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venerdì 8 aprile 2016

La mente di un bambino in un mondo senza soldi

Da Into the wild




Per riuscire a collocare nella mia infanzia ciò che sto per andare a raccontare ho dovuto snocciolare le tante carriere lavorative che da piccolo si erano alternate nei miei desideri. A cinque anni, prima delle elementari, volevo fare il veterinario: ero circondato da animali, e poterli assistere, curarli e star loro vicino mi sembrava una bellissima prospettiva! Poi, a sei anni, complici alcune letture sui dinosauri e sullo spazio, desideravo diventare paleontologo o astronauta. Sai che spettacolo andare nel deserto e cercare i resti di un dinosauro, oppure salire su una navicella spaziale e poter guardare la terra dall'esterno?

Ad otto anni, visto che il veterinario sarebbe stato un casino perché ero allergico al pelo del gatto (e sarebbe stato brutto fare il veterinario solo per altri animali, quasi razzista!), visto che i dinosauri avevano un po' perso di fascino e visto che la carriera di astronauta mi dava alcune preoccupazioni visto il mio terrore, allora, nei confronti degli alieni, ripiegai sul costruire ponti. Non so perché volevo costruire ponti, e forse questo tarlo dei ponti si è “metaforizzato” e, con gli studi che poi effettivamente ho fatto, qualche “ponte” potrei anche riuscire a costruirlo...

Chiesi a mia mamma che cosa sarei dovuto diventare, e lei mi disse: “Ingegnere o architetto. Ma meglio ingegnere, tu ami la matematica (amore poi non più corrisposto), saresti bravissimo e ti toglieresti tante soddisfazioni!” “Ma mamma, hanno tanti soldi gli ingegneri?” “Sì, Stefano“Ah sì??” “Eh sì, gli ingegneri guadagnano tanto perché le cose che fanno servono a tante persone!” Subito pensai che avesse ragione: un ponte deve stare in piedi per tanti anni, deve essere funzionale, deve dare la possibilità a migliaia di automobili, di camion, di trattori, di mietitrebbie (non potevo non citare le mietitrebbie, amavo le mietitrebbie da bambino) di andare dove devono andare. Poi però pensai: “Ok, ma anche gli ingegneri devono mangiare. E mangiano quanto i miei genitori. Anche gli ingegneri hanno bisogno di una casa, di vestiti, di tutto ciò di cui ha bisogno la mia famiglia e che la mia famiglia si può permettere. E non gliene servono di più che a papà!” Poi pensai che alla fin fine, se un ingegnere non può andare a lavorare, viene licenziato e non guadagna più. E per andare a lavorare necessità di strade, e ok, può farle lui, ma chi le costruisce? Ha bisogno di una macchina, e chi costruisce la macchina? Chi lavora i materiali necessari per costruire la macchina? E poi la macchina non va da sola, serve la benzina, servono i benzinai.

E tra l'altro l'ingegnere deve mangiare, c'è bisogno che qualcuno coltivi il cibo, allevi il bestiame, prepari il pane, i dolci (anche gli ingegneri mangiano dolci, no?). L'ingegnere ha bisogno che un sacco di persone lavorino “per” lui, e queste persone potrebbero sfruttare il suo ponte per i loro spostamenti. Non è uno scambio questo? “Mamma, ma i soldi, se tutti lavorano e tutti fanno qualcosa per gli altri, in un modo o nell'altro, a che cosa servono? Papà fa le macchine, se una persona usa una macchina che lui ha fatto gratuitamente, e questa persona è un insegnante, potrebbe insegnare a me gratuitamente, no? E se fosse un panettiere potrebbe darci il pane, cose così”... “Sì Stefano, ma ogni cosa ha un suo valore e per cui più soldi hai e più cose di valore puoi comprare!!” “Ok mamma, ma anche per fare le cose che valgono di più serve qualcuno che lavori, quindi alla fine i soldi non servono! Mamma, i soldi non servono. Ma si potrà vivere senza soldi prima o poi?” “Non credo, Stefano. Ma è già una bella cosa pensarlo, sperarlo.”

“Mamma, ma i soldi sono sempre esistiti?” “No Stefano, li ha inventati l'uomo."“E prima come facevano?” “Eh, si scambiavano le cose” “Ecco, non è uno scambio anche il MIO?” “Sì...” “E non erano più tranquilli gli antichi?” “Sì, forse sì, Stefano...”

Ora, non so se la conversazione andò propriamente così, sicuramente non usai questo tipo di linguaggio, ma quel giorno mi si aprì un mondo. Pensavo al mio paese, a 5000 persone che, senza aver bisogno di guidare, di utilizzare particolari strumenti, senza avere troppe pretese potevano vivere tranquillamente mangiando ciò che veniva coltivato, costruendo con i materiali che qui si producono, allevare il bestiame e mangiarne la carne, imparare ed insegnare, curarsi e farsi curare... e per 5000 persone ci sarebbe stato fin troppo cibo, fin troppa sabbia, fin troppa ghiaia, che si sarebbe potuta scambiare... e questa cosa con non troppe difficoltà, questa microsocietà insomma, si sarebbe potuta espandere a livello provinciale, regionale, nazionale, mondiale.. tutti ovviamente dovevano lavorare per poter avere a disposizione ciò che reputavano necessario, tutti avrebbero potuto tranquillamente godere di ogni cosa figlia del lavoro degli altri perché il loro lavoro dava altre cose che avrebbero soddisfatto le altre persone. Senza la mediazione dei soldi, senza capitali fermi e quindi inutili, senza evasioni, senza menate... E quel che sarebbe mancato in un posto si sarebbe scambiato con ciò che avanzava, dando la possibilità ad altri di avere ciò che da soli non potevano produrre o reperire...

E così tutti avremmo avuto da mangiare, tutti avremmo avuto da bere, tutti avremmo remato nella stessa direzione per uno sviluppo sempre maggiore, funzionale al bene comune... non ci sarebbero stati problemi legati al nucleare o ai carboni fossili perché già ora avremmo auto ad idrogeno, elettriche, ad impatto zero... e magari sarebbero state meno performanti rispetto a quelle attuali, ma pace, perché i ritardi non sarebbero stati un problema, non ci sarebbe stato il timore di rimanere senza soldi a causa di un licenziamento... tutti vivremmo più sereni, più tranquilli, più sani, in armonia.

Certo, per fare tutto questo sarebbe necessaria una rettitudine morale di ogni individuo, ma questa rettitudine secondo me è andata a perdersi proprio a causa della creazione del denaro, portando gli individui a cercare escamotage per averne di più con uno sforzo sempre minore...

Togli il denaro a questo pianeta, e lo salverai. Togli il potere a chi lo brama soltanto per fare i propri comodi economicamente, e vedrai che, in assenza di denaro, chi prima desiderava potere sarà l'ultimo a volerlo, perché dovrà fare senza un rendiconto visibile al bancomat.

La nostra è una società malata di tumore, un tumore che ha colpito ognuno di noi, e dal quale ci si può curare soltanto eliminando le cellule tumorali. Le cellule tumorali sono i soldi.


Ci vorrà un cataclisma di dimensioni epiche per poter avere le condizioni necessarie ad attuare tutto ciò, l'intervento di un'entità extraterrestre, una tempesta elettrica che resetta ogni conto in banca esistente... nell'eventualità queste cose non succedessero, siamo, ahimè, condannati all'estinzione... e, la cosa buffa, e che non sarò neppure soddisfatto nel poter dire, in punto di morte “Però, c'avevo visto lungo...”




Stefano Tortelli

giovedì 15 ottobre 2015

Giovani assopiti: il fallimento delle generazioni precedenti.






La canzone O cara moglie di Ivan Della Mea è del 1966. Una canzone ambientata nel periodo dei grandi scioperi, dei picchetti ai cancelli delle fabbriche, delle lotte tra gli operai ed i capi, ma anche tra scioperanti e crumiri. 

Era un periodo profondamente democratico, molto più democratico di quello che stiamo vivendo adesso. Perché è vero, molti diritti non erano ancora stati conquistati (o forse concessi!?), in determinati campi (libertà sessuale, libertà di scelta riguardo ad aborto e divorzio) eravamo ancora estremamente indietro, ma ai tempi valeva la legge del 50% più uno: se per un determinato diritto si mobilitava la maggioranza, che fosse a livello microsociale (un'azienda, una località) o macrosociale (lo Stato intero), questo diritto facilmente veniva conquistato. E non sono così convinto che, ai tempi, si combattesse per determinati diritti perché ci si ritrovava ridotti alla fame o perché non si riusciva a sopperire ai propri bisogni con gli status quo che sussistevano allora. Credo invece che, tra gli anni '60 e gli anni '70, c'era un senso di collettivo, di appartenenza ad una determinata classe sociale, c'era il desiderio di anteporre il bisogno di tutti a quello individuale, senza mai comunque perdere di vista la dignità del singolo individuo, cosa che invece è venuta a mancare nel momento in cui l'opportunismo, la necessità del superfluo e la prevaricazione sono entrati nella mente di tanti che fino a poco prima avevano combattuto per giuste cause. Come cantava Pietrangeli, del resto, "Se il vento fischiava ora fischia più forte, le idee di rivolta non sono mai morte,se c'è chi lo afferma non state a sentire, è uno che vuole soltanto tradire; se c'è chi lo afferma sputategli addosso, la bandiera rossa gettato ha in un fosso", e perciò, forse forse, socialisti, questi, non erano mai stati. 

Ma lasciando perdere chi ha cambiato colore man mano che è riuscito ad ottenere ciò di cui necessitava sfruttando qualsiasi mezzo a sua disposizione, vorrei soffermarmi sulla tanto paventata crisi di valori degli ultimi anni, soprattutto nella generazione che rappresento, quella dei giovani tra i venti ed i trent'anni. Noi siamo cresciuti nel ventennio berlusconiano, abbiamo avuto modo di sentire man mano, crescendo, le ripercussioni di politiche distruttive, le quali hanno minato alla base lo stato sociale, la scuola, la libertà d'informazione, la capacità di discernere tra il giusto e lo sbagliato. Siamo cresciuti nell'opulenza, e chi più chi meno abbiamo comunque assorbito un certo modo di vivere, di pensare, di agire. Tutto questo è sicuramente frutto di vent'anni di mal governo, che è però riuscito a destabilizzare così audacemente tutto ciò che poteva darci una cultura di base che siamo cresciuti sostanzialmente ignoranti, privi di reali interessi, assuefatti dalla televisione e dalle vane promesse di Silvio e soci. 

E' vero, siamo ignoranti, privi di stimoli, incapaci di agire in senso collettivo, abbiamo perso ogni contatto con le realtà di insieme: in primis quelle che riguardano i nostri comuni, le nostre regioni, poi quelle che riguardano il nostro Stato, infine quelle che riguardano il mondo intero. E' vero, ci facciamo abbindolare, dobbiamo avere paura dell'Isis, fidarci degli Stati Uniti, lodare la Germania, guardare con sospetto Grecia e Russia, ed intanto farci dare i soldi dai nostri genitori o investire buona parte dei nostri stipendi da stagisti/apprendisti per comprare il nuovo I-Phone. Siamo un gregge, non c'è dubbio. Siamo un gregge come la generazione che ci ha anticipato, quella che ora ha tra i trenta ed i quarantacinque anni: quella che si è convinta che i contratti flessibili, i part-time fossero positivi perché davano libertà di azione. Peccato che questa libertà d'azione era sempre e comunque vincolata dal datore di lavoro di turno, quindi era immaginaria; quella che si è convinta che era bello poter avere a disposizione una pay tv attraverso la quale vedere le partite, i film in prima visione esclusiva ed assoluta, senza rendersi conto che così facendo ora sui canali in chiaro non danno più niente di nuovo perché i diritti sono quasi tutti di Sky o Mediaset Premium, e magari si lamentano anche del canone Rai; quella che si è venduta in toto, lasciandosi indirizzare verso il consumo folle incentivato dalle offerte, dalle rate, dagli abbonamenti, dai leasing.

E, andando ancora a ritroso, mi chiedo dove sia la grandezza delle generazioni passate se all'unico importante compito alle quali erano state chiamate, non tanto istituzionalmente e socialmente parlando ma a livello puramente biologico, hanno fallito miseramente. Dov'è la loro esperienza? A chi è stata tramandata? Per quale motivo i loro figli non sono stati cresciuti con il culto della lotta, della protesta e del collettivo? Siamo sicuri che due genitori siano più deboli della tv e degli stimoli esterni? Siamo sicuri che se è vero che la mia generazione non ha identità, spirito di condivisione e dignità individuale, questo non sia il frutto della perdita, in primis, di tutto questo da parte di chi ci ha cresciuti? Perché è tanto facile poi, a posteriori, dire che i giovani di adesso sono annoiati, statici, apatici. Ma è così che la maggior parte di noi è stata cresciuta, è così che ci ha voluto la società, ma è anche vero che è così che i nostri genitori ci hanno voluto far diventare. Quindi, prima di innanzi tutto generalizzare e dopodiché attaccare i giovani d'oggi, sarebbe il caso di chiedersi che ruolo si ha avuto all'interno di questo meccanismo di disgregazione del pensiero collettivo e della dignità individuale, che cosa non si è fatto per evitare che ciò accadesse e quali sbagli, come individuo e come generazione che si rappresenta, si sono commessi. E poi, magari, provare a riparare, insieme, senza vedere barriere generazionali. Di barriere ora come ora ce ne sono veramente tante, troppe, ed inserire pure quelle anagrafiche mi sembra piuttosto eccessivo e, ovviamente, controproducente.

Voglio concludere spiegando il perché io abbia cominciato l'articolo citando O cara moglie di Ivan Della Mea. Ecco, questa canzone viene ricordata soprattutto per il suo valore all'interno dell'antologia delle canzoni di protesta, poiché racconta per filo e per segno uno sciopero, i conflitti con i crumiri, l'odio verso il padrone e la differenza di risultati che derivano da una lotta totale che coinvolge tutta la forza lavoro ed una lotta frammentata. Quello che però è il messaggio più importante in questa canzone è il totale stravolgimento dello scenario d'apertura quando si giunge alla fine della canzone. Perché se all'inizio il figlio deve andare a dormire "perché le cose che io ho da dire, non sono cose che deve sentire", alla fine l'operaio si rende conto dell'errore, chiede alla moglie di richiamare il figlio perché "venga a sentire, perché ha da capire che cosa vuol dire lottare per la libertà". Ecco, ecco dove AVETE sbagliato. Vi siete fermati alle strofe centrali, alla lotta, all'estemporaneità dei fatti, senza pensare a ciò che a livello interiore questa potesse portare, ovvero alla comprensione che se è vero che certi argomenti sono difficili, a volte duri, sicuramente di difficile comprensione per un bambino o un ragazzino, questi valgono molto più di tante parole e raccomandazioni che da genitore si fanno, non tanto perché si vuole, ma perché si devono fare, perché fanno parte del ruolo del padre o della madre. Sarebbe invece stato il caso di parlare con i vostri figli di politica, o come minimo discuterne in loro presenza, far emergere le vostre preoccupazioni, i vostri disagi legati magari alle condizioni difficili sul posto di lavoro, all'essere in cassa integrazione, all'essere disoccupati. 

Forse si pensa di proteggere i figli mandandoli a dormire, evitando loro i discorsi che "non devon sentire"... ma così facendo non li si protegge, ne si posticipa soltanto il momento in cui saranno carne da macello per questo sistema cannibale.





Stefano Tortelli

martedì 18 agosto 2015

La seconda guerra mondiale in musica: "Un biglietto del tram" degli Stormy Six





Ieri sono tornato in Piemonte, tra i campi di granturco, dopo aver passato qualche giorno in Toscana tra i castagni. In Garfagnana, tra le colline delle Alpi Apuane, ritrovo le mie radici, forti e vive come quelle dei vecchi castagni che rigogliosi crescono nei boschi che circondano il piccolo borgo nel quale la mia famiglia paterna è nata e cresciuta, sebbene mia nonna e mio nonno si innamorarono a Torino per via di numerose coincidenze, ma questa è un'altra storia...

Casatico, frazione di Camporgiano, è all'incirca a metà strada tra Lucca ed Aulla: ad ovest la Lunigiana, a sud-est la Versilia. Al centro la Garfagnana. Ed a pochi chilometri, in una direzione o nell'altra, ci sono alcuni luoghi che sono diventati tristemente famosi ai tempi della Linea gotica, Stazzema e Vinca su tutti. Ma se la prima località è più o meno conosciuta da tutti, a causa del film di Spike Lee e delle celebrazioni che almeno fino a qualche anno fa hanno avuto una forte cassa di risonanza a livello mediatico (a ragion veduta, dato che vennero massacrate e violentate cinquecentosessanta persone, di cui 130 bambini, dalle SS che stavano ripiegando verso nord), Vinca è pressoché sconosciuta alla maggior parte delle persone. E c'è modo e modo per avere modo di conoscere una nuova storia: c'è chi sfoglia enciclopedie alternative, chi si affida a siti internet di settore, chi ai film.. io, nonostante abbia le mie radici a circa quaranta chilometri da Vinca, ho conosciuto i fatti del 24 agosto 1944 grazie all'album che meglio di tutti racconta la storia della seconda guerra mondiale: Un biglietto del tram degli Stormy Six. 

Un biglietto del tram è il classico album progressive italiano: un concept, che segue un filo conduttore il quale lega storie, luoghi, ma soprattutto testi e musiche. Nonostante manchi un tema musicale ricorrente nelle diverse tracce, il fatto che l'album in questione sia un concept è facilmente intuibile dai titoli delle canzoni: sono nomi di persone, di località e di realtà che hanno avuto una valenza enorme durante la seconda guerra mondiale, ed in particolare durante la resistenza europea al nazi-fascismo: Dante Di Nanni e Gianfranco Mattei, Stalingrado e Vinca, la fabbrica ed il tram che porta a Piazzale Loreto. Come ogni storia, Un biglietto del tram ha un inizio, uno svolgimento ed una fine. E l'inizio è ad appannaggio di due canzoni che in realtà danno vita ad una suite: questo perché si è voluto dare una continuità, un senso di unità, di correlazione, di un unico inizio benché collocato in due nazioni e due realtà ben diverse. Perché abbiamo nella prima parte il racconto dell'assedio spezzato di Stalingrado, la vittoria dell'Armata Rossa contro il contingente nazi-fascista inviato in Russia, l'inizio della fine dei regimi di estrema destra; mentre nella seconda parte è raccontato l'inizio della Resistenza: prima del governo Badoglio, prima dell'Armistizio, prima della corsa alle montagne e della nascita delle Brigate di Liberazione, la resistenza ha cominciato a fermentare nelle fabbriche, grazie agli scioperi di Torino, Milano, Genova e di tutte le grandi città italiane. Ed infatti gli ultimi versi di Stalingrado, prima dello strumentale atto a legare la prima canzone a La fabbrica, recitano "Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa, d'ora in poi troverà Stalingrado in ogni città". E le nostre prime Stalingrado furono proprio nelle grandi città industriali del nord-Italia, e famoso (e citato nella seconda canzone) è lo sciopero alla FIAT di Torino, quando centinaia di migliaia di lavoratori scioperarono e si rivoltarono alle camicie nere mandate a reprimere i manifestanti. "E come a Stalingrado i nazisti son crollati, alla preda rossa in sciopero i fascisti son crollati"...

A scombinare però i piani della Resistenza, dei liberatori della patria, fu l'invasione del Sud Italia degli anglo-americani. La loro descrizione lascia ben poco all'immaginazione: la vana speranza di liberazione dal nazi-fascismo, la falsa promessa di una rinascita dell'Italia intera è racchiusa in tavolette di cioccolato che hanno solo il sapore di libertà. Ma la verità è Anzio, è l'Abbazia di Montecassino, è la non volontà di interferire troppo con i partner economici italo-tedeschi frenando l'avanzata e permettendo ai nazisti di riprendere Roma... Perché ok liberare l'Italia, ma prima lasciamo che i nazi-fascisti facciano fuori un po' di comunisti, che non si sa mai...

Arriva l'8 settembre, lo scenario politico nazionale cambia totalmente, ma ciò che è allucinante è che non solo l'Italia è divisa in due tra fascisti e partigiani. Ad essere divisi tra fascisti e partigiani sono tutti i comuni e tutte le città d'Italia, tanto da dar vita a scontri fratricidi, a faide, a rappresaglie spesso dettate non da motivi politici ma da motivi personali. Da una parte e dall'altra. Perché come c'erano camicie nere buone (ma sicuramente un po' ingenue), c'erano anche partigiani che volevano approfittare della situazione caotica per perseguire i propri interessi. 

E quindi eccoci a Vinca, ad una delle tante rappresaglie dei nazi-fascisti contro i partigiani, ad uno di quegli eccidi che sono passati alla storia per la loro efferatezza, per la loro crudeltà. "Fanno tiro a segno, cani macellai, ma che bella mira, non la sbaglian mai, non la sbaglian mai". Funzionava così nel biennio '43-'45: i partigiani combattevano per la libertà, si rifugiavano nei boschi per non mettere in pericolo le famiglie, ma c'era sempre qualche fascista pronto a dire chi era nella brigata e dove vivevano i suoi figli, e subito le SS o i fascisti arrivavano per la rappresaglia. Dieci a uno, se andava bene... a Vinca morirono in 170 per l'assalto ad un camion... 

I luoghi spesso diventano famosi in base a chi vi è nato, vissuto, morto: Vinci non sarebbe che uno dei tanti paesi della Toscana non fosse stato per Leonardo... Borgo San Paolo ha un'eco particolare per i cultori della Resistenza grazie a Dante Di Nanni, del quale ampiamente parlai in un mio post precedente (accompagnato oltre tutto dalla canzone di quest'album). A lui è stata dedicata questa canzone, di lui è raccontata la storia, ma sostanzialmente nella figura di Dante Di Nanni è racchiusa l'essenza di ogni partigiano comunista morto per la libertà, per la propria patria. Ogni singolo partigiano caduto non è caduto invano, ogni partigiano morto non è morto veramente, perché nel suo sacrificio, nell'esempio che ha dato ad altri giovani in Italia e nel mondo (la nostra Resistenza è invidiata da tutti gli Stati che hanno conosciuto l'egemonia fascista, in Europa e non solo...)  risiede il suo essere immortale, il suo essere ancora presente per le strade dei luoghi che l'han visto lottare, vivere, resistere e morire in nome della nostra libertà. 

La seconda figura raccontata è quella di Gianfranco Mattei, ebreo e comunista, professore di chimica che diede appoggio alle brigate partigiane romane prima come fabbricante di ordigni esplosivi ed in seguito come esecutore materiale di azioni contro i nazi-fascisti. E non è un pezzo superfluo all'interno dell'album, non va a creare una rottura nella linea narrativa, perché descrive una particolare figura di partigiano. Se Dante Di Nanni era un giovane operaio, Gianfranco Mattei era un professore universitario affermato; se Dante Di Nanni era figlio del proletariato immigrato, Gianfranco Mattei era figlio della borghesia romana ed ebrea. Ma il suo essere di una classe sociale superiore non gli ha impedito di prendere parte alla resistenza: le idee, ed in questo caso il voler proteggere la propria identità religiosa, l'hanno portato ad essere idealmente al fianco di Dante Di Nanni. Due diverse culture, due diverse estrazioni, due diverse città: lo stesso destino, la stessa immortalità. 

Arriva il 25 aprile, l'Italia è libera. Tra macerie e festeggiamenti giunge anche l'ora di dover seppellire i propri morti, e ciò rende la gioia non totalmente completa. Da una parte e dall'altra della barricata è tempo di ricostruire, ma anche di scavare, di dar degna sepoltura ai cari periti durante gli scontri. Camicie nere o fazzoletti rossi il dolore è lo stesso e parla italiano. Non tedesco, non inglese. Italiano. E si fa un salto in avanti, si arriva all'illusione degli anni '60, al boom economico che sembra far dimenticare ciò che fu soltanto vent'anni prima. Ma è per l'appunto un'illusione perché i fascisti ci sono ancora, Ordine Nuovo e compagnia bella fanno saltare in aria banche, treni e stazioni, anarchici e comunisti vengono uccisi o "suicidati"... ma è il boom economico, si sta bene, il dolore è solo un ricordo che deve rimanere sotto terra... 

Un biglietto del tram, album del 1975, finisce con l'omonima canzone che fa riferimento al "suo" presente. La gente è distratta, pensa alla quotidianità, ma l'Italia è comunque in subbuglio, perché oltre alla crescita economica c'è anche il fermento delle proteste, delle manifestazioni. Sono gli anni di piombo, è il periodo in cui diventano famosi i celerini, e sebbene in tanti non vogliono ricordare ci sono luoghi, simboli che devono rievocare nella mente delle persone un passato che sebbene può sembrare remoto ha ancora i suoi strascichi nel presente. Il brano è ambientato a Milano, ed il biglietto del tram serve per andare a Piazzale Loreto: di Piazzale Loreto ci viene soltanto raccontato "quello" della fine di aprile del 1945, quando Mussolini e la Petacci vennero esposti a testa in giù insieme ai cadaveri di altri gerarchi nazisti... ma non ci viene raccontata tutta la storia, le radici di questo comunque ignobile gesto, che di per sé è una rappresaglia all'oltraggio che un anno prima venne perpetrato ai cadaveri di diversi partigiani lasciati legati per i piedi nello stesso luogo per più giorni, come monito ai compagni dei caduti... Ecco perché Piazzale Loreto è la destinazione, la fine della storia della Seconda Guerra Mondiale raccontataci dagli Stormy Six: a Piazzale Loreto prima si era cercato di spezzare le ali alla resistenza e poi, benché in un modo piuttosto discutibile, mostrata la fine dell'incubo.

Un biglietto del tram degli Stormy Six è un album che racconta molte storie: alcune di queste vanno di diritto in quella che Marino Severini dei Gang ama definire l'epica della Resistenza, altre si collocano nell'ambito delle canzoni a tema storico, altre ancora hanno avuto lo scopo di raccontare ai contemporanei che di lavoro da fare ce n'era ancora molto. L'album intero va invece di diritto in quella raccolta di dischi estremamente utili a ridestare le coscienze, a smuoverle ed a portarle ad agire, mostrando come per cominciare a resistere non bisogna aspettare l'ultimo momento, mostrando come per cominciare a resistere bisogna sapersi organizzare, riuscire a pianificare, agire. E soprattutto porta a ricordare che gli anni tra il 1940 ed il 1945 sono lontani solo qualche decennio: tre o sette non fa differenza. Sono dietro l'angolo, sono storia di ieri. 




Stefano Tortelli




martedì 14 luglio 2015

"Storia di un impiegato" di Fabrizio De André




Il vero peccato non è fare del male, il vero peccato è non fare del bene. Credo che con questa semplice frase si possa riassumere il pensiero racchiuso da Fabrizio De André nel suo "Storia di un impiegato". Era il 1973, Fabrizio stava cominciando ad avere un peso rilevante nel panorama cantautorale italiano, e con il suo sesto album andava idealmente a chiudere un secondo capitolo della sua discografia, ovvero quello dei concept album. E se "La buona novella" rappresenta uno dei suoi dischi più controversi e di difficile lettura (ed io in un post di aprile ho provato a dargli una mia personalissima interpretazione), se in "Non al denaro non all'amore né al cielo" ha cercato di definire, utilizzando le poesie di Edgar Lee Masters tradotte divinamente da Fernanda Pivano, gli archetipi delle persone che vivono il nostro tempo, con "Storia di un impiegato" ha sostanzialmente descritto il processo mentale che un uomo della classe media percorre dal momento in cui abbraccia la lotta di classe al momento in cui, dopo aver perso tutto, anche la libertà fisica e l'amore, riesca comunque a sentirsi vincente. Perché è vero, è stato sconfitto su tutti i fronti: ma ci ha provato. Ha perso, ma ci ha provato.

Doveva essere una storia comune quella raccontata da Fabrizio quando lui prese carta, penna e chitarra per dar vita a questo capolavoro. Erano gli anni delle contestazioni studentesche, delle occupazioni, degli scioperi e dei picchetti davanti alle fabbriche. Spesso mio padre mi racconta di quegli anni: lui a diciotto anni ed un mese entrò in Fiat, ed a quei tempi la fabbrica era non solo il primo motore dell'economia italiana, ma anche la fucina di giovani menti che avrebbero potuto e dovuto, ma soprattutto voluto, portare avanti la lotta, la stessa lotta che trent'anni prima mise sotto scacco il fascismo con i famosi scioperi di Mirafiori che coinvolsero centinaia di migliaia di lavoratori. Non era una passeggiata il lavoro in fabbrica, non lo è mai stato, ma in quel periodo c'era ancora la speranza, c'era la consapevolezza che si poteva anche cambiare lavoro, perché di lavoro ce n'era fuori dalle mura degli stabilimenti. Chi restava lo faceva quasi per scelta, e spesso questa scelta era dettata dalla consapevolezza, dall'identità operaia: sì, quella classe operaia che è stata sistematicamente distrutta negli ultimi anni per rendere arido il terreno più fertile per i semi del socialismo, della lotta di classe, della guerra senza quartiere nei confronti del sistema capitalista. Lotta che dalle fabbriche, allora, si estese alle università, agli uffici, a quelle realtà che prima d'allora mai, più di tanto, si erano interessate ad un certo tipo di pensiero politico e sociale: gli anni a cavallo dei '60 e '70 del secolo scorso hanno in un certo senso rappresentato un nuovo illuminismo, illuminismo che coinvolse anche il protagonista della storia di Fabrizio. Perché l'impiegato del quale vengono narrati gli ultimi mesi di libertà fisica e del suo processo di liberazione mentale era un piccolo borghese, che nulla aveva da chiedere alla vita perché la vita già gli aveva dato tutto. Eppure, ad un certo punto, si rese conto che gente meno fortunata di 
lui, sebbene calpestata, rinchiusa, picchiata, vessata stava vivendo, stava respirando, e respirando dava vita ad un vento nuovo, un vento forte, un vento fresco; lui invece in quella bambagia stava sopravvivendo, i giorni erano tutti uguali. Se ne rese conto, e decise di unirsi alla lotta. Decise di vivere. Decise di decidere. Ma per fare ciò doveva sostanzialmente distruggere ciò che fino a quel momento l'aveva oppresso: non era la mancanza di denaro ad averlo distrutto, ma la monotonia della sua vita, i miti con i quali era stato cresciuto, quelle figure che danzano mascherate nel suo sogno. Andavano distrutte, andavano fatte esplodere. Ed andavano ripudiate anche le sue origini: la madre, il padre. E soprattutto andava sabotato alle radici il sistema: quello giudiziario, quello economico, quello politico. 

E pensare che questo processo mentale è stato "inizializzato" da un canto di protesta che ripeteva ad ogni strofa il coinvolgimento dell'uomo medio nell'oppressione delle lotte, delle rimostranze, dei soprusi ai danni delle classi più colpite dal sistema vigente. La Canzone del maggio fu l'incipit, fu la sveglia per questo impiegato trentenne, che si è trovato a ragionare più e più volte su cosa fosse giusto fare: i suoi dubbi, i suoi timori, la sua voglia di riscatto, il suo desiderio di dare un contributo ne tormentavano i giorni e le notti, fino a decidere di abbracciare la causa, e di armarla. E così cominciò a sognare, ad immaginarsi in diversi contesti, ad affrontare i suoi nuovi nemici, figure che fino a poco tempo prima lo affascinavano e ne edulcoravano l'esistenza. Ma lo stesso destino toccava anche a chi l'aveva, secondo il suo giudizio, cresciuto nella tranquillità abituandolo ad ogni agio, ma di fatto rendendolo ignorante ed indifferente alle giuste cause. Arrivò poi il momento della resa dei conti, il momento di agire, il momento di far saltare il simbolo del potere. Ma l'attentato non ha successo, portandolo quindi a perdere la sua libertà fisica, la sua vita, il suo amore. Ed è l'amore la cosa alla quale non avrebbe mai voluto rinunciare, ed è la sua amata la persona alla quale più spesso si ritrovò a dedicare i pensieri, immaginandola sommersa di domande, ripercorrendo la vita passata insieme a lei, ragionando su ciò che lei avrebbe potuto fare dopo la fine forzata della loro storia d'amore. Ed in quel "Continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?" c'è un significato più profondo di quello puramente legato all'amore: c'è anche un significato legato ad ogni potere decisionale di ogni individuo, spesso delegato a qualcun altro, qualcuno più forte di noi, qualcuno che apparentemente è più autorevole (ed in una realtà in cui la donna era ancora estremamente subordinata all'uomo il potere decisionale che l'impiegato sperava potesse finalmente essere esclusivamente nelle mani di sua moglie rappresenta l'emancipazione dei più deboli dai dettami di chi detiene il potere) e che, in seguito alle prese di coscienza del protagonista di questa storia, non doveva essere d'altra persona se non di lei.

Ma la storia dell'impiegato non è finita qui. Anzi, la storia di questo piccolo borghese diventato rivoluzionario non ha una fine. Perché sebbene fosse finito in carcere, sebbene fosse stato privato di ogni libertà d'azione, il nostro eroe sfortunato non perse ciò che finalmente aveva conquistato: la libertà di pensiero, e di conseguenza la vita. Finora non ho accennato minimamente alla musica che accompagna le parole di Fabrizio De André, ma in questo caso è doveroso: il nostro eroe è stato imprigionato, ha sostanzialmente perso, teoricamente ci si dovrebbe aspettare una musica cupa, triste, carica di dolore. E invece no, l'atmosfera creata è ariosa, serena, forse un po' rassegnata, ma che da un senso di libertà. La stessa libertà che poteva respirare durante l'ora d'aria, ora d'aria che decise però di disertare perché non voleva condividere quel cortile con un secondino, ovvero con il simbolo dell'oppressione, del sistema, del potere. Fedele alla linea fino in fondo, e così si limitava a ragionare su tutto ciò che gli era capitato, a come con orgoglio rivendicava ogni sua azione, ogni sua presa di posizione, di coscienza, difendendo così, di fatto, la sua libertà mentale, che pian piano si stava diffondendo tra i suoi compagni di reclusione. Tanto da rinchiudere il secondino durante l'ora di libertà, rivoluzionando così le gerarchie, sebbene per poco tempo, sebbene per uno spazio limitato. E rivendicando anche quell'azione, cantando ancora una volta, un'altra volta ancora, e chissà quante altre volte: "Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti".

Questo è "Storia di un impiegato", un album che per decenni è stato censurato, nascosto ed anche raramente proposto nei live. Un disco anarchico, un disco che mette al centro la libertà decisionale di ogni singolo individuo, una libertà decisionale che, se incanalata nel verso giusto, non può che contribuire al bene di tutti. Perché lottare è una scelta, lottare è fare il bene, e facendo il bene si fa la cosa giusta. Altrimenti si può rimanere a guardare, si può assistere, si può vivere da spettatori non paganti, limitandosi a sopravvivere, a discolparsi, a pensare che tutto sommato va bene così... 

Sono ancora estremamente attuali queste canzoni di Fabrizio De André, e benché questo lo renda ancora vivo e presente, penso che non sia poi così felice di sapere che c'è ancora bisogno di ascoltare questo disco... significa che in quarant'anni non è cambiato niente, anzi... e significa che probabilmente queste canzoni non sono state poi così utili... fino ad ora...





Stefano Tortelli

C'era una volta l'Internazionale



Torno a scrivere dopo quaranta giorni circa, una Quaresima dettata da un intervento chirurgico, e delle placche alla gola, ma anche dal caldo opprimente che nelle settimane passate ha contribuito non poco a rendere arido il fiume delle idee. Più volte ho provato a scrivere qualcosa, gli spunti non sono mai mancati, ma ho sempre trovato qualche difficoltà a dar loro forma, ad aumentarne la sostanza, a dar loro un'ordine. Già di loro, solitamente, sono anarchiche... figuriamoci nelle settimane appena trascorse.

Ma ora sono tornato, ed in un certo senso aspettavo questa giornata per riprendere in mano i "fogli" di questo blog, le pagine bianche ancora da scrivere e questa penna che in sé contiene tutti i caratteri dell'alfabeto. Perché oggi è l'anniversario della Rivoluzione Francese, di quel secondo atto di ribellione agli antichi poteri che ormai da secoli guidavano l'andamento dell'Europa e non solo. Dico secondo perché prima dei moti dei fautori della I Repubblica francese vi furono le lotte d'indipendenza dei coloni nordamericani contro la Corona inglese, sfociati in una guerra che portò successivamente alla stesura della prima Costituzione ed alla formazione degli Stati Uniti d'America. Erano partiti bene gli States, ma poi si son persi strada facendo... il loro però fu un esempio per i rivoluzionari d'Oltralpe, i quali costrinsero alla fuga il re, delegittimarono i nobili ed il clero, si costituirono in Repubblica, diedero un'identità di cittadino francese ad ogni individuo che partecipasse attivamente alla vita della neonata repubblica ed ispirarono, nei decenni successivi, rivoluzioni simili in altre aree del Vecchio Continente. E sarebbe stato bello fare un articolo dedicato alla Rivoluzione Francese, tema che mi è sempre stato a cuore sin dalla quinta elementare, quando portai l'argomento all'esame (un po' come fece Max Collini degli Offlaga Disco Pax, solo che lo fece qualche anno prima, ed in terza elementare), ma alla luce dei recenti avvenimenti è soltanto uno spunto per parlare dell'attualità, di ciò che sta succedendo non oltre i nostri monti ma oltre il mare che ci bagna sulla costa orientale. Perché se non c'è nulla di nuovo sul fronte occidentale, su quello orientale c'è una polveriera che sta per esplodere... e la colpa è di tutti noi, di tutta l'Europa, sia, ovviamente, delle destre capitaliste, sia, e nemmeno troppo a sorpresa, delle sinistre più radicali.

C'era una volta l'Internazionale. Siamo nel 1864, i moti rivoluzionari del 1848, sebbene con alterne fortune, avevano fortemente modificato l'opinione pubblica, o, ancor meglio, l'avevano creata, soprattutto nelle fasce medio basse della popolazione, le quali necessitavano di organismi che dessero voce alle loro istanze per poi mettere nella condizione i poteri forti di accorgersi del fatto che le acciaierie non funzionavano da sole, nemmeno le miniere, e nemmeno i raccolti erano spontanei. Spesso furono alcuni borghesi illuminati a farsi portavoce degli ammutoliti operai e contadini, e così poterono pian piano nascere i primi sindacati riconosciuti, i primi partiti realmente democratici, dove il concetto di democrazia non era "potere al popolo" inteso come "il popolo elegge e poi chi viene eletto fa gli affari propri" ma "potere al popolo" inteso come "il potere viene dato in mano alla massa, alla realtà più rappresentata". E la realtà più rappresentata non poteva che essere quella dei cittadini operai e dei contadini di campagna. Nacque così la classe operaia, nacque così il proletariato. O meglio, nacquero la presa di coscienza di essere parte di un'entità grandissima, potenzialmente imbattibile. Sempre nel 1848 Karl Marx e Friedrich Engels pubblicarono "Il manifesto del Partito Comunista", vero e proprio programma di partito di quella che fu la prima realtà politica comunista, la Lega dei comunisti. Dopo sedici anni, tornando così al punto iniziale della nostra storia, nacque quella che noi conosciamo come Prima Internazionale, ovvero l'Associazione internazionale dei lavoratori. In essa confluivano tutte le realtà politiche che si erano rese conto di come, per poter reggere un'economia già allora traballante (nel 1857 ci fu la prima crisi del sistema capitalistico), era necessario garantire una buona condizione di vita alla stragrande maggioranza della popolazione: perché vedete, se non fossimo così asfissiati da terminologie tecniche e da prese di posizione dovute a pregiudizi, e si volesse in modo molto semplicistico spiegare le varie correnti politiche, quella migliore per definire le sinistre è quella pocanzi descritta...

L'Internazionale aveva lo scopo di mettere a confronto le varie esperienze locali dei vari Stati, aveva la missione di dare un'organizzazione sovranazionale alle lotte politiche, ed al centro di ogni discussione vi era il popolo, e non l'equilibrio politico, non la questione morale, non esisteva una bilancia sulla quale pesare i pro ed i contro. La Prima Internazionale racchiudeva in sé non solo partiti chiaramente comunisti, ma anche laburisti, social democratici, anarchici, e sebbene spesso non andassero d'accordo avevano comunque il modo di parlarsi, di spiegarsi, talvolta di mandarsi a quel paese, ma per lo meno esisteva un confronto, quasi sempre produttivo. L'esperimento della Prima Internazionale si concluse nel 1872. Nel 1896 vi fu la Seconda Internazionale, che divenne sempre più potente, raccoglieva sempre più consensi, tant'è che per stroncarla, vent'anni dopo, si diede vita alla Prima Guerra Mondiale... ma non ditelo in giro, queste cose non si devono sapere... 

Nel primo dopoguerra vi fu la prima grande scissione, ovvero quella tra l'Internazionale, che divenne Internazionale Socialista, ed il Comintern, che raggruppava tutte le potenze comuniste del mondo. Ma il senso era sempre quello: confrontarsi, parlarsi, aiutarsi, imparare. Famosi sono i viaggi di Togliatti in terra sovietica, molto lui imparò dagli eroi della Rivoluzione d'Ottobre e molto i russi impararono da lui, tanto da dedicargli una città: c'era Stalingrado, c'era Leningrado, c'era (e c'è) Togliattigrado. Ed anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, quella guerra che vide l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche disintegrare il nazismo e dare una seria lezione all'Occidente capitalista, Comintern e Internazionale socialista continuarono ad operare, risultando sempre un ottimo laboratorio di idee, un ottimo utero dal quale poi partorire tanti figlie quante le lotte da combattere per conquistare i diritti nei vari Stati...

Sembra preistoria, ma alla fine stiamo parlando di cinquant'anni fa... ed ora cosa c'è? Ora c'è un povero socialista in Grecia che, solo contro tutti, abbandonato da qualsiasi possibile alleato di ogni Stato europeo, abbandonato anche dai comunisti della nazione ellenica, viene bersagliato da destra e sinistra per il fatto che ha accettato un patto che lo mette con le spalle al muro, in ginocchio la Grecia, ma in un certo senso salva il culo a tutti quei partiti delle altre nazioni che possono ancora vendere fumo negli occhi ai propri elettori dicendo che comunque dalla crisi si potrà uscire... perché se la Grecia fosse caduta, se Tsipras non avesse accettato, l'effetto domino sarebbe iniziato: Grecia, poi Italia, poi Spagna, poi Irlanda, poi Portogallo. I primi a cadere, proprio perché sacrificabili. E poi la Francia, poi le piccole nazioni... Perché il capitalismo è così, più mangia e più vorrebbe mangiare, e di certo non si ferma per pietà o perché sazio. 

Si sarebbe potuto evitare tutto questo? Certo, si sarebbe potuto evitare, ed in un modo anche molto semplice. Se è pur vero che il motto dividi et impera è estremamente valido, è anche vero che dividere qualcosa di fortemente coeso è molto difficile, se non impossibile. Se le potenze di sinistra d'Europa avessero appoggiato Syriza non solo a parole ma anche a fatti avrebbero potuto far sentire la loro voce nel contesto nazionale, e poi a Bruxelles ed a Strasburgo. Ovviamente sorge spontaneo il discorso relativo all'assenza di un partito di sinistra in Italia, ad esempio. Già, è vero, qui di Democratico c'è solo il nome, ma tutte le realtà extraparlamentari che finora hanno fatto a gara a chi aveva il martello più lungo o la falce più larga, se si fossero messe d'accordo avrebbero potuto dire: "Bene, ad alcuni di noi Syriza piace, ad altri no. Ma ora questo è l'esempio più a sinistra, o vista in un altro modo meno a destra, nella politica europea attuale. Proviamo a dar loro una mano, facciamo in modo che abbia successo, perché così il popolo greco ci guadagna ed intanto la nostra realtà comincia a riprendere una forma... e chissà che un giorno possa avere successo anche qui, in Italia, quel Paese che non meno di quarant'anni fa aveva il partito comunista più forte dell'Europa occidentale".

L'han fatto!? L'ha fatto qualcuno in altri Stati europei? No...

Qui giocano tutti con la nostra pelle, da Grillo a Salvini a Renzi a Rizzo e via dicendo... Questi stanno ore a parlare nei loro palazzi, durante i loro comizi, firmano accordi, li rispettano, li annullano, li aggirano... ma a loro poco cambia, se non l'acquisizione o la perdita di prestigio... e noi li guardiamo in tv, mentre proviamo a mettere insieme il pranzo con la cena, cercando di capire quale sarà il nostro boia...

E pensare che basterebbe un minimo di organizzazione... ci riuscivano Marx ed i suoi compagni di tutta Europa quando c'era solo il telegrafo ed i treni non superavano le 50 miglia orarie, per quale motivo non ci dovremmo riuscire noi!? 

Sarà che, tutto sommato, sentiamo ancora poco i morsi della fame... 




Stefano Tortelli

lunedì 25 maggio 2015

Berlinguer, ti voglio bene! Senza se e senza ma.

Enrico Berlinguer e Roberto Benigni a Roma. 17 giugno 1983



Oggi sarebbe stato il novantatreesimo compleanno di Enrico Berlinguer, uno dei politici più amati dal Dopoguerra ad oggi, secondo forse soltanto a Sandro Pertini. La sua vita è finita a sessantadue anni, a causa di un ictus durante un comizio per il Partito Comunista, del quale è stato segretario per dodici anni, dal '72 all'84. Dalla sua Sardegna al Veneto, da Sassari a Padova il percorso è stato lungo, intenso, pieno di lotte, di scontri con le altre forze politiche ma anche con i propri compagni. Perché se una cosa a sinistra riesce bene è proprio quella di preferire l'immobilismo al compromesso, la scissione alla coesione nonostante. Ora come allora.

Ed ora, a distanza di trent'anni dalla sua morte anche Berlinguer sta subendo l'onta del revisionismo, della decontestualizzazione, della sottolineatura degli errori da lui commessi, diventando anche lui un ingranaggio della ben oliata macchina del fango promossa da coloro che pensano di essere gli eletti, i discendenti di Marx e Lenin, gli unici a poter portare avanti il discorso comunista in Italia. Ma non è di questo che voglio parlare, o meglio questo è solo il punto di partenza della mia esposizione che vuol partire da quegli errori messi in luce con estrema mancanza di rispetto e di cognizione di causa da parte di chi infanga Enrico e che vuole arrivare non solo a giustificarli ma a renderli i punti di forza della politica della maggioranza PCI sotto la guida di Berlinguer. 

Perché Berlinguer non era affatto stupido, e la sua non era affatto una politica emergenziale, a breve termine, indirizzata solo al servire per il presente risultando sterile nel futuro. Berlinguer puntava a quella famosa "Città futura" descritta da Gramsci nei suoi appunti, e sapeva che per arrivarci non era sufficiente soddisfare i lavoratori, assecondare le lotte studentesche, cavalcare l'onda dell'entusiasmo delle piazze. Perché Berlinguer sapeva che portare al benessere attraverso le conquiste dei diritti poteva essere un'arma a doppio taglio, sapeva che buona parte dell'elettorato votava PCI non tanto per coscienza politica ma per interesse, e per cui era necessario andare oltre, creare un forte legame tra il partito e l'elettorato, puntando possibilmente a renderlo più vasto, raccogliendo quei consensi che sarebbero sì stati difficili da strappare ma percorrendo la strada non tanto che portava alla pancia dell'elettore quanto a quella della testa. Perché si fa presto a dire che il PCI ha fallito per colpa della classe politica, per colpa anche di Berlinguer, ma forse si sopravvaluta la tenuta morale dell'elettorato che portò il PCI ad essere il primo partito in Italia ed il più forte partito comunista dell'Europa Occidentale: perché è vero, era gente impegnata, come non si è più vista in Italia negli ultimi trentacinque anni, ma bisogna chiedersi il perché di queste loro azioni, di questo loro impegno. Era un impegno strumentalizzato, dettato dalla fame, dalla sopravvivenza, dalla logica necessità di rispetto, di riconoscimento, di acquisizione di determinati diritti. Il problema è che una volta conquistati i diritti a loro cari si sono ritirati, sono tornati a casa, davanti alla TV, sul divano nuovo, e non si sono posti il problema di spiegare la loro storia ai figli, alle nuove generazioni, alla fatica; non hanno motivato le loro scelte politiche, se non dicendo che votavano così perché era l'unico modo per conquistare ciò che desideravano. Si contesta tanto l'elettorato berlusconiano della prima ora, quello di imprenditori e di ladroni vari, ma del resto non hanno agito tanto diversamente: han votato Berlusconi perché Berlusconi garantiva loro le libertà che nessun altro gli avrebbe concesso... o no!? 

Berlinguer agì quindi con lungimiranza, prendendo le distanze dai comportamenti dell'Unione Sovietica ma non dagli ideali dell'universo sovietico, e non si pose il problema di contrapporsi per partito preso alla DC perché all'interno della DC c'erano delle correnti che molto avrebbero potuto dare alla causa di sinistra: lo chiamano cattocomunisti gli ottusi di estrema sinistra l'atteggiamento tenuto da Berlinguer, ma in verità era unione di intenti, era solidarietà, era umanesimo volto a dar sostegno ad una battaglia che doveva continuare. Perché c'era il rischio di fare la fine della Grecia dei colonnelli, c'era il rischio di un colpo di Stato, di una guerra civile, di una invasione occidentale. E per cui si arrivò al compromesso storico tra PCI e DC, tra Berlinguer e Moro. e per capire quanto importante e fondamentale poteva essere il compromesso storico, se solo si fosse potuto realizzare, è sufficiente analizzare ciò che è successo nel momento in cui questa ipotesi stava diventando realtà. E' stato architettato il rapimento di Moro da parte delle Brigate Rosse, che poi il  9 maggio si è trasformato in assassinio, e casualmente stanno emergendo tutta una serie di prove che mostrano come quelle non fossero Brigate Rosse e come dietro tutto ciò che stava avvenendo, sia tra i Brigatisti rossi sia tra i fascisti erano presenti il Gladio e la CIA. Perché per l'appunto l'importanza di un evento e/o di una persona si evince anche e soprattutto dalla reazione che questo evento e/o questa persona suscita nei nemici. Ed i nemici hanno deciso di colpire Moro, in modo da non perdere definitivamente le possibilità di ribaltare una situazione che per loro era estremamente difficile, delegittimare totalmente agli occhi dell'opinione pubblica le Brigate Rosse (che, nonostante quel che si racconta ora, godevano di una simpatia non trascurabile tra la popolazione) e far passare per colpevoli tutti i comunisti. Berlinguer compreso. Avessero ucciso Enrico, probabilmente nemmeno un accorato invito a non armarsi come quello fatto da Togliatti dopo l'attentato che lo colpì avrebbe fermato i comunisti di allora. Del resto i servizi segreti vengono spesso chiamati "intelligence" mica per caso... 

Ma la cosa più grande di Berlinguer, che va oltre le critiche e non parte da esse, fu la sua capacità di arrivare alla gente come pochi altri, di far leva sulle emozioni della gente: perché il problema di molti politici di sinistra è sempre stato l'apparire burberi, freddi, estremamente pessimisti, pieni di rabbia e rancore di fronte allo sfacelo a loro contemporaneo, e le uniche emozioni che potevano far passare erano quelle di rivincita, di vendetta, di desiderio di lotta. Funzionali al massimo, e del resto i risultati pre-Berlinguer lo dimostrano, ma comunque mai mostravano un qualcosa che andasse oltre tutto ciò: non c'erano molti sorrisi, non c'era la passione, non c'era una forte luce nei loro occhi. Per fare un esempio non c'era l'intensità che era presente in Ernesto Che Guevara o nei suoi compagni cubani, da Fidel Castro a Camilo Cienfuegos. Berlinguer in questo è stato unico prendendo in considerazione il partito comunista italiano, ed è forse proprio questa la sua caratteristica che l'ha portato ad essere giusto un gradino sotto a Pertini nella classifica dei personaggi politici nostrani più amati. Perché come diceva Gaber "Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona"... ed io credo che fosse questo il motivo più importante per il quale essere allora comunisti.

Non per le lotte, non per il pane, non per i diritti. Ma perché si aveva una guida morale meravigliosa, capace di fare politica come pochi altri, appassionato, colto, intelligente... ed estremamente buono. A chi ora cerca di delegittimare tutto ciò che ha fatto, arrivando ad arrogarsi il diritto di negare il suo essere comunista, io voglio soltanto dire che forse non è stato il più grande rivoluzionario, ma se sono i rivoluzionari quelli che aspettate, in un contesto come quello italiano, allora potete continuare a decontestualizzare tutto, e probabilmente arriverete a sputare anche su Che Guevara, su Allende, su tutti quelli che, come Berlinguer, per malattia o uccisi, hanno lottato fino all'ultimo per il bene di tutti, anche a costo di perdere un giorno consensi. 

Questo articolo forse verrà tacciato come agiografico, ma a me non interessa. Se Berlinguer ha fallito la colpa è di chi ha smesso di votare PCI, vuoi perché non ne ha sentito più il bisogno o vuoi perché non c'era più Berlinguer... ma allora ditemi, erano veri comunisti quelli che dopo la morte di Berlinguer hanno riposto le bandiere? Erano comunisti quelli che una volta conquistato ciò che a loro interessava hanno smesso di lottare per i diritti di qualcun altro? 

Secondo me no... 

Berlinguer però lo era, e chi veramente l'ha amato ha continuato ad esserlo. Perché se è vero che Berlinguer era una brava persona, è anche vero che una brava persona piace a persone che sono brave quanto lei.






Stefano Tortelli

giovedì 14 maggio 2015

"Giovanni e Nori. Storia d'Amore e Resistenza"... e di intrecci

Illustrazione estemporanea di Giulio Peranzoni durante "Sai com'è" dei Gang & Gaetano Liguori, alla fine dello spettacolo di Daniele Biacchessi "Giovanni e Nori. Storie d'Amore e Resistenza" 




12 maggio 2015. Alba, provincia di Cuneo. Sala Beppe Fenoglio. Alba-Fenoglio è uno di quei binomi che rimarranno nell'eternità delle memorie, della letteratura, della Resistenza. Perché Fenoglio prima di diventare un partigiano, uno scrittore, un narratore della lotta partigiana era un intellettuale, amante della filosofia, della lettura, della conoscenza. Ed era nato ad Alba, nel 1922, da una famiglia come tante, di classe sociale medio-bassa, che però desiderava dare ai propri figli una vita migliore insegnando loro la cultura sì del lavoro, ma anche della lotta sociale in nome del progresso comune. E questa è una storia comune, una radice propria di tanti giovani che, dopo il '43, si sono diretti verso le colline, con qualche vecchio fucile in spalla, poche cartucce nelle tasche ma una volontà, una passione ed un amore nel cuore più grandi di ogni fatica, di ogni sacrificio, di ogni paura. Fenoglio era ad Alba il 10 ottobre del 1944, quando "la presero in duemila", ed ad Alba era quando il 2 novembre "la persero in duecento". L'occupazione partigiana di Alba durò per meno di un mese, ma la sconfitta albese è una di quelle battaglie perse che non sono sinonimo di sconfitta in guerra. Perché a distanza di cinque mesi l'Italia sarebbe stata finalmente liberata, e Beppe, come altri intellettuali che hanno combattuto, ha raccontato nei suoi libri le sue esperienze, le sue lotte, gli intrecci continui tra amicizie, amori, fughe, avanzate. Il sapore del fango, l'umidità dei boschi alpini, la ricerca del cibo, l'assistenza dei tanti paesani che in quei giovani di grandi speranze ci credevano fermamente. Dopo la fine della guerra Fenoglio ebbe modo di conoscere Calvino, Vittorini, Natalia Ginzburg, grandi autori ma soprattutto grandi personaggi estremamente attivi durante la Resistenza. E nacquero così nuovi intrecci, reciproci aiuti, reciproche attenzioni, perché prima di qualsiasi altra cosa era fondamentale attestare ciò che in quegli anni successe: le generazioni future dovevano sapere, ricordare, tramandare ciò che era stato il Ventennio Fascista e cosa fu necessario per porre a questo nefasto periodo la parola fine. 

Sono degli intrecci, intrecci che sono alla base delle storie, da quelle più recenti alle più antiche della storia dell'uomo. Ed è una storia di intrecci quella che il 12 maggio 2015, ad Alba, nella Sala Beppe Fenoglio, è stata raccontata da Daniele Biacchessi: intrecci che, se osservati in modo superficiale, possono apparire casuali, ricchi di coincidenze, alquanto fortuiti. La verità è che ad avvicinare i fili delle vite dei personaggi che animano questa storia sono la Resistenza, l'amore per la propria patria, per i propri ideali; e l'amore nato tra i due protagonisti di questa "Storia d'amore e Resistenza" è stato partorito da un grembo fertile figlio anch'esso degli amori che hanno portato non solo i due fili ad incontrarsi ma ad intrecciarsi, perdersi, ritrovarsi per poi non lasciarsi più. Perché questa è la storia del compagno Giovanni Pesce e della compagna Onorina Brambilla: lui alessandrino, lei milanese. Pesce era emigrato con la famiglia in Francia durante i primi anni del Ventennio perché il padre, socialista, si trovò obbligato a lasciare l'Italia per dare un futuro alla propria famiglia. In Francia Pesce conobbe le miniere, le storie dei minatori, molti di loro come lui esuli, ed una volta maturo decise di partire per combattere la sua prima Resistenza, quella spagnola, con le Brigate internazionali e contro i Franchisti ed i nazi-fascisti. La perse la sua prima Resistenza, ed una volta tornato in Italia, poco dopo l'inizio della Seconda Guerra Mondiale, venne incarcerato a Ventotene perché antifascista. In prigione ebbe modo di arricchire ulteriormente la sua coscienza politico-sociale grazie ad uno strumento che ormai è fuori moda, ovvero il libro, ovvero il pensiero filosofico, ovvero la base di ogni grande azione dell'uomo. Dopo l'Armistizio raggiunse Torino e si unì ai GAP del capoluogo piemontese, e fu tra i più grandi partigiani che la città sabauda poté ammirare. E sicuramente ebbe paura più di una volta, sicuramente fu condizionato dall'incertezza di premere o meno un grilletto o di posizionare o meno un ordigno, ma la sua volontà, la sua voglia di libertà, la sua tenacia lo portarono ad agire sempre nel modo giusto. A Milano ci arrivò nel maggio del '44, dopo che, con il grande Dante Di Nanni, aveva sabotato un'antenna presieduta dai fascisti che disturbava le frequenze di Radio Londra. Di Dante Di Danni ho già parlato prima del 25 aprile, ma è fondamentale mettere in luce anche in questo caso un altro intreccio: quello che ha portato a combattere fianco a fianco due grandi partigiani, quello che ha fatto sì che la memoria del partigiano caduto potesse venir raccontata grazie al ricordo del partigiano sopravvissuto e che fino all'ultimo ha cercato di salvare la vita al proprio compagno. 

A Milano Pesce riorganizzò il gap locale, prese contatti con gli altri partigiani, cominciò a pianificare la resistenza. E conobbe Onorina, "Nori", una compagna che sarebbe diventata la SUA compagna. Nori fu però arrestata e portata nei campi di concentramento di Bolzano, Pesce rimase fino al giorno della Liberazione a Milano, continuando a combattere, con il cuore mosso non solo più dall'amore per la libertà ma anche dall'amore per la donna amata. Il 25 aprile 1945 Milano festeggiò la Liberazione, e pochi giorni dopo anche Nori poté raggiungere la città: perché i nazisti abbandonarono Bolzano, liberarono i detenuti, e per Nori, come se non fosse successo nulla nei venti anni precedenti, fu semplicissimo raggiungere il capoluogo longobardo: stazione di Bolzano, treno, Milano, tram, sede del GAP. Giovanni. 

Giovanni e Nori si sposarono due mesi dopo, e sebbene deposero i loro fucili mai smisero di maneggiare le armi della lotta sociale, della memoria, dell'impegno. Entrambi si impegnarono anima e corpo per l'ideale comunista, ma finalmente potevano farlo sempre insieme, fianco a fianco, fino alla fine dei loro giorni. 

Questa è la storia di Giovanni e Nori, questa è la storia che ci è stata raccontata da Daniele Biacchessi ad Alba. E limitarmi a citare soltanto la penna e poi voce che ci ha accompagnato lungo i fili delle vite di Giovanni Pesce ed Onorina Brambilla sarebbe uno sbaglio, perché porterebbe alla non citazione di un altro intreccio. Quello tra la letteratura e la lettura, rappresentate da Daniele Biacchessi, la musica dei Gang e di Gaetano Liguori e le illustrazioni di Giulio Peranzoni: un'opera multimediale quella andata in scena alla Sala Beppe Fenoglio, che ha coinvolto, commosso, scosso, e spero risvegliato in chi ancora ce l'aveva sopito il senso della propria esistenza, della propria voglia di essere, esistere, resistere. 

E, giusto per sottolineare una volta in più l'importanza degli intrecci, intrecci che sostanzialmente condizionano estremamente il processo del filo che ognuno di noi rappresenta, è importante sottolineare come le canzoni eseguite dai Gang siano esemplari per sì raccontare la Resistenza, ma anche per mostrare in quanti alla Resistenza hanno dedicato le loro note e le loro parole. Perché oltre a La pianura dei sette fratelli, brano immancabile quando si parla di Lotta partigiana e scritto dai Gang stessi, sono state cantate Dante di Nanni degli Stormy Six, Su in collina di Guccini, Sai com'è (testo scritto da Lolli) ed Eurialo e Niso di Bubola. 

La vita di ognuno di noi è il prodotto di milioni di intrecci, e la morale di questa storia risiede nel ricordare le storie di ieri, le memorie, gli avvenimenti che hanno fatto sì che ad un certo punto del nostro filo sia presente un nodo: uno dei tanti, forse, ma fondamentale per spiegare il motivo, insieme a tutti gli altri nodi, per il quale noi, adesso, in questo preciso istante, siamo quelli che siamo. 

Grazie a Daniele Biacchessi, ai Gang, a Giulio Peranzoni, a Gateano Liguori per il meraviglioso spettacolo, per avermi commosso nuovamente con le storie della Lotta partigiana che tanto amo leggere e raccontare ma che, mostrate così, hanno tutto un altro sapore. Grazie ad Alba che si è dimostrata sempre attenta al suo passato, alla memoria di uno dei suoi migliori figli e di ciò che lui, Beppe, ha rappresentato per Alba e per l'Italia intera. 

E grazie a voi, grandi uomini e donne che soprattutto tra il '43 ed il '45, ma anche prima e dopo, avete fatto sì che in Italia si possa ancora provare a pensare, a raccontare, a ricordare, a sperare, a vivere. 

Non posso che chiudere questo mio post con la canzone che raccoglie tutta la storia, che la sintetizza e ne mostra la morale più profonda, più intensa, più vera. Giovanni e Nori. Storia d'amore e resistenza, non poteva che concludersi con l'esaltazione di queste due sfumature di rosso, che da sempre e per sempre determineranno il percorso del mio filo e ne detteranno i futuri intrecci. 





Stefano Tortelli

lunedì 11 maggio 2015

70 anni di ipocrisie, di mezze verità, di irriconoscenza





Il 9 maggio dovrebbe essere una data importante nel calendario politico-storico di tutto il mondo, una data che in sé racchiude un significato ben preciso, una conquista fondamentale per l'uomo, una sonora sconfitta per il più grande pericolo che l'umanità ha dovuto affrontare nel corso della sua storia. Il 9 maggio 1945 Berlino fu conquistata dall'Armata Rossa Sovietica, ponendo fine una volta per tutte alla terribile egemonia nazista che per un decennio aveva messo sotto scacco il pianeta intero, e soprattutto l'Europa. Perché il 9 maggio Keltel, generale tedesco, firmò la capitolazione della Germania, arrendendosi agli Occidentali ed ai Sovietici, veri conquistatori della Germania Nazista. 

Logicamente qualcuno potrà chiedersi perché considero l'Unione Sovietica l'autentica artefice della disfatta di Hitler, e la risposta è celata in ciò che successe poche settimane prima dell'inizio della guerra: il 3 settembre del '39 le truppe naziste dichiararono guerra alla Polonia, portando quindi da una parte i Sovietici ad invadere il territorio polacco e gli Alleati (Francia, Regno Unito e Stati Uniti d'America) ad aprire le ostilità nei confronti della Germania. In partenza tra Russi e Tedeschi vigeva un patto di non belligeranza, il famoso trattato Molotov-Von Ribbentrop, firmato pochi giorni prima dell'inizio del conflitto. Si può quindi parlare in un certo senso di neutralità reciproca, ma la verità è che Hitler decise di muovere i primi passi del più grande conflitto mondiale mai verificatosi proprio in Polonia per anticipare le eventuali mosse di Stalin per garantire la totale difesa del Blocco Socialista. Quando quindi le prime armate tedesche varcarono i confini della Polonia, i Russi non poterono che entrare in guerra anche loro, proprio per non ritrovarsi in poco tempo minacciati direttamente, sul proprio territorio, dalla potenza tedesca. In tutto questo ci si può chiedere cosa possa centrare la povera Polonia, ma un po' la geografia ed un po' gli assetti politici di quel momento ne possono spiegare il passivo coinvolgimento. Hitler non era stupido, e di questo bisogna dargliene atto: non fosse stato un folle, uno psicopatico, con un progetto tanto ambizioso quanto inutile, forse sarebbe stato uno dei più grandi strateghi e condottieri della storia dell'uomo. Non si può però negare che fosse a suo modo geniale, soprattutto nel sapersi districare tra due blocchi così potenti come quello Occidentale e quello Sovietico: di fatto, nei primi anni della sua ascesa, tutto l'Occidente capitalista vedeva in Hitler più che una minaccia una risorsa, perché oltre ad essere un razzista, un fascista ed un dittatore, era soprattutto un anti-comunista, ed ai potenti dell'Occidente questo era più che sufficiente per avere nei suoi confronti una malcelata simpatia. Tant'è che Hitler poté fare il buono ed il cattivo tempo per diversi anni, anche perché fu abile a sembrare, almeno per il primo periodo, non tanto lui il capo dell'alleanza fascista europea, ma un semplice fido scudiero di Mussolini, distraendo così l'opinione pubblica, confondendo le acque, rimanendo per diverso tempo nelle retrovie. Quando ebbe modo di affacciarsi totalmente sul panorama internazionale era ormai troppo tardi: conquistò l'Austria, promulgò le leggi razziali, disponeva ormai dell'esercito più grande e meglio organizzato del mondo. Ed in lui erano riversate tutte le speranze dell'Occidente: "Dai che finalmente abbiamo la nostra speranza di sconfiggere il comunismo". 

Nel '39, nei primi giorni di agosto, le linee telegrafiche tra Mosca e Londra erano decisamente movimentate: Stalin incaricò Molotov di prendere i contatti con i diplomatici inglesi per dar vita ad una morsa anti-nazista invincibile, in grado non solo di sconfiggere Hitler ma di metterlo nella condizione di non poter neppure cominciare la guerra. Perché Hitler era sì un pazzo, ma non uno sprovveduto. Solo che l'unica cosa che gli Alleati erano disposti a fare era ascoltare Molotov, ma assolutamente non avevano alcuna intenzione di allearsi con la Russia. Fu questa una mossa saggia? Direi proprio di no, e non è che lo dico per partito preso, ma perché sono le decine di milioni di morti che si sarebbero potute risparmiare a parlare per me. E lo è anche la storia, che ci mostra come nel '45 sia successa più o meno la cosa che sin dall'inizio speravano di mettere in atto i Sovietici: accerchiamento, invasione e sconfitta del nazismo per mano dei Capitalisti e dei Sovietici. 

I sei anni che hanno visto muoversi milioni di soldati in Europa ci raccontano che Hitler, dopo aver occupato la parte occidentale della Polonia (mentre l'Armata Rossa prese possesso della zona orientale), si vide recapitare la dichiarazione di guerra degli Alleati (che intervennero più per il fatto che l'Orso russo si era svegliato che per altro), e così prima conquistò anche la Francia e poi occupò gran parte dell'Europa con i suoi generali. Dopodiché, sistemato il nemico occidentale, si dedicò alla campagna di Russia, che cominciò nel 1941 e finì con la gloriosa vittoria dell'Unione Sovietica nel 1943, e che sostanzialmente diede il colpo di grazia al Fascismo ed al Nazismo. Da lì in poi, i Tedeschi cominciarono a perdere territori, altre migliaia di uomini e soprattutto l'appoggio della popolazione tedesca: perché con undici milioni di soldati in meno (sui diciassette che erano stati impiegati sul Fronte Orientale) il controllo dell'intera area di influenza nazista non poteva che essere meno efficace. Soltanto gli errori strategici degli Stati Uniti e del Regno Unito rallentarono la ritirata tedesca dai territori occupati (come ad esempio accadde nel Sud Italia, quando a forza di tentennamenti nella risalita dello Stivale si è dato modo ai nazifascisti di risistemarsi lungo la Penisola, portando ad uno spreco di vite italiane, americane e tedesche inutile...sì, anche tedesche, perché bisogna ricordare SEMPRE che chi muore in battaglia è un soldato, non Stalin, non Hitler, non Mussolini, non Roosvelt). E per cui ecco il D-Day, ecco la Liberazione della Francia e dell'Italia, ecco le "gloriose" battaglie tra tedeschi ed Alleati, con questi ultimi quasi sempre vincitori, fino a raggiungere la tanto agognata Berlino. Ma come sciacalli (e del resto tali si sono confermati con il Giappone) hanno sparato, anzi bombardato, sulla Croce (uncinata) Rossa, ormai ferita a morte ed in attesa del colpo di grazia. 

Non è mai il boia ad essere il colpevole della morte di un condannato alla pena capitale, ma chi ha fatto in modo che questa pena capitale dovesse venir eseguita. Così la "colpevole"  della sconfitta del Nazismo è stata l'Unione Sovietica, e, a dirla tutta, è stata anche lei a dare il colpo di grazia all'egemonia tedesca. Se poi si vuole credere alla storia che ci viene insegnata è un altro discorso. Io non racconto la storia, io racconto le verità, e le verità sono queste: documentate, riportate, disponibili. E se non bastasse tutto ciò, è sufficiente guardare i successivi settant'anni per comprendere come la storia sia sempre stata la stessa: a turno diversi Stati sono stati incaricati di mettere nella condizione la Russia di inciampare, di barcollare, salvo poi essere i primi ad intervenire contro lo Stato stesso dopo che aveva fallito la sua missione primaria. E' successo con Al Qaeda, è successo con Saddam Hussein, e succederà ancora. E del resto se può essere considerato di parte il mio discorso quando si parla dei fallimenti del capitalismo nella guerra al socialismo nell'Europa orientale, è innegabile il ruolo svolto dagli Stati Uniti a Cuba, in Cile, in Argentina per soffocare la voglia di socialismo dei Sudamericani. 

Sabato si sono svolti i festeggiamenti del settantesimo anniversario della Seconda Guerra Patriottica (la prima fu quella contro Napoleone) del Popolo Russo, anche conosciuta come Giornata della Vittoria. A San Pietroburgo ed in tante altre città russe (e non solo) centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per festeggiare e per ricordare i trenta milioni di morti, tra soldati e civili, che hanno perso la vita durante l'invasione nazista del loro Paese, della loro Terra, della loro Madre. C'erano delegazioni politiche di buona parte del mondo, soprattutto a San Pietroburgo, ma mancavano quelle degli altri "vincitori" della seconda guerra mondiale, mancavano quelle degli italiani, mancavano quelle dei Paesi capitalisti. Non c'erano quindi i grandi potenti del mondo, ma in quelle piazze era rappresentata gran parte del mondo: la maggioranza degli abitanti della Terra era rappresentata durante i festeggiamenti, e perciò bisogna presupporre che per la maggior parte della popolazione terrestre questa ricorrenza è importante. Ma come dissi in un post riguardante il riconoscimento della Palestina, per ora la maggioranza assoluta conta poco... proprio agli occhi di chi si considera democratico.

Ma arriverà il giorno in cui innanzi tutto questo evento verrà preso ad esempio in altre Nazioni (sarebbe bello se festeggiamenti simili si tenessero in Italia in quella che in un certo senso è la trasposizione italiana del 9 maggio, ovvero il 25 aprile), ed anche il giorno in cui la maggioranza assoluta conterà davvero qualcosa. 

Nel frattempo, rendo onore ad un Popolo da secoli si distingue per la sua grandezza, la sua forza ed il suo senso di appartenenza, e che non solo si difende ma auspica di migliorare anche il resto del mondo. Tantissimi auguri, fratelli Russi, e lunga vita alla vostra Patria. 


Ps: vorrei sottolineare che non credo siano tutti comunisti coloro che nelle piazze russe sabato hanno sfilato per ricordare il sacrificio dei loro nonni. Erano semplicemente Russi, consapevoli dell'importanza della memoria, della storia, della difesa della realtà. A differenza di noi italiani, che ce ne freghiamo altamente del 25 aprile... ma questa è un'altra storia...



Stefano Tortelli

lunedì 27 aprile 2015

Antonio Gramsci, "Nino".

Antonio Gramsci. Filosofo, linguista, letterato, giornalista. E Comunista.




"Basta pensare al Partito Comunista. Basta con i pugni chiusi, la falce ed il martello. Basta con i vecchi slogan. Basta rimpiangere le lotte operaie e studentesche. Basta, perché fintanto che non si ritrova il coraggio di dire con fierezza Sì, sono comunista, ripartendo dal padre del comunismo in Italia e dei suoi insegnamenti, tutto questo resta solo puro folklore". Queste sono le parole che Marino Severini ha usato a Torino, in occasione del concerto dei Gang di inizio marzo, per introdurre uno dei brani che compongono il nuovo album Sangue e cenere. Si intitola Nino questa canzone, dedicata ad Antonio Gramsci, ed è una specie di confidenza, di un dialogo a senso unico, pregno di rabbia, di domande, ma che contiene anche una promessa, una dichiarazione di amore: per Nino, per i suoi insegnamenti, per le caratteristiche peculiari dell'essere comunista, del sentirsi comunista. 

Perché sfortunatamente dopo settant'anni di politica anti-comunista e filo-occidentale in Italia il concetto di comunismo è stato devastato da luoghi comuni, stereotipi, promossi prima dalla DC, poi dai filo-americani, passando per Berlusconi ed arrivando a Renzi. Perché ammetto che quando a fine luglio si concretizzò la chiusura del giornale L'Unità, fondato dallo stesso Gramsci, sottovalutai la portata di quel gesto, ed anzi pensai: "Beh, in questo modo finalmente si smetterà di infangare un giornale che è stato la colonna portante del comunismo fino almeno ai primi anni '90". Ma poi, negli ultimi mesi, ho rivalutato la mia posizione, e mi sono reso conto di come la fine de L'Unità fosse l'ennesimo segnale di come, anziché tentare di riprendere in mano una tradizione meravigliosa, ricca di cultura, di lotte, di ideali, si volesse andare in tutt'altra direzione. Del resto da allora Renzi si è manifestato per quel che è, ovvero in tutto e per tutto un altro democristiano prestato alla politica di oggi che si comporta come quello che, teoricamente, era il suo primo antagonista, fino a riabilitarlo, fino, addirittura, a farlo quasi rimpiangere. Se questo è il futuro che ci aspetta, visto che il presente già di per sé non è roseo, siamo veramente messi malissimo. 

C'era invece chi, originario della Sardegna ma trapiantato in Piemonte, aveva, cent'anni fa, teorizzato "La città futura", reso contemporaneo Marx, sottolineando come sì, la lotta operaia e contadina sono importanti, ma che queste per affermarsi al meglio dovevano appoggiarsi alla cultura, alla storia, agli studi. Ed è proprio questa la peculiarità di Gramsci: lui non parlava di classe operaia, non parlava di contadini, per lui esistevano solo gli sfruttati e gli sfruttatori, e vedeva nella cultura, nello studio, nella conoscenza delle proprie radici e delle proprie storie la base per rendere infallibile una rivoluzione, un'evoluzione, un miglioramento per tutti a scapito di pochi. Gramsci aveva anticipato di 40 anni le considerazioni fatte da Fromm e Chomsky in alcuni loro testi. Tutto questo perché Gramsci, prima di essere un filosofo, un linguista, un critico letterario, uno scrittore, era una persona che aveva un'immensa cultura, una grande conoscenza. Cultura e conoscenza che voleva mettere al servizio del popolo, aggiungendoci però qualcosa di suo: le sue teorie, le sue idee, i suoi ideali. E per un certo periodo riuscì a fare tutto questo: nel 1921, il giorno prima del suo compleanno, fu tra i principali promotori della nascita del Partito Comunista, nel 1926 fu tra i più duri contestatori di Mussolini e del fascismo.. Nel '27 venne incarcerato per le sue idee, per la sua strenua resistenza, per la sua incorruttibilità. Una volta in carcere avrebbe potuto rinnegare le sue idee, avrebbe potuto decidere di porre fine alla sua sofferenza voltando le spalle al comunismo, ai simboli: bastava che abiurasse, come fece Galileo Galilei. Ma lui era un Giordano Bruno, e come lui stesso ebbe a scrivere si rese co-responsabile della sua morte, della sua condanna. Era consapevole, Nino, di essere uno, ma era anche consapevole che stava diventando un simbolo vivente dell'ideale comunista, e che un crimine ancora peggiore della sua ingiusta detenzione era il rinnegare tutto per la sua individuale libertà.

Nino scelse, e scelse di donare la speranza della libertà universale anziché condannare il resto del mondo ma salvare se stesso. Parteggiò e non patteggiò, e nemmeno smise di combattere, continuando a riempire quaderni con i suoi appunti, prima dal carcere e poi dalla clinica nel quale venne ricoverato per l'inesorabile peggioramento delle sue condizioni di salute. Morì, nel '37, ma come tutte le morti dei grandi eroi non fu vana. Perché fino all'ultimo seppe dare una direzione, seppe indicare la via, seppe guidare chi silenziosamente si sentiva comunista verso la Rossa Primavera, che cominciò a manifestarsi in tutto il suo splendore dopo l'Armistizio. 

Però Nino è poco ricordato, quasi mai insegnato, se non all'università, ma anche nel mondo accademico lo si incontra negli insegnamenti "di settore", e facilmente lo si ritrova nei testi riguardanti la linguistica, e specialmente la dialettologia, piuttosto che in quelli di filosofia o di storia contemporanea. E probabilmente anche in questo si denota l'influenza catto-capitalista che hanno caratterizzato la storia italiana dal dopoguerra ad oggi. Di Gramsci si parla poco, ed è quindi inevitabile ritrovarsi circondati da persone che non sanno il significato del 25 aprile, di altre che vedono in tutti i partigiani dei banditi, di altre ancora per le quali i comunisti erano mangia-bambini e ladri di terreni. Perché ovviamente per un certo tipo di propaganda era più comodo mostrare quel che è stato il comunismo nell'Est Europa, dove le vergogne verificatesi in nome di un ideale sono state strumentalizzate al massimo, senza spiegare il perché, senza dire a cosa erano dovute. Una vergogna è sempre una vergogna, sia chiaro, ma la vergogna va raccontata dall'inizio alla fine e non soltanto nel momento della sua manifestazione. E la vera vergogna resta l'ignoranza, o meglio l'indifferenza, di fronte a Gramsci, di fronte a Matteotti, di fronte a Turati, di fronte a tutti i partigiani caduti per la libertà, di fronte alla naturale evoluzione del fascismo, ovvero il capitalismo. 

Ma queste sono storie che non si può cercare su alcun libro, queste sono storie che bisogna imparare analizzando la storia, studiando, informandosi. Per non commettere l'errore di grandi compagni che hanno voluto rendere settoriale, dimenticandosi di Gramsci, le varie lotte, finendo ovviamente per perderle il giorno dopo averle vinte. Del resto, questo è il sistema capitalistico ed utilitaristico: nel momento in cui si ottiene lo scopo per cui ci si è uniti è inutile rimanere un corpo unico, a quel punto meglio prendere strade differenti, che non si sa mai che il mio contributo ad una lotta che non sento mia possa recarmi qualche danno. 

Mi dispiace Nino, ed anche io voglio chiederti scusa in nome di chi presto ti ha dimenticato, di chi una volta raggiunto il suo scopo, servendosi dell'ideale, l'ha abbandonato, "gettando la bandiera in un fosso". Ed anche io, Nino, voglio darti la mia parola. Perché io non ti dimentico, ed anzi sempre più approfondirò la conoscenza delle tue opere, di chi in qualche modo si è ispirato a te, di chi continua a portare avanti le tue istanze.

Ma oggi Nino ti do la mia parola,
quella di chi nel pane ci mette tutto il sole,
quella che canta con la città futura,
e corre fino al vento,
oltre le sbarre, oltre i cancelli, oltre queste mura.

Comunista è chi ferma la mano che alza il bastone,
comunista è la terra che c'è oltre ogni nazione,
comunista non è che un sentimento, è Rivoluzione
comunista ora e sempre per l'unità..
Comunista... Comunista... 





Stefano Tortelli