stato il caso di parlare con i vostri figli di politica, o come minimo discuterne in loro presenza, far emergere le vostre preoccupazioni, i vostri disagi legati magari alle condizioni difficili sul posto di lavoro, all'essere in cassa integrazione, all'essere disoccupati. 

Forse si pensa di proteggere i figli mandandoli a dormire, evitando loro i discorsi che "non devon sentire"... ma così facendo non li si protegge, ne si posticipa soltanto il momento in cui saranno carne da macello per questo sistema cannibale.





Stefano Tortelli

martedì 14 luglio 2015

C'era una volta l'Internazionale



Torno a scrivere dopo quaranta giorni circa, una Quaresima dettata da un intervento chirurgico, e delle placche alla gola, ma anche dal caldo opprimente che nelle settimane passate ha contribuito non poco a rendere arido il fiume delle idee. Più volte ho provato a scrivere qualcosa, gli spunti non sono mai mancati, ma ho sempre trovato qualche difficoltà a dar loro forma, ad aumentarne la sostanza, a dar loro un'ordine. Già di loro, solitamente, sono anarchiche... figuriamoci nelle settimane appena trascorse.

Ma ora sono tornato, ed in un certo senso aspettavo questa giornata per riprendere in mano i "fogli" di questo blog, le pagine bianche ancora da scrivere e questa penna che in sé contiene tutti i caratteri dell'alfabeto. Perché oggi è l'anniversario della Rivoluzione Francese, di quel secondo atto di ribellione agli antichi poteri che ormai da secoli guidavano l'andamento dell'Europa e non solo. Dico secondo perché prima dei moti dei fautori della I Repubblica francese vi furono le lotte d'indipendenza dei coloni nordamericani contro la Corona inglese, sfociati in una guerra che portò successivamente alla stesura della prima Costituzione ed alla formazione degli Stati Uniti d'America. Erano partiti bene gli States, ma poi si son persi strada facendo... il loro però fu un esempio per i rivoluzionari d'Oltralpe, i quali costrinsero alla fuga il re, delegittimarono i nobili ed il clero, si costituirono in Repubblica, diedero un'identità di cittadino francese ad ogni individuo che partecipasse attivamente alla vita della neonata repubblica ed ispirarono, nei decenni successivi, rivoluzioni simili in altre aree del Vecchio Continente. E sarebbe stato bello fare un articolo dedicato alla Rivoluzione Francese, tema che mi è sempre stato a cuore sin dalla quinta elementare, quando portai l'argomento all'esame (un po' come fece Max Collini degli Offlaga Disco Pax, solo che lo fece qualche anno prima, ed in terza elementare), ma alla luce dei recenti avvenimenti è soltanto uno spunto per parlare dell'attualità, di ciò che sta succedendo non oltre i nostri monti ma oltre il mare che ci bagna sulla costa orientale. Perché se non c'è nulla di nuovo sul fronte occidentale, su quello orientale c'è una polveriera che sta per esplodere... e la colpa è di tutti noi, di tutta l'Europa, sia, ovviamente, delle destre capitaliste, sia, e nemmeno troppo a sorpresa, delle sinistre più radicali.

C'era una volta l'Internazionale. Siamo nel 1864, i moti rivoluzionari del 1848, sebbene con alterne fortune, avevano fortemente modificato l'opinione pubblica, o, ancor meglio, l'avevano creata, soprattutto nelle fasce medio basse della popolazione, le quali necessitavano di organismi che dessero voce alle loro istanze per poi mettere nella condizione i poteri forti di accorgersi del fatto che le acciaierie non funzionavano da sole, nemmeno le miniere, e nemmeno i raccolti erano spontanei. Spesso furono alcuni borghesi illuminati a farsi portavoce degli ammutoliti operai e contadini, e così poterono pian piano nascere i primi sindacati riconosciuti, i primi partiti realmente democratici, dove il concetto di democrazia non era "potere al popolo" inteso come "il popolo elegge e poi chi viene eletto fa gli affari propri" ma "potere al popolo" inteso come "il potere viene dato in mano alla massa, alla realtà più rappresentata". E la realtà più rappresentata non poteva che essere quella dei cittadini operai e dei contadini di campagna. Nacque così la classe operaia, nacque così il proletariato. O meglio, nacquero la presa di coscienza di essere parte di un'entità grandissima, potenzialmente imbattibile. Sempre nel 1848 Karl Marx e Friedrich Engels pubblicarono "Il manifesto del Partito Comunista", vero e proprio programma di partito di quella che fu la prima realtà politica comunista, la Lega dei comunisti. Dopo sedici anni, tornando così al punto iniziale della nostra storia, nacque quella che noi conosciamo come Prima Internazionale, ovvero l'Associazione internazionale dei lavoratori. In essa confluivano tutte le realtà politiche che si erano rese conto di come, per poter reggere un'economia già allora traballante (nel 1857 ci fu la prima crisi del sistema capitalistico), era necessario garantire una buona condizione di vita alla stragrande maggioranza della popolazione: perché vedete, se non fossimo così asfissiati da terminologie tecniche e da prese di posizione dovute a pregiudizi, e si volesse in modo molto semplicistico spiegare le varie correnti politiche, quella migliore per definire le sinistre è quella pocanzi descritta...

L'Internazionale aveva lo scopo di mettere a confronto le varie esperienze locali dei vari Stati, aveva la missione di dare un'organizzazione sovranazionale alle lotte politiche, ed al centro di ogni discussione vi era il popolo, e non l'equilibrio politico, non la questione morale, non esisteva una bilancia sulla quale pesare i pro ed i contro. La Prima Internazionale racchiudeva in sé non solo partiti chiaramente comunisti, ma anche laburisti, social democratici, anarchici, e sebbene spesso non andassero d'accordo avevano comunque il modo di parlarsi, di spiegarsi, talvolta di mandarsi a quel paese, ma per lo meno esisteva un confronto, quasi sempre produttivo. L'esperimento della Prima Internazionale si concluse nel 1872. Nel 1896 vi fu la Seconda Internazionale, che divenne sempre più potente, raccoglieva sempre più consensi, tant'è che per stroncarla, vent'anni dopo, si diede vita alla Prima Guerra Mondiale... ma non ditelo in giro, queste cose non si devono sapere... 

Nel primo dopoguerra vi fu la prima grande scissione, ovvero quella tra l'Internazionale, che divenne Internazionale Socialista, ed il Comintern, che raggruppava tutte le potenze comuniste del mondo. Ma il senso era sempre quello: confrontarsi, parlarsi, aiutarsi, imparare. Famosi sono i viaggi di Togliatti in terra sovietica, molto lui imparò dagli eroi della Rivoluzione d'Ottobre e molto i russi impararono da lui, tanto da dedicargli una città: c'era Stalingrado, c'era Leningrado, c'era (e c'è) Togliattigrado. Ed anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, quella guerra che vide l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche disintegrare il nazismo e dare una seria lezione all'Occidente capitalista, Comintern e Internazionale socialista continuarono ad operare, risultando sempre un ottimo laboratorio di idee, un ottimo utero dal quale poi partorire tanti figlie quante le lotte da combattere per conquistare i diritti nei vari Stati...

Sembra preistoria, ma alla fine stiamo parlando di cinquant'anni fa... ed ora cosa c'è? Ora c'è un povero socialista in Grecia che, solo contro tutti, abbandonato da qualsiasi possibile alleato di ogni Stato europeo, abbandonato anche dai comunisti della nazione ellenica, viene bersagliato da destra e sinistra per il fatto che ha accettato un patto che lo mette con le spalle al muro, in ginocchio la Grecia, ma in un certo senso salva il culo a tutti quei partiti delle altre nazioni che possono ancora vendere fumo negli occhi ai propri elettori dicendo che comunque dalla crisi si potrà uscire... perché se la Grecia fosse caduta, se Tsipras non avesse accettato, l'effetto domino sarebbe iniziato: Grecia, poi Italia, poi Spagna, poi Irlanda, poi Portogallo. I primi a cadere, proprio perché sacrificabili. E poi la Francia, poi le piccole nazioni... Perché il capitalismo è così, più mangia e più vorrebbe mangiare, e di certo non si ferma per pietà o perché sazio. 

Si sarebbe potuto evitare tutto questo? Certo, si sarebbe potuto evitare, ed in un modo anche molto semplice. Se è pur vero che il motto dividi et impera è estremamente valido, è anche vero che dividere qualcosa di fortemente coeso è molto difficile, se non impossibile. Se le potenze di sinistra d'Europa avessero appoggiato Syriza non solo a parole ma anche a fatti avrebbero potuto far sentire la loro voce nel contesto nazionale, e poi a Bruxelles ed a Strasburgo. Ovviamente sorge spontaneo il discorso relativo all'assenza di un partito di sinistra in Italia, ad esempio. Già, è vero, qui di Democratico c'è solo il nome, ma tutte le realtà extraparlamentari che finora hanno fatto a gara a chi aveva il martello più lungo o la falce più larga, se si fossero messe d'accordo avrebbero potuto dire: "Bene, ad alcuni di noi Syriza piace, ad altri no. Ma ora questo è l'esempio più a sinistra, o vista in un altro modo meno a destra, nella politica europea attuale. Proviamo a dar loro una mano, facciamo in modo che abbia successo, perché così il popolo greco ci guadagna ed intanto la nostra realtà comincia a riprendere una forma... e chissà che un giorno possa avere successo anche qui, in Italia, quel Paese che non meno di quarant'anni fa aveva il partito comunista più forte dell'Europa occidentale".

L'han fatto!? L'ha fatto qualcuno in altri Stati europei? No...

Qui giocano tutti con la nostra pelle, da Grillo a Salvini a Renzi a Rizzo e via dicendo... Questi stanno ore a parlare nei loro palazzi, durante i loro comizi, firmano accordi, li rispettano, li annullano, li aggirano... ma a loro poco cambia, se non l'acquisizione o la perdita di prestigio... e noi li guardiamo in tv, mentre proviamo a mettere insieme il pranzo con la cena, cercando di capire quale sarà il nostro boia...

E pensare che basterebbe un minimo di organizzazione... ci riuscivano Marx ed i suoi compagni di tutta Europa quando c'era solo il telegrafo ed i treni non superavano le 50 miglia orarie, per quale motivo non ci dovremmo riuscire noi!? 

Sarà che, tutto sommato, sentiamo ancora poco i morsi della fame... 




Stefano Tortelli

giovedì 23 aprile 2015

Dante Di Nanni, un eroe immigrato






Difficilmente dimenticherò i racconti di mia nonna riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale, soprattutto dei due anni che seguirono l'armistizio dell'8 settembre del 1943, quando talvolta i conflitti tra fascisti ed anti-fascisti erano una scusa per sistemare questioni in sospeso tra vicini di casa e talvolta come l'amicizia, l'affetto e l'aver affrontato tante situazioni difficili insieme fino a quel fatidico giorno andavano oltre ogni differenza ideologica e politica. Mi raccontava di come, quando fu sfollata, partecipava alle staffette partigiane, di come mio nonno, che allora era camicia nera, aiutò il figlio dei vicini, partigiano, a nascondere i fucili (che si infilò nei pantaloni, rischiando lui stesso la vita) che il comando fascista voleva trovare per avere la prova inconfutabile che fosse un nemico del fascismo. Ma anche degli atti gratuiti di violenza compiuti da banditi che si spacciavano per partigiani, sia nei suoi confronti (da parte di un presunto partigiano che la mise al muro con mio zio, ancora in fasce, in braccio... questo partigiano venne poi ucciso dai suoi stessi compagni perché traditore) sia nei confronti di alcuni tedeschi che tutto erano tranne che i nazisti che si vedono in tv. E mia nonna, che nonostante avesse personalmente sofferto più a causa dei partigiani che a causa dei fascisti (benché lei stessa fosse un'ardente anti-fascista già da prima dell'Armistizio), mai si sognò di fare di tutta l'erba un fascio, di estendere il suo odio nei confronti di un singolo partigiano a tutti i partigiani, come mai appoggiò, solo perché moglie di un camerata che ingenuamente viveva nel mito del Duce, il fascismo senza sé e senza ma (ed anzi venne malmenata durante una parata perché si rifiutò di fare il saluto fascista). Stiamo parlando di una donna di altri tempi, di una persona che già di per sé era speciale ma che, probabilmente, faceva anche parte di una generazione capace di discernere il bene dal male al di là del buono e del cattivo di turno. Del resto lei, quando ebbe mio zio nel '44, aveva appena 19 anni, mio nonno 18, e fu proprio a quella generazione che venne dato il compito di "sporcarsi le mani" per ricostruire un'Italia devastata dalla guerra. 

Vivevano in centro all'epoca della guerra, e non molto distante da dove lei ha vissuto quel capitolo della sua storia si stava consumando l'ennesima perdita illustre di un grande eroe della resistenza torinese, suo coetaneo, che morì due giorni prima del diciannovesimo compleanno di mia nonna. Era il 18 maggio, i genitori di Dante Di Nanni erano arrivati a Torino per lavorare dalla Puglia, lui a Torino lavorò studiando la sera, finché durante la seconda guerra mondiale non venne arruolato. Il giorno dell'Armistizio, come tanti soldati che avevano fino a quel giorno combattuto per il Duce ed il Re, scappò dalla caserma e raggiunse i primi partigiani, cominciando ad organizzare la Resistenza, cercando di creare un piano per piegare la dominazione nazi-fascista nel Piemonte. Era scappato a Boves, località non molto lontana da Cuneo, ma presto sarebbe tornato a Torino per lasciare il suo nome alla storia e le sue gesta in nome della nostra libertà. Il 17 maggio del 1944, con i suoi compagni di brigata, attaccò una stazione radio che creava interferenze sulle frequenze di Radio Londra: dovevano eliminarle per permettere alle comunicazioni di riprendere, per far sì che il coordinamento dei partigiani potesse nuovamente sussistere. Distrussero la stazione, risparmiarono la milizia di presidio facendosi promettere che non avrebbero denunciato l'attacco, ma vennero traditi. Presto ebbero i nazi-fascisti alle costole, presto vennero tutti feriti, alcuni catturati. Rimasero in due: Pesce e Di Nanni, quest'ultimo gravemente ferito ed accompagnato dall'amico in una via di Borgo S. Paolo, via San Bernardino, perché potesse essere medicato. Mentre Pesce cercava aiuto per far sì che l'amico potesse raggiungere l'ospedale trovò la sua casa circondata dal nemico, e ben presto anche l'alloggio dove si trovava Di Nanni fu preso d'assedio dalle truppe nazi-fasciste. 

Non so cosa scattò in Di Nanni in quel momento, ma credo che il suo atto sia uno dei più eroici che si possano immaginare: perché lui, già morente, sarebbe ormai morto in ogni caso, e che fosse per le ferite precedenti o per le ferite alle quali si era esposto poco sarebbe cambiato; perché lui la libertà per la quale stava dando la vita non l'avrebbe mai minimamente assaporata; perché, nonostante ciò, si armò di fucile, dinamite e bombe a mano e resistette all'assedio per quattro lunghe ore, uccidendo diversi miliziani e sabotando grazie ai suoi ordigni alcuni veicoli tedeschi. E, quando ormai era allo stremo delle forze e non più in grado di combattere, piuttosto che lasciare che fosse il nemico a prendere la sua vita decise di buttarsi, cadere nel vuoto, lanciandosi dal balcone al grido di "Viva il partito comunista".

Si suicidò, e con tutte le armi che aveva a sua disposizione poteva scegliere anche altri modi per porre fine alla sua eroica agonia. Ma voglio pensare che si sia lanciato dal balcone per versare il suo nobile sangue sulle strade lastricate della città che aveva accolto la sua famiglia, alla quale aveva dato lavoro, e che Dante aveva istruito, e poi avvicinato all'ideologia socialista. 

In Borgo San Paolo, da decenni ormai, una delle vie più belle del quartiere è a lui dedicata e si trova a poche decine di metri dalla casa di Via San Bernardino nella quale è nata la sua eroica storia. La storia di un figlio di una terra allora lontana come poteva essere la Puglia durante il ventennio fascista, la storia di un ragazzo che a Torino ha conosciuto il lavoro, la cultura, le idee, un ragazzo che prima in fabbrica e poi, di nascosto, sotto le armi ha maturato la sua decisione di dare una svolta a questo Paese appena si fosse presentata l'occasione di farlo, senza posticipare, senza tirarsi indietro, senza mollare nemmeno un centimetro. E non ha mollato nemmeno quando sapeva che ormai era finita, ha sparato ogni singola cartuccia urlante libertà fino a che ha avuto sufficiente sangue nelle sue vene per poter premere il grilletto, non dando nemmeno la soddisfazione ai suoi aspiranti carnefici di poter dire che l'avevano ucciso loro. Un eroe di altri tempi, un uomo di altri tempi, dello stesso anno di mia nonna, con gli stessi sogni di mia nonna. Lui è stato uno dei molti che ha messo i semi per far diventare realtà i sogni, mia nonna è stata una delle molte che ha fatto in modo che a questi semi non mancasse nulla. 

A lui è stata dedicata anche una canzone meravigliosa degli Stormy Six, ripresa da diversi artisti ma che, nella sua versione originale, soprattutto se ascoltata nel contesto dell'album dal quale è estratta (Un biglietto del tram, che non fatico a definire uno dei più grandi album riguardanti non solo la Resistenza ma l'intero periodo '42-'45, da Stalingrado all'arrivo degli Americani passando per Dante Di Nanni, gli scioperi di Torino e le persecuzioni degli ebrei), rappresenta un tributo emozionante e meraviglioso ad uno dei più grandi eroi di Torino, della Resistenza e dell'Italia intera.



Stefano Tortelli



sabato 7 marzo 2015

La giornata per le donne e contro gli stereotipi ed i luoghi comuni





Domani sarà l'8 marzo, la "Festa della Donna", una ricorrenza che ha importanza storica e politica, un giorno nel quale si dovrebbero esaltare le conquiste fatte in campo lavorativo e sociale da parte delle donne e degli uomini che con loro e per loro hanno lottato. Dovrebbe dunque essere un giorno di estrema unione tra le due "parti", una data sul calendario nella quale manifestare insieme l'uguaglianza sociale che riguarda le femmine ed i maschi. Dovrebbe essere questo, ma in verità è tutt'altro. E forse, in parte, è anche dovuto ad una parola che è stata mantenuta al singolare anziché venir riportata al plurale: "Festa della Donna" anziché "Festa delle Donne". Potrebbe anche sembrare un dettaglio, ma sottovalutare il potere della parola è un errore estremamente pericoloso. 

Di fatto, la prima Festa della donna è da collocarsi a New York e si è tenuta il 28 febbraio 1909, in seguito alle forti lotte sindacali che animarono la città statunitense già dal novembre dell'anno precedente: uno sciopero voluto dal Partito socialista americano che coinvolse principalmente ventimila camiciaie e che fu una delle prime grandi mobilitazioni "di genere" avvenuta dopo il VII congresso della II internazionale socialista del 1907, che si prefisse come obiettivi principali l'estensione dei diritti civili, lavorativi e sociali alle donne. Donne in quanto lavoratrici come i loro colleghi uomini, non donne in quanto femmine, visto che si chiedeva alle donne lavoratrici di allearsi agli uomini della stessa classe per conseguire i propri obiettivi e non appoggiandosi alle borghesi che reclamano il diritto di voto non tanto perché femmine quanto perché ricche. L'8 marzo 1917 scesero in piazza, a San Pietroburgo, migliaia di donne che reclamavano la fine della prima guerra mondiale e che vengono ricordate, per la loro azione e per quelle che ne seguirono, come le eroine della Rivoluzione di febbraio. E' quindi molto più probabile che l'8 marzo sia stato scelto per queste ragioni e non per commemorare la morte di 123 donne durante un incendio in una fabbrica newyorkese (che non si è verificato un 8 marzo ma il 25 marzo del 1911). Solo che farla passare come la ricorrenza delll'accidentale morte di donne operaie, per di più immigrate, negli Stati Uniti anziché riportare la verità ed asserire che ricorda la Rivoluzione di febbraio che diede il via alla Rivoluzione bolscevica ed al successo del comunismo in Russia non fa comodo a nessuno.

E dopo aver demolito il luogo comune in ambito storico, credo sia giusto passare alla questione principale, a quella del primo capoverso, al Donna anziché Donne. Come in tutte le cose, parlare al singolare di una categoria, che sia di persone, di oggetti o di idee e pensieri, porta inevitabilmente ad una generalizzazione, ad una stereotipizzazione, al crollo delle individualità e dei vari casi che animano la categoria in nome del cliché che si vuole promuovere. Ed è così che la donna che va celebrata cambia a seconda della situazione storica: se prima si esaltava la donna lavoratrice, che combatteva fianco a fianco all'uomo per conquistare un bene comune, che poteva, partendo da una situazione di parità, ambire, utilizzando gli stessi canali di accesso, ad una posizione lavorativa, allo studio, al diritto di manifestarsi dove più desiderava e venendo valutata soltanto in base alle capacità che dimostrava di avere per un determinato impiego, ora si celebra la donna arrivista, prevaricante, che attraverso il suo essere femmina può scalare le posizioni comportandosi secondo i cliché che hanno gettato un'onta millenaria su tutte le donne del mondo. Le donne sono sempre state insultate, come nella religione così nella dimensione temporale, e sempre si sono trovate in una posizione di subordinazione nei confronti dell'uomo in quanto padre-marito-padrone, unico membro della famiglia ad avere diritti nella società ed unico detentore di diritti nell'ambito familiare. Servitore della patria ma re della famiglia. E le donne erano schiave, erano oggetti, erano troie, erano streghe, erano veicoli di malattie. Erano volgari, immorali. Erano il male. 

C'è una cosa che mi fa profondamente tristezza ma che tutto sommato non mi stupisce dato il nuovo Medio Evo nel quale ci troviamo. Domani sera parecchie donne, come se fossero in permesso premio dalla galera della vita quotidiana, andranno a festeggiare la Festa della Donna con un rancore enorme dentro, comportandosi come da copione, esaltando gli stereotipi che da sempre le perseguitano ma sapendo che, per un giorno all'anno, godono di totale immunità. Insulteranno gli uomini, li malediranno, li useranno come oggetti, attuando la classica eccezione che conferma la regola, dando adito agli uomini gli altri trecentosessantaquattro giorni di fare ciò che è loro solito fare perché consapevoli che senza il giogo che sempre mettono alla loro donna, questa si comporta nel peggiore dei modi. Ed io mi chiedo: ma che bisogno c'è? E' così difficile comportarsi come i MIGLIORI umani (siano uomini o donne) ogni giorno e deprecare i comportamenti delle peggiori donne, non difendendole a prescindere perché femmine ma denigrandole in quanto essere umani che agiscono in modo sbagliato? E' così complicato per una donna giusta trovare l'uomo giusto e non dover così subire imposizioni, costrizioni, non dovendo così delegare ad un'altra persona il proprio potere decisionale? Dove sta l'inghippo, qual è il reale problema? 

Il reale problema sta nella mancanza di valori bipartisan che attanaglia gli ultimi trent'anni, la continua ricerca di un nemico comune da distruggere, senza pensare alle persone con le quali ci si schiera e senza considerare che forse anziché distruggere bisognerebbe prima di tutto migliorare se stessi. E migliorare se stessi significa lasciar cadere gli stereotipi che per anni hanno rivestito la persona in questione, che sia la donna, l'operaio, il comunista, lo studente, significa autodeterminarsi secondo la propria coscienza e non perché facenti parte di una categoria. E significa saper distinguere i comportamenti positivi e negativi della fazione a noi avversa per comprendere cosa veramente combattere, e quindi chi veramente combattere, e cosa invece mutuare, e quindi chi invece considerare proprio alleato anche se diverso da noi. 

Le donne non sono tutte puttane e gli uomini non sono tutti stronzi. Ci sono tante donne migliori di tanti uomini e tanti uomini migliori di tante donne. E non in base alla loro appartenenza ad un genere anziché un altro, ma in base alle proprie facoltà intellettive, alle proprie conoscenze, alla propria sensibilità, alla propria consapevolezza di sé. 

Farne una questione di genere è l'ennesimo errore, è stato il fallimento del femminismo, è stato l'ennesimo sbaglio di un certo tipo di fare politica. "Siamo donne, oltre le gambe c'è di più". E' vero in tanti casi... ma è proprio durante la Festa delle donne che si dovrebbe esaltare ancora di più questo slogan. 

E per finire, io continuo a pensarla come i latini che coniarono, seppur non letteralmente, il detto "Dietro ad ogni grande uomo c'è una grande donna", e che sarebbe meraviglioso potesse diventare simmetrico. E se guardo la mia biografia, le mie radici, il mio vissuto, di grandi donne ce ne sono state e ce ne sono. A partire da mia madre e dalle mie nonne, donne estremamente forti, coraggiose, intelligenti, dedite al lavoro, alla famiglia, alle passioni; mia zia Daniela, che nonostante abbia avuto una vita difficile in infanzia ha saputo autodeterminarsi, affermarsi, trovare l'uomo giusto e creare una bellissima famiglia dalla quale è nata mia cugina Silvia, che come tanti giovani combatte ma che non si è mai arresa; ad alcune delle ragazze che ho frequentato e che mentre erano con me hanno perseguito i loro sogni, i loro obiettivi, e non importa che si siano poi arenate, ma mi hanno mostrato come in tutto e per tutto erano come me, che di differenze non ce n'erano; o come la mia amica Chiara, che ha saputo affrontare dei dolori enormi con grande forza, con estrema intensità, trovando sempre un motivo per sorridere, o come Corinne che da quando è nata ha un sogno e che finalmente sta per raggiungerlo dopo aver lottato e combattuto per poterlo realizzare. Grandi donne ci sono state e ci sono ad animare le mie giornate, e spero che troverò altre grandi donne lungo il mio cammino. 

Alcune c'erano già, altre si son fermate per un periodo, altre ancora ci sono da tanto. Altre ancora verranno, passeranno, si fermeranno, resteranno. Ed a tutte le Donne con la D maiuscola, e non solo quelle pensate con amore, "io dedico questa canzone".





Stefano Tortelli


martedì 24 febbraio 2015

I collezionisti di occasioni perse - L'inutile contestazione a Tsipras






Non mi considero un inguaribile ottimista. Tutt'al più sono un sognatore, uno che ci spera fino all'ultimo, uno che se può fare qualcosa lo fa, e se non può farlo fa in modo di poterlo fare. Ed inoltre mi è stato insegnato che è importante ammirare chi intraprende un cammino, chi tenta di migliorare lo stato attuale delle cose, chi ci mette ogni energia per far sì che qualcosa di nuovo si realizzi. La Grecia non diventerà la nuova Cuba, non nel giro di tre mesi, non nel giro di un anno. 

In Italia i pseudo-compagni vanno farneticando, tacciando di indole borghese Syriza, considerandola un prodotto del capitalismo, pretendendo di sentire riecheggiare l'Internazionale dagli altoparlanti di ogni dispositivo audio-trasmittente della penisola ellenica. Cavoli, bastasse essere di sinistra e vincere un'elezione per realizzare tutto questo datemi un partito che andiamo a conquistare la rossa primavera. Stiamo rasentando l'assurdo, siamo già nel ridicolo. Ed oltre tutto non ci assumiamo le nostre colpe, che sono enormi, e che in gran parte risiedono in quel gruppo dirigenziale fantoccio che è venuto a crearsi nei vari partiti che si AUTOdefiniscono comunisti. Già definirsi comunisti è una bella pretesa: non è mica come dire "Ciao, io sono Stefano e sono italiano"; comunista è un'etichetta che dovrebbe venirci data, e che sia un nemico od un amico ad affibbiarcela poco importa, l'importante è aver fatto qualcosa che agli occhi altrui ci rende tali. Una volta successo allora sì che ci si può definire comunisti o socialisti. Per me il partito di Tsipras è una buona via per raggiungere il comunismo in un mondo totalmente capitalista. Perché la Russia non è più anti-capitalista da cinquant'anni, semplicemente ha adattato il capitalismo all'ideale comunista, e la stessa cosa vale per la Cina. per cui di modelli a cui ispirarsi e che siano attuali non ce ne sono. Bisogna procedere per tentoni, per tappe, per compromessi. Vogliamo distruggere il capitalismo? Non possiamo: o facciamo una rivoluzione armata o non possiamo. Non ci sono riusciti i cubani ed i sovietici senza un tributo di sangue e con la gente che stava morendo di fame, vogliamo credere di poterlo fare noi senza imbracciare le armi in una realtà dove, comunque, le pance sono piene? Il capitalismo non va distrutto, va superato. Del resto Il capitale di Marx non parla di distruzione del capitalismo, parla del suo superamento, del suo annientamento in quanto desueto, in quanto fallito, in quanto incapace di auto-alimentarsi. Ma occhio, il marxismo ora come ora è inapplicabile: i proletari non esistono più, o meglio, i proletari di oggi sono i borghesi di ieri. Chi fa figli se non i ricchi!? E proletario non significa "colui che ha prole"? Quindi basta parlare di proletariato. E la classe operaia? Dov'è la classe operaia? Chi è ancora che lavora in fabbrica, e soprattutto quanti ancora, di quelli che lavorano in fabbrica, votano in modo differente dai propri padroni? Se dove lavorava fino a un paio di anni fa mio padre la maggior parte dei suoi colleghi votavano l'asse Lega-PDL qualcosa non funziona, o sbaglio? 

Studiando per un esame mi è capitata sott'occhio una ricerca condotta negli anni '50 in Inghilterra presso alcune fabbriche di uno dei più importanti centri siderurgici della Gran Bretagna, la quale metteva in luce come, una volta conquistati certi diritti, migliori condizioni di vita e determinate sicurezze, l'operaio cambiava la sua linea politica, allineandosi a quella del datore di lavoro. Ne è la prova il fatto che, se dopo la seconda guerra mondiale a vincere le elezioni furono i laburisti, nel giro di pochi anni, nonostante avessero rispettato il loro programma elettorale, al potere tornarono i conservatori. In Italia questo processo è stato fortunatamente più lento, ma forse è solo perché in Italia certe conquiste sono state più difficoltose, hanno richiesto più tempo, e per cui l'esigenza di un partito comunista si è sentita per trent'anni anziché per soli dieci. Questa è una delle tante mancanze storiche, una delle tante ignoranze dei "comunisti" di oggi. La fondazione del PCI non è stata concepita in una notte, la Rivoluzione russa non è avvenuta dall'oggi al domani, come non è stata una questione da poco il processo che ha portato al trionfo di Fidel Castro e di Che Guevara a Cuba. Questi signori invece vogliono tutto e subito, mostrando così quanto su di loro ha attecchito il lato più profondo del capitalismo. L'assurdo poi è che blaterano di voler rifondare il PCI quando loro sono stati tra i principali assassini del nostro partito comunista, e sebbene in modo subdolo ne rivendicano l'uccisione: insultando Berlinguer, massacrandone il ricordo, spargendo immondizia sulla tomba del più grande statista italiano. Ma stiamo scherzando!? 

Enrico, perdonali tu, perché io non ci riesco. A guidare il pensiero comunista dovrebbe esserci una persona come te, uno che anziché snocciolare soltanto numeri e teorie sapeva anche parlava alla gente, arrivare al cuore delle persone, farsi voler bene. E soprattutto tu non ti rifugiavi nelle tue stanze, non ti mostravi avulso dalla realtà del tuo tempo, ma soprattutto estraneo alla gente. Majakovskj sosteneva che per essere un buon politico bisognava essere in grado di calarsi nella realtà, nella contemporaneità, conoscendone così le problematiche e potendo così escogitare soluzioni applicabili alla natura del contesto. Berlinguer è stato capace di farlo, e l'ha fatto due volte, prima portando avanti le istanze di quella che non era la sua classe d'origine, e poi modificando gli obiettivi del partito in base ai mutamenti della società. Ora invece i nostri politici pensano di essere ancora nel 1800, o tutt'al più ai tempi della Rivoluzione d'Ottobre. 

Mentre stavo andando ad insegnare stavo pensando a tutto questo ed a come la filosofia si sia evoluta in tremila anni. Da Anassimene a Marx il passo è breve, ed ha una sua logica, mostra un'evoluzione che se non è paragonabile a quella di un entità biologica poco ci manca. Il problema sono questi ultimi 200 anni e quest'assenza di una nuova filosofia, o meglio di esponenti a cui si da credito, per affrontare gli attuali problemi e sostenere con la teoria una pratica socialista realizzabile ora. Ci son stati Gramsci, Lorenz, Fromm, ma tutto sommato non se li caga nessuno... chissà perché... forse sono considerati impuri.

Spiace, ma io negli attuali comunisti puristi ci vedo dei reazionari, che non si rendono conto di vedere come Tsipras possa essere il preludio per un nuovo socialismo (caso strano Tsipras ha messo in moto quel che più si può considerare erede dell'Internazionale Socialista, ovvero la sua Altra Europa), perdendo così, di fatto, l'ennesima occasione di scendere dai loro piedistalli. Siete statue di sale, siete castelli di sabbia... e non per niente non entrerete mai in parlamento. Sale e sabbia sono inorganici, di conseguenza incapaci di provare e far provare emozioni. La politica di sinistra dovrebbe essere la politica delle emozioni, non la politica dei numeri. I numeri, almeno quelli, lasciateli al capitalismo. 

Non avrei mai dovuto scrivere queste righe, soprattutto alla luce del fatto che spesso mi trovo a dover difendere le mie posizioni politica, considerate spesso anacronistiche. Non sono le mie posizioni ad essere anacronistiche, sono gli esponenti principali che son rimasti nel Medioevo del pensiero comunista. Il comunismo può farcela, è molto malato, ma lo possiamo salvare. Forse dovremo dialogare con i nostri nemici, forse dovremo scendere a compromessi, ma intanto guadagneremo terreno, intanto porteremo sempre più avanti la linea di confine, sposteremo più ad "est" le nostre trincee e le nostre barricate. Berlinguer ha avuto successo perché innanzitutto sapeva dialogare, e soprattutto perché si metteva in gioco, faceva qualcosa. Ha sbagliato a volte, ma solo chi non fa non sbaglia mai. 

Non voglio pensare che la sua morte sia la morte dei miei ideali, altrimenti io qui che ci sto a fare!? Ai suoi funerali c'erano tre milioni di persone... stiamo parlando di poco più di trent'anni fa. Era un uomo, era mortale, come lo siamo noi. Vogliamo ricordarlo davvero!? Allora viviamo come lui, agiamo come lui. E lasciamo agli altri il lusso di poter sputare su di noi e sulle tombe dei nostri padri, non hanno bisogno del nostro aiuto.

Scusa Enrico se ti ho coinvolto così tanto, probabilmente sei schifato più di me al momento, ma voglio pensare che anche tu stia sperando nel vedere un giovane compagno provarci sull'altra sponda dell'Adriatico.




Stefano Tortelli