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giovedì 6 ottobre 2016

La pendolare





Mattina presto, inizio ottobre, gli sguardi dei passanti ancora alternano immagini oniriche alla realtà. Il tram si ferma e mi permette di sfuggire per un po' ai primi freddi; cerco posto svogliatamente, non lo trovo, mi appoggio allo scheletro del vagone, intento a sciogliere i nodi delle cuffie che qualche folletto dispettoso ogni notte accuraramente tesse con le sue tanto piccole quanto abili dita.

Fa freddo ma c'è il sole, i passeggeri cercano nel giornale e nel cellulare un po' di compagnia e qualche emozione. Premo play e mi abbandono alla musica, mi guardo attorno e tengo il tempo ticchettando su una delle sbarre del tram.

All'improvviso vedo lei, qualche metro più in là, raccolta nei suoi capelli rossi e nel giubbotto dello stesso colore. Mi vede, distogliamo lo sguardo, ma non passa una canzone che siamo di nuovo lì, a metà strada. I nostri occhi di incontrano tra la madre col passeggino e l'impiegato che guarda l'orologio sbuffando periodicamente. Noto il filo degli auricolari, abilmente nascosti dalla sua chioma color tramonto, vedo il suo piede che batte sul pavimento e va a ritmo con le mie dita... chissà se stiamo ascoltando la stessa canzone!? Sorrido pensandoci, ed intanto lei ancora non scende. Andrà dove vado io?

Mancano sempre meno fermate, lei è impassibile al suo posto, io mi sposto ma ci vediamo ancora. E ancora cinque fermate, ho il 20% di possibilità, non male. Scenderemo insieme e forse faremo qualche passo insieme... ma non è così, si avvicina alle porte, prenota la fermata. Il mio sguardo si aggrappa ad ogni suo gesto, quasi a supplicarla. Non vorrebbe dirle addio. Ma è un tentativo vano. Il tram si ferma, Torino si riapre a noi e lei è già per strada.

La cerco per un'ultima volta, si gira per attraversare e per commiato gli sguardi si incrociano per lasciarsi in un attimo.

Sarà per un'altra vita, pendolare dai capelli color del tramonto...

Ma se ci penso, dopo tutto, un breve tratto del lungo percorso che si chiama Vita l'abbiamo condiviso.

Grazie di esserci stata.

Stefano Tortelli



mercoledì 30 settembre 2015

Fabrizio De André - Roger Waters: poesia e musica al servizio della ribellione





In occasione del Premio Tenco del 1997, la grande Fernanda Pivano, premiando Fabrizio De André, disse, chiudendo il suo discorso, che se effettivamente c'è una correlazione tra l'opera di De André e quella di Bob Dylan, anziché sostenere che De André sia il Dylan italiano bisognerebbe dire che è Bob Dylan ad essere il Fabrizio americano. La Pivano ha sicuramente ecceduto in campanilismo in quell'occasione, del resto Bob Dylan è emerso prima di Fabrizio, e Fabrizio ha attinto a piene mani dallo stile di Bob per i suoi album degli anni '70, perciò, se proprio si vuol far valere questo paragone, è De André ad essere il Dylan italiano. E comunque non sono totalmente d'accordo, secondo me il nostro Bob Dylan è Guccini, De André è più il nostro Cohen, come, secondo me, Bertoli è il nostro Pete Seeger. 

C'è però, secondo me, un De André straniero, un artista che è "arrivato" dopo Faber e che, con il passare degli anni, ha palesato totalmente la sua vena cantautorale, prima con il suo gruppo e poi proseguendo da solo la sua strada. Ci ho messo molto tempo ad accorgermene, un po' meno ad accertarmene, ma il paragone, sia nei contenuti sia nello stile con il quale cerca di esporli (ovviamente al netto della differenza del genere musicale proposto), regge perfettamente, anche prendendo in considerazione l'estrazione sociale dei due soggetti in questione.
  

Sto, tanto per cambiare, parlando di Roger Waters. Tra la miriade di artisti che dall'estero sono giunti fino a noi attraverso le radio, i vinili ed i tour (per poi passare a Youtube, i cd ed i film al cinema, senza però far decadere i primi tre elementi) l'ex leader dei Pink Floyd è sicuramente quello che più può rappresentare una sorta di De André d'Oltremanica. Entrambi figli della borghesia degli anni '40, De André e Waters hanno in gioventù compiuto cammini simili, ed anche i loro primi album con i rispettivi stili (ovviamente parlando di Waters faccio riferimento alla prima produzione dei Pink Floyd) sono sia innovativi sia acerbi, con uno stile di scrittura abbastanza semplice, nel caso di Fabrizio probabilmente per riuscire a raggiungere nell'immediato gli ascoltatori e nel caso di Waters per conciliare il rock psichedelico ai testi, senza rischiare di perdere il significato ma rispettando una metrica un po' incasinata. Inoltre Waters, facendo parte di una band, doveva anche andare incontro alle esigenze degli altri componenti (e, tra l'altro, nei primissimi album dei Pink Floyd la penna principale era quella di Barrett e non la sua). Con il passare degli anni, però, gli stili dei due artisti sono cambiati e, spesso, assomigliati parecchio: l'utilizzo del concept album, la ricchezza di metafore e il linguaggio spesso criptico ma assolutamente efficace sono tutti elementi che li accomunano, e forse, proprio nei loro concept album più apprezzati e di successo (rispettivamente Storia di un impiegato e The Wall) la loro vicinanza diventa clamorosamente palese. Perché le strutture dei due album sono decisamente simili, i percorsi anche, ed anche a livello musicale, non tanto nei suoni ma nelle atmosfere che puntano a creare, ci sono grandi analogie. Penso all'ultima canzone di Storia di un impiegato, Nella mia ora di libertà, ed a Comfortably numb e le tracce seguenti: due misti di rassegnazione ma anche di speranza, di sconfitta ma anche di ricerca di riscossa, ed una chiusura che però sa anche di apertura, di un urlo silenzioso comune che fa sapere al mondo che "non finisce qui". Outside the wall è questo, come lo è l'ideale rivincita dei prigionieri nei confronti dei secondini durante l'ora di libertà. 

E' però secondo me ancora più vicino a Storia di un impiegato l'ultimo disco di Waters con i Pink Floyd: The Final Cut. Un album meraviglioso ma inviso ai fans dei Pink Floyd, che lo vedono come il simbolo della fine dell'amore tra Waters, Gilmour, Mason e Wright (che già era andato via prima delle registrazioni), ma che è forse il più alto punto della storia floydiana per quanto riguarda i testi. Inoltre in quest'album Waters fa emergere totalmente e spudoratamente il suo punto di vista politico, la sua voglia di non stare più al gioco, il suo desiderio di uscire dal muro ed urlare al mondo come la pensa. Ed oltre tutto lo urla nella maniera che meglio conosce: scrivendo dei testi estremamente efficaci, cantando in modo sublime (il miglior Waters al microfono di tutta la sua carriera) e collegandosi allo stile musicale di quel The Wall uscito cinque anni prima che aveva stravolto totalmente, facendolo ampiamente evolvere, il modo di comporre e suonare dei Pink Floyd. Brani come The post war dream, Your possible pasts, The Fletcher memorial home e The final cut hanno parecchi punti di contatto con La bomba in testa, Al ballo mascherato e Verranno a chiederti del nostro amore, tanto che ci si potrebbe quasi domandare se Waters conoscesse Storia di un impiegato. E soprattutto le similitudini tra The Fletcher memorial home e Al ballo mascherato e The final cut e Verranno a chiederti del nostro amore sono lampanti e disarmanti. Perché nel primo caso, se Waters si immagina di concentrare in una singola casa tutti i capitalisti ed i potenti della terra, far loro vivere una sorta di Grande fratello (nell'orwelliana accezione) che li mostri ancora in possesso del potere e poi attuare una soluzione finale, De André concentra in una festa tutte le figure che per due millenni hanno contraddistinto e rafforzato il potere per poi farle saltare in aria; nel secondo caso, invece, ci si trova di fronte a due storie d'amore finite proprio a causa della militanza contro il potere costituito, e ci si rivolge all'oggetto dell'amore perduto con frasi estremamente simili, in alcuni casi dubbiose (in Verranno a chiederti del nostro amore il protagonista si chiede come lei lo dipingerà davanti ai microfoni, mentre in The final cut l'ipotetico io chiede alla sua lei se venderà la loro storia ai giornali), e la presa di coscienza in un certo senso che il sentimento d'amore non cesserà di esistere (sebbene in De André questo avvenga in Nella mia ora di libertà).

Waters ha poi, dopo The Final Cut, continuato, nella sua carriera da solista, a percorrere la strada dei concept album e della critica sociale; De André ha fatto la stessa cosa a più riprese, talvolta con i concept album (L'Indiano, Rimini), talvolta con dischi che presentano tracklist con un filo conduttore meno palese (Vol.8, Le Nuvole ed Anime salve). E Waters, oltre tutto, ha continuato a portare in giro il suo manifesto più grande, quel The Wall che ha riproposto a Berlino in occasione della caduta del Muro, che ha portato più volte in giro negli stadi e nei palazzetti di tutto il mondo e che da ieri ora è al cinema con il film documentario che tratta sia la storia dell'ultimo tour di The Wall sia il pensiero politico-filosofico di Waters. De André ha invece probabilmente lasciato, nel peggiore dei modi, molto lavoro in sospeso, ma fino all'ultimo ha continuato a portare il suo messaggio in giro per l'Italia, consegnandoci poi come testamento tutta la sua produzione, estremamente attuale, bella ed utile. 

Per concludere, è necessaria anche una chiosa legata ad un ultimo elemento che li accomuna e che, però, non è oggettivo ma soggettivo. De André e Waters sono gli unici due artisti in grado di commuovermi, smuovermi ed emozionarmi con un'intensità disarmante, in grado di provocarmi lucciconi negli occhi sia per l'emozione legata a certi pezzi sia per lo stupore nell'ascoltare e riascoltare certe frasi che son diamanti di valore immenso ma anche, nel mondo di De André, un letame con il quale coltivare nuove idee, nuovi desideri di lotta, riscossa e ribellione. 

Sicuramente non vivrò mai un concerto così intenso e ricco di emozioni come quello di Roger Waters del 28 luglio 2013 a Roma, ma sono altrettanto sicuro che soltanto un altro artista avrebbe potuto eguagliarlo. Fabrizio De André.




giovedì 24 settembre 2015

Bruce Springsteen: Il Rock.




In un mondo sempre più ricco di apparenza e, di conseguenza, sempre più povero di sostanza, le mosche bianche, che si distinguono e riescono comunque ad emergere sono ormai poche. Questo vale in tutti gli ambiti: da quello lavorativo a quello politico, da quello amoroso a quello amicale, passando per lo sport, l'arte e la cultura. Ci vuole molto poco a creare dei prodotti ad hoc da propinare alla gente, come ci vuole poco a crearsi una maschera per apparire in modo estremamente diverso (e solitamente migliore) di fronte agli altri. 

Anche in un mondo genuino come quello della musica rock non mancano i prodotti studiati a tavolino, spinti dalle case discografiche e propinati alle nuove generazioni, le quali, nei testi, non riescono più a ritrovare i messaggi che una volta contraddistinguevano quello che era il rock: oltre alla musica in sé, anche i testi puntavano a rompere con il passato, con la musica della classe borghese. Si cercava di rispolverare le radici, si cercava di trasmettere dei messaggi nuovi, di protesta, di autodeterminazione, e soprattutto di speranza. Ma il problema non è relativo soltanto alle nuove rockstar, ma ha colpito anche quelle vecchie, alcune di queste storiche, che traviate dal denaro si sono perse un po' per strada, alcune anche rimettendoci la vita. Penso agli Hendrix, ai Morrison, ma anche ad Osbourne o ai Red Hot Chili Peppers: qualcuno è morto per droga, qualcun altro perché non ha saputo reggere alla pressione, qualcun altro è arrivato al punto di bruciarsi totalmente il cervello ed a salvarsi per un pelo. 

C'è invece chi da quarant'anni, facendo un percorso dal basso come gli artisti sopra citati, continua ad incarnare quello spirito rock meglio di chiunque altro. Da quarant'anni scrive d'amore, di morte, della vita di tutti i giorni, della sua patria, delle sue radici, dei problemi sociali, delle guerre e della pace. Da quarant'anni sale sui palchi di tutto il mondo per portare a migliaia e migliaia di persone il suo messaggio, armato di una voce graffiante e di una chitarra che spara note su note che arrivano dritte ai cuori. Da quarant'anni, salendo su quei palchi, si diverte, si emoziona suonando accanto ai suoi amici o a quelli che fino a qualche anno fa sembravano miti irraggiungibili. Da quarant'anni è coerente al suo essere nato operaio, figlio di uno Stato ricco di contraddizioni con le quali bisogna convivere, consci però che vanno eliminate, ed in un senso positivo anziché negativo. Da quarant'anni mostra a generazioni e generazioni di aspiranti rockstar qual è la via da seguire per essere sempre fedeli alle motivazioni con le quali per la prima volta ci si è trovati in un garage a suonare con gli amici o in camera, da soli, a scrivere canzoni accompagnandosi con una chitarra di seconda mano. 

E fortunatamente alcuni artisti, più giovani di lui, hanno seguito questa strada, eleggendolo a loro guru. Mi vengono in mente i Pearl Jam, giusto per fare un esempio, o i nostri Gang, ma sono sicuro che esempi simili ce ne siano tanti altri ancora. Restano forse la minoranza, ma se oggi si può ancora dire che il rock n' roll non è morto è grazie a lui ed a pochi altri. 

Quest'uomo è Bruce Springsteen, signore e signori. Quest'uomo è il Boss. Quest'uomo è il Rock. Perché del rock incarna ogni singolo elemento, del rock è uno degli esponenti più efficaci e continui, del rock è il principe indiscusso. Ed anche se ha sessantasei anni continua a far ballare migliaia e migliaia di persone per tre ore ai suoi concerti, continua a regalarci nuove perle e continua a stupirci, facendoci ancora chiedere come sia possibile che, dopo decenni di carriera, sappia ancora inventare, creare, e soprattutto donare. Certo, si è arricchito. Certo, ha fama e successo. Ma il rock, oltre ad essere uno strumento di protesta e di rottura, è anche un mezzo per l'emancipazione, l'autodeterminazione, il poter vivere grazie alla propria passione. E sono sicuro che chi lo conosce da quaranta/cinquant'anni può confermare che è rimasto lo stesso: un ragazzo innamorato della vita, innamorato della sua patria, innamorato della musica, e desideroso di vivere la prima, rendere migliore la seconda e sposare, giorno dopo giorno, la terza. 

Grazie Bruce, per tutto ciò che hai fatto finora, ma soprattutto per ciò che sei e per ciò che rappresenti. E per celebrarti non potrei scegliere altra canzone se non la tua più famosa... ma in una versione un po' particolare, quella che personalmente amo di più. Buon sessantaseiesimo compleanno, giovanotto!! 



martedì 14 luglio 2015

"Storia di un impiegato" di Fabrizio De André




Il vero peccato non è fare del male, il vero peccato è non fare del bene. Credo che con questa semplice frase si possa riassumere il pensiero racchiuso da Fabrizio De André nel suo "Storia di un impiegato". Era il 1973, Fabrizio stava cominciando ad avere un peso rilevante nel panorama cantautorale italiano, e con il suo sesto album andava idealmente a chiudere un secondo capitolo della sua discografia, ovvero quello dei concept album. E se "La buona novella" rappresenta uno dei suoi dischi più controversi e di difficile lettura (ed io in un post di aprile ho provato a dargli una mia personalissima interpretazione), se in "Non al denaro non all'amore né al cielo" ha cercato di definire, utilizzando le poesie di Edgar Lee Masters tradotte divinamente da Fernanda Pivano, gli archetipi delle persone che vivono il nostro tempo, con "Storia di un impiegato" ha sostanzialmente descritto il processo mentale che un uomo della classe media percorre dal momento in cui abbraccia la lotta di classe al momento in cui, dopo aver perso tutto, anche la libertà fisica e l'amore, riesca comunque a sentirsi vincente. Perché è vero, è stato sconfitto su tutti i fronti: ma ci ha provato. Ha perso, ma ci ha provato.

Doveva essere una storia comune quella raccontata da Fabrizio quando lui prese carta, penna e chitarra per dar vita a questo capolavoro. Erano gli anni delle contestazioni studentesche, delle occupazioni, degli scioperi e dei picchetti davanti alle fabbriche. Spesso mio padre mi racconta di quegli anni: lui a diciotto anni ed un mese entrò in Fiat, ed a quei tempi la fabbrica era non solo il primo motore dell'economia italiana, ma anche la fucina di giovani menti che avrebbero potuto e dovuto, ma soprattutto voluto, portare avanti la lotta, la stessa lotta che trent'anni prima mise sotto scacco il fascismo con i famosi scioperi di Mirafiori che coinvolsero centinaia di migliaia di lavoratori. Non era una passeggiata il lavoro in fabbrica, non lo è mai stato, ma in quel periodo c'era ancora la speranza, c'era la consapevolezza che si poteva anche cambiare lavoro, perché di lavoro ce n'era fuori dalle mura degli stabilimenti. Chi restava lo faceva quasi per scelta, e spesso questa scelta era dettata dalla consapevolezza, dall'identità operaia: sì, quella classe operaia che è stata sistematicamente distrutta negli ultimi anni per rendere arido il terreno più fertile per i semi del socialismo, della lotta di classe, della guerra senza quartiere nei confronti del sistema capitalista. Lotta che dalle fabbriche, allora, si estese alle università, agli uffici, a quelle realtà che prima d'allora mai, più di tanto, si erano interessate ad un certo tipo di pensiero politico e sociale: gli anni a cavallo dei '60 e '70 del secolo scorso hanno in un certo senso rappresentato un nuovo illuminismo, illuminismo che coinvolse anche il protagonista della storia di Fabrizio. Perché l'impiegato del quale vengono narrati gli ultimi mesi di libertà fisica e del suo processo di liberazione mentale era un piccolo borghese, che nulla aveva da chiedere alla vita perché la vita già gli aveva dato tutto. Eppure, ad un certo punto, si rese conto che gente meno fortunata di 
lui, sebbene calpestata, rinchiusa, picchiata, vessata stava vivendo, stava respirando, e respirando dava vita ad un vento nuovo, un vento forte, un vento fresco; lui invece in quella bambagia stava sopravvivendo, i giorni erano tutti uguali. Se ne rese conto, e decise di unirsi alla lotta. Decise di vivere. Decise di decidere. Ma per fare ciò doveva sostanzialmente distruggere ciò che fino a quel momento l'aveva oppresso: non era la mancanza di denaro ad averlo distrutto, ma la monotonia della sua vita, i miti con i quali era stato cresciuto, quelle figure che danzano mascherate nel suo sogno. Andavano distrutte, andavano fatte esplodere. Ed andavano ripudiate anche le sue origini: la madre, il padre. E soprattutto andava sabotato alle radici il sistema: quello giudiziario, quello economico, quello politico. 

E pensare che questo processo mentale è stato "inizializzato" da un canto di protesta che ripeteva ad ogni strofa il coinvolgimento dell'uomo medio nell'oppressione delle lotte, delle rimostranze, dei soprusi ai danni delle classi più colpite dal sistema vigente. La Canzone del maggio fu l'incipit, fu la sveglia per questo impiegato trentenne, che si è trovato a ragionare più e più volte su cosa fosse giusto fare: i suoi dubbi, i suoi timori, la sua voglia di riscatto, il suo desiderio di dare un contributo ne tormentavano i giorni e le notti, fino a decidere di abbracciare la causa, e di armarla. E così cominciò a sognare, ad immaginarsi in diversi contesti, ad affrontare i suoi nuovi nemici, figure che fino a poco tempo prima lo affascinavano e ne edulcoravano l'esistenza. Ma lo stesso destino toccava anche a chi l'aveva, secondo il suo giudizio, cresciuto nella tranquillità abituandolo ad ogni agio, ma di fatto rendendolo ignorante ed indifferente alle giuste cause. Arrivò poi il momento della resa dei conti, il momento di agire, il momento di far saltare il simbolo del potere. Ma l'attentato non ha successo, portandolo quindi a perdere la sua libertà fisica, la sua vita, il suo amore. Ed è l'amore la cosa alla quale non avrebbe mai voluto rinunciare, ed è la sua amata la persona alla quale più spesso si ritrovò a dedicare i pensieri, immaginandola sommersa di domande, ripercorrendo la vita passata insieme a lei, ragionando su ciò che lei avrebbe potuto fare dopo la fine forzata della loro storia d'amore. Ed in quel "Continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?" c'è un significato più profondo di quello puramente legato all'amore: c'è anche un significato legato ad ogni potere decisionale di ogni individuo, spesso delegato a qualcun altro, qualcuno più forte di noi, qualcuno che apparentemente è più autorevole (ed in una realtà in cui la donna era ancora estremamente subordinata all'uomo il potere decisionale che l'impiegato sperava potesse finalmente essere esclusivamente nelle mani di sua moglie rappresenta l'emancipazione dei più deboli dai dettami di chi detiene il potere) e che, in seguito alle prese di coscienza del protagonista di questa storia, non doveva essere d'altra persona se non di lei.

Ma la storia dell'impiegato non è finita qui. Anzi, la storia di questo piccolo borghese diventato rivoluzionario non ha una fine. Perché sebbene fosse finito in carcere, sebbene fosse stato privato di ogni libertà d'azione, il nostro eroe sfortunato non perse ciò che finalmente aveva conquistato: la libertà di pensiero, e di conseguenza la vita. Finora non ho accennato minimamente alla musica che accompagna le parole di Fabrizio De André, ma in questo caso è doveroso: il nostro eroe è stato imprigionato, ha sostanzialmente perso, teoricamente ci si dovrebbe aspettare una musica cupa, triste, carica di dolore. E invece no, l'atmosfera creata è ariosa, serena, forse un po' rassegnata, ma che da un senso di libertà. La stessa libertà che poteva respirare durante l'ora d'aria, ora d'aria che decise però di disertare perché non voleva condividere quel cortile con un secondino, ovvero con il simbolo dell'oppressione, del sistema, del potere. Fedele alla linea fino in fondo, e così si limitava a ragionare su tutto ciò che gli era capitato, a come con orgoglio rivendicava ogni sua azione, ogni sua presa di posizione, di coscienza, difendendo così, di fatto, la sua libertà mentale, che pian piano si stava diffondendo tra i suoi compagni di reclusione. Tanto da rinchiudere il secondino durante l'ora di libertà, rivoluzionando così le gerarchie, sebbene per poco tempo, sebbene per uno spazio limitato. E rivendicando anche quell'azione, cantando ancora una volta, un'altra volta ancora, e chissà quante altre volte: "Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti".

Questo è "Storia di un impiegato", un album che per decenni è stato censurato, nascosto ed anche raramente proposto nei live. Un disco anarchico, un disco che mette al centro la libertà decisionale di ogni singolo individuo, una libertà decisionale che, se incanalata nel verso giusto, non può che contribuire al bene di tutti. Perché lottare è una scelta, lottare è fare il bene, e facendo il bene si fa la cosa giusta. Altrimenti si può rimanere a guardare, si può assistere, si può vivere da spettatori non paganti, limitandosi a sopravvivere, a discolparsi, a pensare che tutto sommato va bene così... 

Sono ancora estremamente attuali queste canzoni di Fabrizio De André, e benché questo lo renda ancora vivo e presente, penso che non sia poi così felice di sapere che c'è ancora bisogno di ascoltare questo disco... significa che in quarant'anni non è cambiato niente, anzi... e significa che probabilmente queste canzoni non sono state poi così utili... fino ad ora...





Stefano Tortelli

mercoledì 3 giugno 2015

I Blues Brothers ed i cerchi che si chiudono



Non avevo ancora sei anni quando per la prima vidi il film "The Blues Brothers". In verità con l'universo correlato a questo capolavoro della cinematografia ebbi alcuni contatti già in precedenza, quando ancora abitavo a Torino: probabilmente ne vidi solo alcune scene, ma qualche flash che ha come ambientazione la casa dove ho vissuto per i miei primi quattro anni di vita c'è, anche perché negli anni seguenti avevo spesso il desiderio di vederlo, sebbene logicamente capissi ben poco la trama ed i contenuti. Ma mi piaceva la musica, mi facevano ridere Jack ed Elwood, e poi era sempre un piacere immenso vederlo in casa, sul divano, con i miei genitori. 

Ricordo che durante la famosa scena introduttiva del film, quando Jack sta per uscire di prigione e l'agente incaricato di dargli i suoi effetti personali fa l'elenco di tutti gli oggetti dei quali Jack era in possesso quando fu arrestato, mi soffermai sulla parola "profilattico": la mia genuina curiosità, tipica di un bambino di sei anni, mi portò a chiedere ai miei cosa fosse... "E' un cerotto, tesoro!!": fu la risposta di mia madre, che nonostante fosse stata presa in contropiede seppe rifugiarsi abilmente in corner, lasciando che fossero gli anni e l'esperienza ad insegnarmi il vero significato di quella parola. Ciò che poi ha sempre contraddistinto le visioni familiari della pellicola di John Landis furono le risate, i balletti (spesso da seduti ma talvolta da in piedi) improvvisati, le citazioni del film che venivano riproposte ad ogni ora per almeno tutta la settimana successiva. The Blues Brothers ha rappresentato quindi un forte legante tra i miei genitori e me, e crescendo, comprendendo ancora di più certe battute, contestualizzandole, ed apprezzando ulteriormente la colonna sonora, il discorso Blues Brothers è spesso stato trattato con mamma e papà, come è successo per altri film che con loro ho visto ed imparato ad apprezzare. 

I Blues Brothers però, forse più di tutti gli altri, oltre a rappresentare un legante è diventato anche un legame tra i miei ed io, per una molteplicità di fattori: innanzi tutto i miei andarono a vedere il film al cinema quando uscì, ed io, venti anni dopo, andai a vederlo nel 2012 al Reposi di Torino con quella che allora era la mia ragazza, ripercorrendo più o meno gli stessi passi che fecero loro due decenni prima; i Blues Brothers è uno di quei film dei quali ho spesso parlato ai miei amici, ad alcuni di loro l'ho fatto vedere e con alcuni di loro mi sono ritrovato a ridere a crepapelle non solo guardandolo ma riproponendo le varie scene per strada, al pub, nei ristoranti. Quando con i miei amici andai a Roma a vedere Roger Waters ovviamente c'erano tante suore per le strade della capitale, e si faticava a trattenere un "Ed allora sono cavoli tuoi, sorella!" ogni volta che ne avvistavamo una! Oppure per fare gli scemi ordinare "Quattro polli fritti ed una coca!", ricevendo sguardi alquanto perplessi dei ristoratori di turno... ma era più forte di noi, e soprattutto con il Biondo una celebrazione settimanale di qualche scena o canzone dei Blues Brothers non può assolutamente mancare. E se poi quando tutto ciò avviene è presente anche mio padre, allora apriti cielo, perché se è vero che il Biondo ed io conosciamo a memoria il film, papà è come se lo avesse scritto, come se fosse stato lui a consigliare a Dan Aykroyd l'intera sceneggiatura.

Si aprì un cerchio diciannove anni fa, quella sera in salotto, mentre la mia famiglia ed io guardavamo i Blues Brothers... e diciannove anni dopo, ieri sera, ci siamo nuovamente ritrovati mamma, papà ed io per gustarci i Blues Brothers: stavolta però erano su un palco, della formazione originale erano rimasti Blue Lou Marini (il sassofonista) e Steve Cropper (il chitarrista col barbone), ma le canzoni erano le stesse, le emozioni erano le stesse, e Piazza San Carlo era diventato il nostro salotto di casa: decisamente affollato con quelle 35000 persone a farci compagnia, ma comunque il senso era lo stesso. 

Si è chiuso un cerchio ieri sera in Piazza San Carlo, ma il fatto che la penna abbia compiuto un intero giro non significa che la musica sia finita... le puntine su un vinile fanno centinaia di giri prima che la musica cessi di riecheggiare dalle casse.

E poi, come se non bastasse, c'è sempre il lato B. 




Stefano Tortelli

martedì 5 maggio 2015

Red Hot Chili Peppers: il primo amore non si scorda mai





I miei primi quattordici anni di vita si potrebbero facilmente riassumere in tre fasi musicali, fortemente influenzate dai consigli musicali di mia cugina e da ciò che ai tempi passavano TMC2, All Music ed MTV. Già, quand'ero piccolo MTV ancora trasmetteva video musicali, aveva classifiche su classifiche, contenitori tematici, trasmissioni inerenti alla musica. Mi ricordo che quando avevo 12-13 anni c'era una trasmissione che si chiamava Select, era in programmazione alle cinque di pomeriggio, durante la quale si poteva scegliere il video da far trasmettere tra i cinquanta precedentemente selezionati, e mai me ne perdevo una puntata, se non quando dovevo andare a karate. E sempre MTV ed All Music aprivano le mie giornate: appena sveglio, mentre mi preparavo per andare a scuola, accendevo la tv ed ascoltavo i pezzi che passavano. I primi anni della mia vita erano stati caratterizzati dalla forte presenza degli 883, tanto che ancora ora mi ricordo la maggior parte dei loro testi, le scalette degli album, e se Max Pezzali ripasserà a Torino probabilmente andrò nuovamente ad ascoltarlo. Perché hanno segnato un'epoca, hanno accompagnato molti momenti della mia infanzia, sono loro le prime parole che ho cantato a tre anni, e se ora canto è perché gli 883, per primi, mi hanno fatto innamorare delle canzoni e del cantare le canzoni. 

Dopo è arrivato Eminem: quando uscì The Eminem Show conoscevo il rapper americano soltanto per qualche video dei suoi lavori precedenti (canzoni come The Real Slim Shady, My name is o Stan), ma al primo ascolto di Without me fu subito amore. Non capivo nulla del testo, ma quel semplicissimo passaggio ripetitivo che fa da sostegno all'intera canzone era ipnotico, faceva gesticolare e muovere la testa a ritmo: era come se io fossi un cobra ed Eminem l'incantatore di serpenti in grado di farmi fare quello che voleva con la sua musica. Lo ascoltai tantissimo, tant'è che il disco di The Eminem Show diventò pressoché inutilizzabile a causa dei migliaia di passaggi che fece nello stereo e nel lettore cd portatile. Quando uscì la videocassetta del film 8mile i miei genitori me la regalarono e la vidi almeno una decina di volta, e quando successivamente uscì il dvd, anni dopo, con un settimanale, non potei fare a meno di comprarlo. Cominciai poi a comprare i primi giornali dedicati alla musica: era il periodo d'oro della rete televisiva All Music, tanto che iniziarono a stamparne una rivista, ed a fianco di Topolino e di alcuni libri per ragazzi diventò una mia lettura abituale, così come TuttoMusica.

TuttoMusica entrò per la prima volta in casa per caso, ed è doveroso citarlo in questo post perché il motivo per il quale entrò in casa rappresenta la svolta del mio interesse nel campo musicale. Nel 2002 era uscito By the way dei Red Hot Chili Peppers, ed entro la fine dell'anno erano stati pubblicati i primi due singoli con i relativi video: l'omonimo By the way e The zephyr song. Le ascoltavo, mi piacevano, ma ancora non mi avevano preso totalmente. Ma poi ecco la rivoluzione: un pomeriggio come tanti presentarono su MTV il nuovo singolo dei Red hot, Can't stop. Da lì fu amore, un amore totale, un amore che non avevo provato né per gli 883 né per Eminem. Perché il motivo per cui guardavo MTV ed All Music da quel momento era cambiato: non le guardavo per ascoltare musica e vedere video qualsiasi, le guardavo con la speranza di vedere QUEL video, di sentire QUELLA canzone. Una mattina ero in auto con i miei ,stavamo andando a Torino, mi sembra per una visita in ospedale, ed alla radio passò Can't stop: ero così felice di sentirla anche in via etere che mi ero quasi commosso. E qualche giorno dopo mio padre arrivò da lavoro con in mano un numero di Tuttomusica, quello dell'Aprile 2003, dedicato quasi interamente alle canzoni riguardanti la pace, perché era appena cominciata la seconda guerra in Iraq: a guardarne la copertina, che è attaccata ad un'anta dell'armadio, mi viene da sorridere, perché oltre ad una foto con diversi artisti italiani che si erano prodigati con messaggi e canzoni contro la guerra (e molti di questi artisti sarebbero poi diventati cardini della mia cultura musicale, da Morgan a Pelù, passando per i Modena City Ramblers e la Bandabardò), era anche riportata una frase di una canzone che assolutamente non conoscevo ma che poi mi avrebbe fatto commuovere parecchie volte pochi anni dopo:  Goodbye blue sky dei Pink Floyd. Ma non è tutto qui, anche perché altrimenti non avrebbe alcun senso citare tutto ciò: in allegato alla rivista c'era un cd che, dopo aver approfondito la conoscenza dei Red Hot, sarebbe diventato il mio preferito della band californiana. Era Mother's milk!! E così ebbi finalmente il piacere di ascoltare i Red Hot in qualsiasi momento del giorno, sebbene quell'album non fosse semplice da capire, da apprezzare totalmente, perché lo reputavo ancora troppo duro, violento, per le mie giovani orecchie. Intanto, anche mia cugina era venuta a conoscenza del mio amore incondizionato verso Kiedis e soci, perciò mi scaricò alcune loro canzoni, quelle fondamentali, e ne scaricò anche alcuni video, regalandomi poi per il compleanno il cd. E così avevo tutto ciò che mi serviva per conoscerli a pieno, per approfondirli. E con il tipico "inglese da canzone" cominciai a provare a cantare alcuni loro pezzi, ed in questo caso a venirmi poi in soccorso fu mia madre, che nelle pause a lavoro stampò alcuni testi che ancora custodisco in uno dei miei raccoglitori. 

Grazie ai Red hot aprii le porte del mondo del rock, ed in rapida successione cominciai ad ascoltare i Guns n' Roses (il cui Greatest hits fu il primo cd che acquistai con i miei soldi), i Nirvana, gli AC/DC, i Led Zeppelin, i Metallica, i Queen, i Pink Floyd. Grazie ai Red hot imparai,dopo il primo ascolto di una canzone , a tentare subito di ripercorrerne la linea vocale, a volte con risultati sorprendenti, altre fallendo miseramente, a seconda delle mie ancora grezze capacità e della mia voce ancora non totalmente formata (che però mi permetteva di cantare Bohemian rapsody dei Queen, cosa che ormai non posso più fare). E per questo motivo sento di dovere tanto a questo gruppo, anche il piacere dell'attesa dell'uscita del primo album che sarebbe uscito dopo averli conosciuti: era il 2006, da quattro anni non pubblicavano nulla di inedito (tranne il Greatest hits e il Live in Hyde Park) e ricordo che all'annuncio dell'uscita del nuovo album feci i salti di gioia, segnai sul calendario la data di uscita ed il giorno della pubblicazione mi fermai dopo scuola a Saluzzo, appostandomi davanti al negozio di musica in attesa che riaprisse. Mi portai dietro il lettore cd, in modo da ascoltarlo subito, perché avevo già atteso tanto e non potevo assolutamente far passare ancora mezz'ora, non era accettabile, assolutamente. E così feci il viaggio di ritorno a casa ascoltando il primo dei due cd, entrai in casa e me li gustai dalla prima all'ultima nota (quasi dimenticandomi di nascondere anche il regalo per mia madre per la festa della mamma, ovvero il disco di Bruce Springsteen): ero diventato un loro fan a tutti gli effetti. Ma per suggellare definitivamente questo amore dovetti aspettare ancora cinque anni: nel 2011 venne annunciata la pubblicazione del nuovo album, il primo della seconda era senza Frusciante, ed anche le date del tour. Italia: Roma e Torino. Guardai i prezzi, chiesi agli amici se qualcuno era interessato, ma costava parecchio, i biglietti andarono a ruba e per cui pensai che mi sarei dovuto limitare ad andare al Palaolimpico, sì, ma restando fuori. Poi però ci fu la svolta: una ragazza su Facebook, che sapeva che abito vicino a Torino e che amo i Red Hot, mi scrisse dicendomi che non poteva venire a sentirli e che aveva tre biglietti. In preda alla felicità cercai comunque di mantenere la calma: ero dai miei zii in quel periodo, e dovetti cercare di contenermi per non far sentire le mie urla di felicità per tutti i nove piani del condominio. Presi il telefono, chiamai Ivan ed il Biondo, tenendo un attimo in attesa quell'anima pia che risponde al nome di Arianna: "Ho la possibilità di avere tre biglietti per i Red hot al prezzo d'acquisto, che fate, venite?" "Boia faus, e ce lo chiedi? Certo che sì". Bene, dopo tre minuti scrissi ad Arianna, mi feci dare i suoi dati per mandarle i soldi ed io le mandai il mio indirizzo. Avevo i biglietti! Al concerto andai poi con i miei due fedeli compagni e colei che allora era la mia ragazza, anche lei sfegatata fan dei Peperoncini, e quel concerto fu memorabile. Tra i tanti bei ricordi che mi legano a quel concerto ce n'è uno che mi emoziona sempre in modo particolare: era già passato metà concerto quando, all'improvviso, inizia un arpeggio inconfondibile. Era Under the bridge, il Biondo da circa un quarto d'ora mi aveva raggiunto, e quando si accorse che stava per cominciare quella canzone mi guardò e mi disse: "E' la tua , Ste!!! E' la tua!!!!" Ci abbracciammo e la cantammo dall'inizio alla fine, tutta, in memoria dei tanti viaggi in pullman contraddistinti dal mio cantarla. 

Questo è il potere della musica, un potere che ho avuto modo di sperimentare con tanti altri artisti, di tanti generi diversi, dal cantautorato (ed ovviamente chi poteva esserci con me a sentire Guccini se non il Biondo?) al metal, dal folk al black, ma che mi è stato svelato, in tutte le sue forme, da loro: Anthony Kiedis, Flea, John Frusciante, Chad Smith. A volte mi sento quasi in colpa a non sentirli più così spesso come facevo in precedenza, ma poi, a conti fatti, almeno duecento passaggi all'anno per le mie orecchie li fanno sempre.

E dato che tutto è partito da questa canzone e da questo video, non potrei chiudere il post con una canzone diversa. E non è che non posso, più che altro non voglio!




Stefano Tortelli

lunedì 4 maggio 2015

Undercover: Reinterpretazioni d'autore

Metallica - Garage, inc. (1998)






Chiunque abbia imparato a suonare o abbia avuto il talento di cantare ha mosso i suoi primi passi con il microfono o lo strumento in mano eseguendo brani non originali, già scritti, già, suonati, già cantati. Come in qualsiasi arte bisogna cominciare partendo da qualcosa che già esiste, per poi eventualmente discostarsene, dando vita a qualcosa di proprio, dandogli poi il proprio marchio di fabbrica, inconfondibile, subito riconoscibile. Una propria firma, che sia nel modo di suonare, di cantare, di scrivere, di dipingere. Ciò vale per tutti, da chi stenta a sbarcare il lunario, oppresso dalle leggi di mercato e dal poco rispetto che c'è nei confronti delle band emergenti ed in generale nei confronti dei giovani musicisti, a chi ha fatto fior di milioni, riempiendo le arene e gli stadi di mezzo mondo, vendendo milioni di dischi, facendo emozionare milioni di fan. 

Eppure verso le cover c'è sempre un astio enorme, come se rappresentassero una mancanza di rispetto, un voler essere come l'artista che in origine ha scritto il brano, come se fossero solo delle esecuzioni, dei compitini, che nulla trasmettono se non la capacità o meno di poter fare un dato pezzo. A parte che il riuscire, ad esempio, a rifare una canzone dei Queen, tanto per citare un gruppo, è cosa da pochi, perché è necessario un cantante che abbia già solo il coraggio di cimentarsi in un compito così arduo, ma poi credo che sia molto superficiale ed estremamente irrispettoso verso chi fa le cover sostenere che sia semplicemente un riproporre qualcosa che è stato fatto da altri. Innanzi tutto bisogna, secondo me, considerare le cover come degli omaggi che vengono tributati da chi ripropone il brano a chi l'ha inciso per primo: un atto d'amore, di riconoscimento, di affetto, di stima. Certo, forse questo non vale per chi ha la classica scaletta rock anni '70-'80 con i soliti venti pezzi triti e ritriti ma giusti per far divertire per due ore la gente e non sbattersi più di tanto ad impararli e suonarli, ma, almeno per come vivo io il fare cover e come lo vedo in chi ci mette l'anima, il discorso precedente è probabilmente il caposaldo di chiunque scelga di eseguire un certo pezzo. Inoltre non bisogna sottovalutare la capacità di metterci qualcosa di proprio, di arricchirlo, di modificarlo, rendendolo, sebbene in piccola parte, qualcosa di personale: a volte bastano le emozioni che accompagnano il momento in cui lo si suona o lo si canta per renderlo diverso, per sentirlo proprio, eseguirlo e farlo ascoltare facendolo quasi considerare a chi lo riceve qualcosa che poteva benissimo essere autentico, inedito. 

Queste considerazioni spesso mi accompagnano quando vado a sentire un gruppo cover, oppure ascolto un album di qualche artista che ha deciso di tributare i propri idoli, o semplicemente una singola reinterpretazione, o traduzione, che null'altro fine ha se non essere proposta, a volte quasi per compiacere se stessi che l'ascoltatore. Anche perché ormai troppo spesso si reputa come un qualsivoglia prodotto ogni canzone che viene registrata, come se l'unico suo scopo fosse quella di far avere soldi a chi l'ha incisa, martoriando sostanzialmente ciò che è la vera funzione dell'arte, ovvero l'esprimersi creando, e creare lo si può fare anche rimodellando a proprio piacimento qualcosa che già esiste. Quando ancora, ad esempio, erano in voga i 45 giri, band come i Metallica o gli Iron Maiden registravano delle cover da inserire come B-Side, talvolta registrate live o comunque in modo molto approssimativo: facevano da contorno, non avevano alcuna pretesa, se non quella di essere attraverso la cover, essere in modo diverso rispetto all'A-Side, al singolo, alla propria creazione totalmente inedita. E vorrei soffermarmi sui Metallica, perché in questa particolare forma d'arte sono senza dubbio dei maestri: in un periodo non propriamente felice della loro lunga carriera hanno deciso di riprendere tutto il vecchio materiale cover pubblicato come b-side negli anni passati, registrarlo nuovamente, aggiustandolo e migliorandolo, ed inserendo alcune nuove cover appositamente scelte per la pubblicazione di un doppio album, il Garage, inc. Ebbene, delle ventisette canzoni che qui sono contenute non ce n'è una che non sia migliore dell'originale, non ce n'è una che si possa considerare come un riempitivo, non ce n'è una in cui non si percepisce la loro inconfondibile impronta, la passione che ci hanno messo a farla, il piacere nel tributare una volta i Motorhead, un'altra i Queen, un'altra ancora i Lynyrd Skynyrd. 

E queste sono un po' le cose che avevo voluto sottolineare quando scrissi riguardo il mio amico Ivan ed il suo progetto dedicato a Bruce Springsteen, sono le cose che dico di me quando mi ritrovo a cantare i miei idoli. E probabilmente sono le stesse cose che passano per la testa a chi reinterpreta in un tributo De André. E De André, in tutta la sua genialità, si è anche lui ritrovato a reinterpretare, previa traduzione, canzoni di altri: Cohen, Brassens, Dylan, il tutto grazie anche all'aiuto di quella meravigliosa donna che rispondeva al nome di Fernanda Pivano (ed alla quale prossimamente dedicherò un post del blog). La traduzione di un brano porta ovviamente ad una sua reinterpretazione, ad un aggiustamento della sua metrica, e la grandezza qui sta nel riuscire a rendere quasi intatto il messaggio originale, senza stravolgerlo, senza sgonfiarlo, ma nemmeno arricchendolo, sempre che non si voglia semplicemente adottare la musica (un po' come capitava a volte negli anni '60, quando i gruppi beat italiani portavano in Italia i successi anglo-americani cambiandone totalmente il testo). Ma in ogni caso ci va coraggio, che si sia degli artisti affermati o dei ragazzi a cui semplicemente piace emozionarsi ed emozionare cantando e suonando qualcosa che sentono come proprio anche se proprio non è. 

Quando ancora usavo Spotify avevo creato una playlist con centinaia di cover, e spesso passavo le ore a sentire l'originale e poi la reinterpretazione dell'artista di turno, con lo scopo non tanto di paragonarle dal punto di vista tecnico, ma cercando di carpire le emozioni di chi stava riproponendo il brano e analizzando anche le mie, di emozioni. E' difficile scegliere una canzone in particolare da considerare la portabandiera della mia tesi, ma visto che questa è forse una delle prime cover che io abbia mai sentito, eseguite tra l'altro da un altro grande gruppo che ha segnato parte della mia vita, opterò per questa. In questo caso, stiamo parlando di Sympathy for the devil dei Guns n' Roses che, in origine, era dei Rolling Stones: è sempre stato difficile capire quale fosse la più bella, e per cui mi son dovuto trovare nella "spiacevole" situazione di amarle tutte e due. Certo, il fatto che la versione dei Guns sia stata registrata per il film "Intervista col vampiro" la rende una chicca ed un collegamento ipertestuale meraviglioso, ma quella degli Stones è la mia canzone preferita del gruppo di Jagger, per cui....



Stefano Tortelli

domenica 19 aprile 2015

Acousteen: artista, fan, devoto al Boss fino al midollo... e grande amico





Nella tarda mattinata di venerdì 10 aprile, mentre mi stavo preparando per pranzare e poi andare a scuola ad insegnare, mi è arrivato un messaggio su Facebook che più o meno recava queste parole: "Ehilà, carissimo! Stavo pensando: ma se stasera provassimo a fare un duetto su Desolation Row/Via della povertà, così, alla buona? Tu canti De André, io Bob, tre strofe a testa, la si improvvisa, così, su due piedi." Un bel modo per cominciare la giornata, un bel modo per prepararmi ad una serata che mi incuriosiva parecchio. Ivan, un carissimo mio amico, l'autore di quel messaggio, avrebbe suonato da solo, con le sue chitarre e le sue armoniche, in piazza a Vigone, davanti ai suoi amici, ai suoi conoscenti, ai suoi familiari, le canzoni di uno dei suoi miti. Facendole, come si suol dire qui in Piemonte, "alla sua maniera", in acustico.

Il mito in questione risponde al nome di Bruce Springsteen, un artista che per molto tempo Ivan aveva sì apprezzato ma mai particolarmente approfondito: un po' come una persona che incroci tante volte in giro, o in birreria, con la quale capita anche di scambiare due parole ma senza andare oltre a discorsi che possono anche essere seri ma mai personali. Poi però è cambiato qualcosa: Ivan andò per la prima volta a sentire un concerto del Boss e ne rimase folgorato, rapito, colpito. Bruce l'aveva fatto innamorare, era finalmente entrato nel profondo, aveva scosso le sue emozioni, la sua mente, il suo cuore. Fu la sua via di Damasco, quel concerto, e da allora ha sempre più approfondito la conoscenza del rocker del New Jersey, andando a sentirlo più volte possibile live, studiandoselo a casa con in mano la chitarra e lo stereo a palla, parlandone per ore con le sue ragazze, i suoi amici, me. 

Una sera, mentre eravamo all'Orso, quello che è il rifugio di noi amanti di campagna della birra e della buona musica, non ricordo come cominciammo a parlare dell'interpretazione, delle cover, del provare a cantare un artista e "come un artista". Ricordo che entrambi sottolineavamo la difficoltà oggettiva nel riuscire a cantare come Dylan, come De André, come Guccini, come Springsteen: avevamo del resto lo stesso sogno, lui ed io, un sogno mosso dalla stessa passione, anche se rivolto a due artisti differenti. Lui avrebbe tanto voluto fare un one man show riproponendo Dylan, io avrei voluto dar vita ad una cover band acustica di De André e Guccini. Già però in lui aleggiava l'idea di cambiare meta e dirigersi verso Springsteen, ma per l'appunto mi sottolineava come fosse difficile, impossibile, riprenderlo, riproporlo tale e quale. Voce bastarda, quella di Springsteen, e del resto vale la stessa cosa anche per gli altri tre citati, vale la stessa cosa per un altro mito come Cohen, e perciò era quasi convinto che non avrebbe perseguito ancora per molto quel sogno. Ma dopo qualche birra ed un'ora di chiacchiere pensai al mio rapporto con De André e Guccini, pensai a come io abbia cominciato a cantarli bene quando ho preso coscienza del fatto che non avrei mai potuto ottenere il loro stesso risultato ma che, facendomi muovere dalle loro stesse motivazioni, sarei riuscito a renderli al meglio: non avrei più cantato i pezzi di De André e Guccini come De André e Guccini, avrei semplicemente cantato De André e Guccini. Mi ricordo che gli dissi: "Se vuoi cantare come Bruce parti già sconfitto, non perché non ne sei in grado ma perché, comunque vada, già solo perché avete due voci diverse, due accenti diversi, il risultato non potrà mai essere quello. Ma se lo canti, se vuoi cantare Bruce, se vuoi emozionare attraverso le sue canzoni, allora è sufficiente che tu percepisca le sue canzoni come se fossero tue. come se le avessi scritte tu, come se stessero raccontando la tua storia. Perché non c'è altro verso: io finché ad alcune canzoni non ho dato una situazione di riferimento, un volto, un'emozione che le rappresentasse non sono mai riuscito a cantarle davvero. Le imitavo, ma non cantavo" .

Dopo qualche settimana ci ritrovammo a condividere molte serate insieme, in giro a sentire concerti, a bere, a confidarci, a far notte fonda. E talvolta anche a suonare, a buttare giù qualche idea: perché così funziona tra amici, così capita tra amici che oltre essere amici condividono anche le stesse passioni, e le vivono nello stesso modo. E così, tra un concerto e l'altro, una birra e l'altra, un apprezzamento ad una ragazza e le risate per l'ennesima cazzata detta, è venuta a crearsi una fortissima amicizia: in nome sì della musica, ma soprattutto in nome dei bellissimi momenti passati insieme e della stima reciproca. 

Da quella serata di inizio ottobre son passati sei mesi, tante birre, miriadi di cazzate e centinaia di canzoni canticchiate, ascoltate e suonate insieme. Ed intanto, lui che oltre a saper cantare sa anche suonare divinamente, ha continuato il suo percorso riguardante il Boss. Un concerto a marzo a Torino, uno meno di dieci giorni fa a Vigone. Suona anche alcuni pezzi del suo primo amore, Bob Dylan, durante il suo show, quando per due ore smette di essere Ivan Audero e diventa Acousteen. Ed a Vigone, quel venerdì 10 aprile, alla sera, ci siamo ritrovati un'altra volta con lo sguardo rivolto verso la stessa direzione, che incontrava altri sguardi fissi su di noi, pronti a guardare due amici che, per qualche minuto, mettono in gioco le loro emozioni sullo stesso pezzo, in due lingue diverse, così come fecero al loro tempo Bob Dylan negli Stati Uniti e De André in Italia. Ma mai era successo che lo facessero insieme, sullo stesso palco. Noi un palco vero e proprio non ce l'avevamo, ma le passioni di Bob e Faber abbiamo provato a riproporle al meglio in un paesino della provincia torinese. 


Ed oltre alla felicità di aver finalmente cantato De André davanti ad altre persone, durante un concerto, per la prima volta, quel venerdì sera ero estremamente orgoglioso. Non di me, ma di questo mio amico che attraverso la sua immensa passione e devozione per l'arte di Springsteen ha saputo riproporlo meravigliosamente, emozionandosi ed emozionando. Senza scimmiottare, senza pretendere di essere come Springsteen. Semplicemente, omaggiandolo al massimo delle sue possibilità, mantenendo la propria identità, raccontando sì la storia delle canzoni ma anche quel che quelle canzoni rappresentano per lui: il pensiero per suo padre legato a My hometown, sua nonna che gli chiede di fare quel pezzo che le piace tanto, i cenni riguardanti donne del passato e gli amici di sempre. Insomma, si è raccontato per due ore attraverso le canzoni del Boss, che però, se noi non avessimo saputo che erano del Boss, avremmo tranquillamente potuto dire: "Wow, gran bei pezzi ha scritto Ivan, boia faus!!". 

Questo è Ivan Audero. Queste sono le sue passioni. Questo è il progetto Acousteen. Questo è il mio amico.

Ps: forse direttamente non ti ho ancora ringraziato per avermi permesso di esserci, e non solo venerdì ma da qualche anno a questa parte e, soprattutto, in questi ultimi mesi. Grazie, Ivan! Ed ora basta con i sentimentalismi, mettiamo su un pezzo che sennò ci scende la lacrimuccia e non si addice a due uomini rozzi come noi! E visto che l'ho citata, e visto che nella tua "hometown" ci siamo conosciuti, direi che questa canzone ci sta tutta.





Stefano Tortelli







lunedì 30 marzo 2015

"La buona novella" di Fabrizio De André

La prima copertina di La buona novella (1970)



Ieri era la Domenica delle Palme, giorno in cui comincia la settimana santa, i sette giorni più importanti del Nuovo Testamento, quelli in cui Gesù è finalmente giunto a Gerusalemme, pronto a predicare nella capitale di Israele. A Gerusalemme però troverà la morte, ucciso dai Romani per volere dei Farisei, tradito dal suo amico Giuda e rinnegato da Pietro, colui che da più tempo lo seguiva e che di lui prenderà, per primo, il testimone. Potrà sembrare paradossale, ma è proprio in questi pochi giorni che emerge secondo me la natura umana, terrena e temporale della figura di Gesù. Non i miracoli, non la discendenza diretta da Dio, non le sue parole apparentemente trascendentali sono il cardine delle sue ultime ore, ma elementi comuni nella vita di ognuno di noi. Il tradimento da parte di un amico, l'apprensione di chi ci ama per il nostro futuro, la disperazione di una madre e di una compagna di fronte alla morte del figlio e del partner, il disprezzo e l'odio di chi teme un individuo così speciale, così carismatico, così "potente". E la morte in sé, propria di ogni essere vivente, elemento imprescindibile di ogni realtà che può esser definita tale. Ciò che vive deve morire, poiché se non muore presumibilmente non ha mai vissuto. E' biologia, è scienza. 

Gesù come uomo, come uno di noi, come persona che nasce, vive, muore e lascia un ricordo immortale, tanto da risorgere ogni giorno nella mente di miliardi di persone. Ed è su questo che gioca Fabrizio De André, è la natura umana del Cristo che risalta ne "La buona novella", l'album che l'ha sostanzialmente consacrato nel panorama del cantautorato italiano. Parla di Gesù questo disco, ma parla di Gesù attraverso le bocche di chi gli ha dato vita, di chi l'ha cresciuto, di chi l'ha visto morire, di chi, con un solo sguardo, condividendo con lui il momento più tragico della propria esistenza, l'ha capito ed apprezzato, ammirato, tanto da rimanere lui stesso impresso, per sempre, nella mente del Cristo. Di fatto, Gesù non viene mai nominato in tutto l'album ma è presente in ogni singola canzone. Gesù ce lo immaginiamo come naturale conseguenza al matrimonio combinato tra Maria, ancora bambina, e Giuseppe, lo vediamo tra le mani di Giuseppe piene attorno ai fianchi di Maria prima che lei racconti il suo sogno, prima che lei, di fatto, confessi il suo tradimento, è nella dolcezza di Ave Maria, dove viene cantata la meraviglia della gravidanza, del parto, del passare dall'essere femmina all'essere madre. Un inno alle donne e, per inciso, la più bella canzone che mai sia stata scritta per l'altra metà del cielo. E c'è poi nel presagio di morte che viene scandito dal ritmo marziale che accompagna il dialogo tra Maria ed il falegname che sta ultimando le croci sulle quali moriranno Gesù, Tito e Dimaco, nella frenesia e nella tensione delle ultime ore, che nonostante glorifichino ciò che di grande quell'uomo aveva fatto ed i semi che aveva seminato per l'avvenire mettono in luce la naturale paura della morte, il suo rifiuto, la voglia di vivere ancora. Cosa c'è di più umano e naturale di tutto ciò? C'è il dolore di tre madri che devono sopravvivere ai rispettivi figli, che vedono il loro amore ed i loro sforzi agonizzare in croce. E c'è il porsi quesiti fino all'ultimo secondo di vita di un uomo, che dieci volte si chiede il senso di regole divine che, di fatto, non vengono rispettate in primis da chi queste leggi vuol fare rispettare. 

Non è Dio e non è la religione che trionfa, ma l'uomo, la sua capacità di autodeterminazione, la sua emotività, il suo errare ed il suo desiderare, il suo non voler sottostare non tanto a leggi divine ma leggi naturali. Ed a spiegare il corpus di questo disco sono la prima e l'ultima traccia, simili nella melodia ma totalmente opposte nel contenuto, nel testo, nel titolo. Da "Laudate dominum" a "Laudate hominem" il passo è breve, dal voler vedere lontano e trascendentale una figura come Gesù al sentirla realmente come un nostro fratello è sufficiente prendere coscienza della realtà storica del Cristo, immortale non tanto perché semidivina ma perché sulla Terra ha lasciato un ricordo indelebile, indimenticabile. 

De André ha raccontato vita e morte di Gesù, ha fatto risaltare la sua grandezza attraverso l'amore ed il dolore della madre, la stima di Tito, il fermento che ne ha caratterizzato la fine. E probabilmente non sarebbe stato tanto diverso come disco se al posto di Gesù ci fosse stato un altro grande personaggio della storia dell'uomo, ma umanizzando Gesù ha eliminato ogni scusa ad ogni uomo di non dover provare ad essere migliore solo perché non divino. Del resto questi sono alcuni dei cardini dell'anarchia: l'autodeterminazione, la libertà che finisce dove inizia quella di un altro individuo, il divincolarsi da schemi malati e precostruiti, che siano questi di natura religiosa o temporale. 

"Storia di un impiegato" sarà sì estremamente diretto e senza fronzoli, ma "La buona novella" è ancor più ricco di significato, è ancor più politico, è soprattutto è più attuale. Più reale. 

E come ogni anno, sotto Pasqua, eccomi ad ascoltare "La buona novella". Un rito ateo, un ossimoro. Ma, come la religione, quando viene messa in gioco l'emotività, c'è poco da sindacare. Resta solo da premere play.




Stefano Tortelli

domenica 8 febbraio 2015

Fino all'ultima nota di vita - Andrea Parodi






Stasera ho deciso di farmi del male, influenzato anche da uno dei miei contatti di Facebook che ha deciso di votare questa serata ad Andrea Parodi, voce storica dei Tazenda e dell'orgoglio sardo. 

Fabrizio De André, parlando con Andrea della Sardegna, terra che l'aveva adottato e che per Parodi era la casa natia, sostenne che non erano stati loro a scegliere quella grande isola come propria terra, ma la Sardegna a scegliere di esserlo, di manifestarsi in ogni momento, di far sentire la propria presenza come se, oltre ad averla sotto ai piedi, la si avesse totalmente attorno, sentendola respirare, avvicinarsi accarezzandoli. Ed è un discorso che si può mutuare, che si può applicare a certe voci, a certe personalità della musica. La domanda che si suol usare per scoprire i gusti musicali di una persona è: "Che musica ascolti?"; ma forse ci sopravvalutiamo, forse releghiamo ad una dimensione razionale, e quindi delle scelte, quella che invece è una realtà propria dell'inconscio, delle emozioni, dell'irrazionale. E' la musica che si fa ascoltare, e sono certi artisti che decidono di far sì che si sia in grado di rimanerne affascinati. Questo lo si può notare quando di un artista ci si innamora dopo tanto, tanto tempo che già lo si conosce. Cosa è cambiato rispetto a prima? Cosa ha fatto sì che se fino ad un dato momento è stato per noi inascoltabile, o al più siamo stati nei suoi confronti indifferenti, tutto ad un tratto ci ha totalmente travolti, legando la nostra esistenza a doppio filo con quelle note, quelle parole, quelle voci? 

I Tazenda li incontrai per la prima volta con Bertoli nella sua famosissima Spunta la luna dal monte, e sì, non mi dispiaceva come canzone, ma non è che mi colpì particolarmente (lo stesso discorso lo posso fare per Ivan Graziani, che se prima quasi lo consideravo insopportabile, tutto ad un tratto è diventato uno dei cantautori a cui più sono legato): innanzi tutto non capivo cosa cantassero, ma anche il modo in cui cantavano la parte in sardo non mi lasciava nulla di particolare. Ecco, forse ho toccato il nocciolo della questione con quel verbo "lasciare", che va in un certo senso a confermare la mia ipotesi sul decidere chi è passivo e chi attivo nella musica. E' la musica, di fatto, che lascia a noi qualcosa, non siamo noi che lasciamo qualcosa a lei. E' Lei che si concede a noi, è Lei che ci dona delle emozioni: che sia perché la stiamo ascoltando, che sia perché la stiamo creando, che sia perché la stiamo dedicando, che sia perché la stiamo suonando o cantando. E probabilmente è Lei a decidere quando farlo.

Andrea Parodi ha dedicato la sua vita alla musica ed alla sua terra, ed implicitamente ha dedicato la sua vita a tutti quelli che si sono innamorati della sua persona, della sua arte e dell'uso che ha fatto di quest'ultima. Come disse nell'introduzione alla sua versione di Hotel Supramonte (in occasione di un Tributo a De André tenutosi a Cagliari) la sua arte è stata fortemente influenzata dalla Sardegna, e non l'ha fatto solamente nell'utilizzo della lingua sarda per dar un senso alla sua meravigliosa voce, ma anche cantandone le tradizioni, la lotta, la cultura, le canzoni tradizionali.

L'ha fatto giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Dal 1978, anno in cui è entrato a far parte della band Coro degli Angeli fino al 2006, anno della sua morte ha, prima in Sardegna e poi nell'Italia intera ed in Europa, fatto conoscere un popolo, una terra, una realtà troppo poco considerata e rispettata, massacrata da un cancro che risponde al nome di "profitto ad ogni costo", al nome di "capitalismo sfrenato", al nome di "fanculo le tradizioni, è il soldo che comanda". E quanto possono essere nella storia di una società millenaria come quella sarda sessant'anni, se paragonata alla vita di un uomo? Un anno!? 

Il cancro è una brutta bestia, e chi ha avuto parenti morti di questa malattia ben lo sa. Si nasconde subdolamente in un corpo apparentemente sano, sembra possa essere un disturbo da nulla, causato magari dalla nostra disattenzione, ma poi all'improvviso si manifesta, e se è maligno, se colpisce un organo complicato da curare non c'è cura che tenga. Qualche mese, massimo un anno e ti porta via, distruggendoti, sconvolgendo il tuo fisico, il tuo aspetto, e se manca una certa forza interiore anche la mente, la lucidità. Andrea è stato, anche in questo, come la sua terra. Fino all'ultimo, nonostante un cancro estremamente distruttivo che l'ha di fatto debilitato totalmente, facendolo sembrare un anziano quando invece era ancora nello splendore degli anni, lui è rimasto lucido, lui ha cercato di combattere, lui ha sperato di poter andare avanti. 

Quando per la prima volta vidi questo video piansi tutte le lacrime che avevo per tanto tempo tenuto dentro di me, e benché non rappresentò l'unico elemento responsabile di quell'enorme commozione in quel periodo, di certo fu la mano che aprì il rubinetto arrugginito dei miei occhi. Il concerto dedicato a De André che prima avevo citato è datato 2005, lui aveva ancora i suoi lunghissimi capelli appena tendenti al grigio ed una folta barba, stava per cantare la canzone che ha legato Faber alla Sardegna, e la stava per cantare per ricordare Faber stesso, che ai tempi ci aveva lasciato già da sei anni a causa di un tumore. L'ultimo concerto di Andrea Parodi invece è di un anno dopo: autunno 2006, un viso prosciugato e glabro, un corpo chiaramente sofferente, una testa sulla quale si intravedono pochi capelli che cercano di ricrescere dopo la chemioterapia. Quel che non cambia è la voce, quel che non cambia è l'utilizzo che ne fa: perché se il 20 luglio 2005 lui stava cantando omaggiando il passato, il 22 settembre del 2006 canta per il futuro, canta per la sua compagna di vita, canta per il sangue del suo sangue, canta per la sua terra e per il suo popolo. Dona la sua voce per l'ultima volta a chi e ciò che più ama. 

Salutando il pubblico, ben sapendo che la Morte sarebbe andato a trovarlo per portarlo altrove, non disse addio, ma arrivederci. E con sua moglie Valentina accanto a lui su quel palco che già aveva a lui donato quattro figli, urlò quello che per me è il più bell'inno alla vita che io abbia mai sentito: "Arrivederci!! Magari con un prossimo figlio"...

Il 17 ottobre dello stesso anno, nemmeno un mese dopo la sua ultima esibizione, Andrea è andato via, ma in quella sua ultima interpretazione di No potho reposare è rimasto, di fatto, immortale, poiché in quelle ultime parole cantate ha riassunto la sua vita, ha riassunto il suo essere Sardo, il suo essere musicista. Lui ha dato fino all'ultimo, ha emozionato fino all'ultimo, ha amato fino all'ultimo. Ha vissuto, fino all'ultimo. Ed ha lasciato tantissimo a tutti noi.

Grazie Andrea, ci sarebbe estremamente bisogno di milioni di Uomini come te...





Stefano Tortelli