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giovedì 24 settembre 2015

Bruce Springsteen: Il Rock.




In un mondo sempre più ricco di apparenza e, di conseguenza, sempre più povero di sostanza, le mosche bianche, che si distinguono e riescono comunque ad emergere sono ormai poche. Questo vale in tutti gli ambiti: da quello lavorativo a quello politico, da quello amoroso a quello amicale, passando per lo sport, l'arte e la cultura. Ci vuole molto poco a creare dei prodotti ad hoc da propinare alla gente, come ci vuole poco a crearsi una maschera per apparire in modo estremamente diverso (e solitamente migliore) di fronte agli altri. 

Anche in un mondo genuino come quello della musica rock non mancano i prodotti studiati a tavolino, spinti dalle case discografiche e propinati alle nuove generazioni, le quali, nei testi, non riescono più a ritrovare i messaggi che una volta contraddistinguevano quello che era il rock: oltre alla musica in sé, anche i testi puntavano a rompere con il passato, con la musica della classe borghese. Si cercava di rispolverare le radici, si cercava di trasmettere dei messaggi nuovi, di protesta, di autodeterminazione, e soprattutto di speranza. Ma il problema non è relativo soltanto alle nuove rockstar, ma ha colpito anche quelle vecchie, alcune di queste storiche, che traviate dal denaro si sono perse un po' per strada, alcune anche rimettendoci la vita. Penso agli Hendrix, ai Morrison, ma anche ad Osbourne o ai Red Hot Chili Peppers: qualcuno è morto per droga, qualcun altro perché non ha saputo reggere alla pressione, qualcun altro è arrivato al punto di bruciarsi totalmente il cervello ed a salvarsi per un pelo. 

C'è invece chi da quarant'anni, facendo un percorso dal basso come gli artisti sopra citati, continua ad incarnare quello spirito rock meglio di chiunque altro. Da quarant'anni scrive d'amore, di morte, della vita di tutti i giorni, della sua patria, delle sue radici, dei problemi sociali, delle guerre e della pace. Da quarant'anni sale sui palchi di tutto il mondo per portare a migliaia e migliaia di persone il suo messaggio, armato di una voce graffiante e di una chitarra che spara note su note che arrivano dritte ai cuori. Da quarant'anni, salendo su quei palchi, si diverte, si emoziona suonando accanto ai suoi amici o a quelli che fino a qualche anno fa sembravano miti irraggiungibili. Da quarant'anni è coerente al suo essere nato operaio, figlio di uno Stato ricco di contraddizioni con le quali bisogna convivere, consci però che vanno eliminate, ed in un senso positivo anziché negativo. Da quarant'anni mostra a generazioni e generazioni di aspiranti rockstar qual è la via da seguire per essere sempre fedeli alle motivazioni con le quali per la prima volta ci si è trovati in un garage a suonare con gli amici o in camera, da soli, a scrivere canzoni accompagnandosi con una chitarra di seconda mano. 

E fortunatamente alcuni artisti, più giovani di lui, hanno seguito questa strada, eleggendolo a loro guru. Mi vengono in mente i Pearl Jam, giusto per fare un esempio, o i nostri Gang, ma sono sicuro che esempi simili ce ne siano tanti altri ancora. Restano forse la minoranza, ma se oggi si può ancora dire che il rock n' roll non è morto è grazie a lui ed a pochi altri. 

Quest'uomo è Bruce Springsteen, signore e signori. Quest'uomo è il Boss. Quest'uomo è il Rock. Perché del rock incarna ogni singolo elemento, del rock è uno degli esponenti più efficaci e continui, del rock è il principe indiscusso. Ed anche se ha sessantasei anni continua a far ballare migliaia e migliaia di persone per tre ore ai suoi concerti, continua a regalarci nuove perle e continua a stupirci, facendoci ancora chiedere come sia possibile che, dopo decenni di carriera, sappia ancora inventare, creare, e soprattutto donare. Certo, si è arricchito. Certo, ha fama e successo. Ma il rock, oltre ad essere uno strumento di protesta e di rottura, è anche un mezzo per l'emancipazione, l'autodeterminazione, il poter vivere grazie alla propria passione. E sono sicuro che chi lo conosce da quaranta/cinquant'anni può confermare che è rimasto lo stesso: un ragazzo innamorato della vita, innamorato della sua patria, innamorato della musica, e desideroso di vivere la prima, rendere migliore la seconda e sposare, giorno dopo giorno, la terza. 

Grazie Bruce, per tutto ciò che hai fatto finora, ma soprattutto per ciò che sei e per ciò che rappresenti. E per celebrarti non potrei scegliere altra canzone se non la tua più famosa... ma in una versione un po' particolare, quella che personalmente amo di più. Buon sessantaseiesimo compleanno, giovanotto!! 



domenica 19 aprile 2015

Acousteen: artista, fan, devoto al Boss fino al midollo... e grande amico





Nella tarda mattinata di venerdì 10 aprile, mentre mi stavo preparando per pranzare e poi andare a scuola ad insegnare, mi è arrivato un messaggio su Facebook che più o meno recava queste parole: "Ehilà, carissimo! Stavo pensando: ma se stasera provassimo a fare un duetto su Desolation Row/Via della povertà, così, alla buona? Tu canti De André, io Bob, tre strofe a testa, la si improvvisa, così, su due piedi." Un bel modo per cominciare la giornata, un bel modo per prepararmi ad una serata che mi incuriosiva parecchio. Ivan, un carissimo mio amico, l'autore di quel messaggio, avrebbe suonato da solo, con le sue chitarre e le sue armoniche, in piazza a Vigone, davanti ai suoi amici, ai suoi conoscenti, ai suoi familiari, le canzoni di uno dei suoi miti. Facendole, come si suol dire qui in Piemonte, "alla sua maniera", in acustico.

Il mito in questione risponde al nome di Bruce Springsteen, un artista che per molto tempo Ivan aveva sì apprezzato ma mai particolarmente approfondito: un po' come una persona che incroci tante volte in giro, o in birreria, con la quale capita anche di scambiare due parole ma senza andare oltre a discorsi che possono anche essere seri ma mai personali. Poi però è cambiato qualcosa: Ivan andò per la prima volta a sentire un concerto del Boss e ne rimase folgorato, rapito, colpito. Bruce l'aveva fatto innamorare, era finalmente entrato nel profondo, aveva scosso le sue emozioni, la sua mente, il suo cuore. Fu la sua via di Damasco, quel concerto, e da allora ha sempre più approfondito la conoscenza del rocker del New Jersey, andando a sentirlo più volte possibile live, studiandoselo a casa con in mano la chitarra e lo stereo a palla, parlandone per ore con le sue ragazze, i suoi amici, me. 

Una sera, mentre eravamo all'Orso, quello che è il rifugio di noi amanti di campagna della birra e della buona musica, non ricordo come cominciammo a parlare dell'interpretazione, delle cover, del provare a cantare un artista e "come un artista". Ricordo che entrambi sottolineavamo la difficoltà oggettiva nel riuscire a cantare come Dylan, come De André, come Guccini, come Springsteen: avevamo del resto lo stesso sogno, lui ed io, un sogno mosso dalla stessa passione, anche se rivolto a due artisti differenti. Lui avrebbe tanto voluto fare un one man show riproponendo Dylan, io avrei voluto dar vita ad una cover band acustica di De André e Guccini. Già però in lui aleggiava l'idea di cambiare meta e dirigersi verso Springsteen, ma per l'appunto mi sottolineava come fosse difficile, impossibile, riprenderlo, riproporlo tale e quale. Voce bastarda, quella di Springsteen, e del resto vale la stessa cosa anche per gli altri tre citati, vale la stessa cosa per un altro mito come Cohen, e perciò era quasi convinto che non avrebbe perseguito ancora per molto quel sogno. Ma dopo qualche birra ed un'ora di chiacchiere pensai al mio rapporto con De André e Guccini, pensai a come io abbia cominciato a cantarli bene quando ho preso coscienza del fatto che non avrei mai potuto ottenere il loro stesso risultato ma che, facendomi muovere dalle loro stesse motivazioni, sarei riuscito a renderli al meglio: non avrei più cantato i pezzi di De André e Guccini come De André e Guccini, avrei semplicemente cantato De André e Guccini. Mi ricordo che gli dissi: "Se vuoi cantare come Bruce parti già sconfitto, non perché non ne sei in grado ma perché, comunque vada, già solo perché avete due voci diverse, due accenti diversi, il risultato non potrà mai essere quello. Ma se lo canti, se vuoi cantare Bruce, se vuoi emozionare attraverso le sue canzoni, allora è sufficiente che tu percepisca le sue canzoni come se fossero tue. come se le avessi scritte tu, come se stessero raccontando la tua storia. Perché non c'è altro verso: io finché ad alcune canzoni non ho dato una situazione di riferimento, un volto, un'emozione che le rappresentasse non sono mai riuscito a cantarle davvero. Le imitavo, ma non cantavo" .

Dopo qualche settimana ci ritrovammo a condividere molte serate insieme, in giro a sentire concerti, a bere, a confidarci, a far notte fonda. E talvolta anche a suonare, a buttare giù qualche idea: perché così funziona tra amici, così capita tra amici che oltre essere amici condividono anche le stesse passioni, e le vivono nello stesso modo. E così, tra un concerto e l'altro, una birra e l'altra, un apprezzamento ad una ragazza e le risate per l'ennesima cazzata detta, è venuta a crearsi una fortissima amicizia: in nome sì della musica, ma soprattutto in nome dei bellissimi momenti passati insieme e della stima reciproca. 

Da quella serata di inizio ottobre son passati sei mesi, tante birre, miriadi di cazzate e centinaia di canzoni canticchiate, ascoltate e suonate insieme. Ed intanto, lui che oltre a saper cantare sa anche suonare divinamente, ha continuato il suo percorso riguardante il Boss. Un concerto a marzo a Torino, uno meno di dieci giorni fa a Vigone. Suona anche alcuni pezzi del suo primo amore, Bob Dylan, durante il suo show, quando per due ore smette di essere Ivan Audero e diventa Acousteen. Ed a Vigone, quel venerdì 10 aprile, alla sera, ci siamo ritrovati un'altra volta con lo sguardo rivolto verso la stessa direzione, che incontrava altri sguardi fissi su di noi, pronti a guardare due amici che, per qualche minuto, mettono in gioco le loro emozioni sullo stesso pezzo, in due lingue diverse, così come fecero al loro tempo Bob Dylan negli Stati Uniti e De André in Italia. Ma mai era successo che lo facessero insieme, sullo stesso palco. Noi un palco vero e proprio non ce l'avevamo, ma le passioni di Bob e Faber abbiamo provato a riproporle al meglio in un paesino della provincia torinese. 


Ed oltre alla felicità di aver finalmente cantato De André davanti ad altre persone, durante un concerto, per la prima volta, quel venerdì sera ero estremamente orgoglioso. Non di me, ma di questo mio amico che attraverso la sua immensa passione e devozione per l'arte di Springsteen ha saputo riproporlo meravigliosamente, emozionandosi ed emozionando. Senza scimmiottare, senza pretendere di essere come Springsteen. Semplicemente, omaggiandolo al massimo delle sue possibilità, mantenendo la propria identità, raccontando sì la storia delle canzoni ma anche quel che quelle canzoni rappresentano per lui: il pensiero per suo padre legato a My hometown, sua nonna che gli chiede di fare quel pezzo che le piace tanto, i cenni riguardanti donne del passato e gli amici di sempre. Insomma, si è raccontato per due ore attraverso le canzoni del Boss, che però, se noi non avessimo saputo che erano del Boss, avremmo tranquillamente potuto dire: "Wow, gran bei pezzi ha scritto Ivan, boia faus!!". 

Questo è Ivan Audero. Queste sono le sue passioni. Questo è il progetto Acousteen. Questo è il mio amico.

Ps: forse direttamente non ti ho ancora ringraziato per avermi permesso di esserci, e non solo venerdì ma da qualche anno a questa parte e, soprattutto, in questi ultimi mesi. Grazie, Ivan! Ed ora basta con i sentimentalismi, mettiamo su un pezzo che sennò ci scende la lacrimuccia e non si addice a due uomini rozzi come noi! E visto che l'ho citata, e visto che nella tua "hometown" ci siamo conosciuti, direi che questa canzone ci sta tutta.





Stefano Tortelli







domenica 22 febbraio 2015

Anche i manganelli hanno i propri gusti





Dev'esserci una certa predilezione per alcuni tipi di sangue, di pelli e di idee da reprimere da parte dei manganelli italiani, oppure a volte si trovano ad aver la pancia piena, viste le scorpacciate fatte nei mesi precedenti, che fa sì che se ne stiano buoni buoni attaccati alla cintura dei poliziotti anziché roteare prima di colpire chi, in quel momento, è considerato meritevole di un bel pestaggio istituzionale.

In questi ultimi giorni tanto si è scritto e detto riguardo ai tifosi del Feyenoord ed a ciò che hanno fatto in Piazza di Spagna, a come l'han fatto, a come sono stati lasciati liberi di agire. alla mancata adozione di misure di precauzione efficaci, come se fosse la prima volta che succedono episodi del genere, come se non esistesse una ricca cronistoria di vandalismo ed illegalità attorno al mondo delle tifoserie, e specialmente in ambito capitolino. I manganelli riposano in questi casi, o nella migliore delle ipotesi arrivano tardi, quando già c'è scappato un morto, quando già è stato rovinato un monumento, quando già l'atteggiamento criminale si è manifestato. Per non parlare delle misure di sicurezza che vengono adottate negli stadi, dove assolutamente lo spettatore qualunque non può portare dentro un accendino o una bottiglia, ma il tifoso organizzato può tranquillamente far entrare un arsenale di spranghe, coltelli, fumogeni e bombe carta. Tra l'altro li conoscono tutti, si conosce bene l'identità, la storia politica, la fedina penale di ogni ultrà, ma mai che si prendano una manganellata quando se la meritano. 

Probabilmente il sapore del sangue dei tifosi non è apprezzato dal fine palato dei manganelli, che a quanto pare prediligono quello di giovani studenti, operai, sindacalisti, stranieri, ragazzi. Oppure semplicemente non apprezzano il sangue che gli ricorda quello dei propri possessori, soprattutto se celerini o dei reparti speciali, dove sotto il caschetto, ovviamente senza numero di identificazione, potrebbe celare il viso di un fascista, ma in uniforme. Cane non mangia cane, fascista non mangia fascista, distruttore non mangia distruttore. E fidatevi, se ciò che è successo a Roma fosse avvenuto per mano di tifosi italiani, magari juventini, napoletani o milanisti, i discorsi si sarebbero già esauriti; se ne parla ancora solo perché i tifosi sono stranieri, ed in quanto cittadini di un altro Paese è venuta a crearsi una tensione in sede di politica estera. Ne è la dimostrazione la morte del poliziotto Giuseppe Raciti durante gli scontri di Catania-Palermo nel 2007, fatta passare come un caso di cronaca come un altro perché alla fin fine era una questione totalmente italiana, anzi, totalmente siciliana, e quindi erano sufficienti due parole di commiato, le solite accuse nei confronti del mondo del pallone e delle tifoserie, i soliti mea culpa da parte delle istituzioni e poi il silenzio dopo il funerale in diretta tv. 

Ma gli ultras non devono preoccuparsi. Ai manganelli, come già detto, il loro sangue non piace, probabilmente perché privo di ogni ideale, di ogni inventiva, di ogni spirito di uguaglianza e libertà. E' insipido, evidentemente. E quindi non assisteremo ad un impegno da parte della politica di far sì che queste cose, finalmente, non possano più succedere arginandole, reprimendole, debellandole. I manganelli vanno tenuti affamati per chi in piazza ci scende per qualcosa di più importante di una partita di calcio. I manganelli devono essere usati per aprire le teste degli studenti nelle piazze e nelle scuole, per violentare ragazze inermi, per massacrare in una prigione un ragazzo colpevole di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, per far conoscere l'Italian style a chi arriva sulle coste italiane dopo aver sofferto l'inimmaginabile prima nel Paese natio e poi per mare, facendo svanire nel sangue l'illusione che qui non avrebbero più sofferto. I manganelli vengono "cacciati in gola" a chi ha ancora la forza di urlare che così non funziona, che a forza di toglierci i diritti ci stanno togliendo ogni libertà, che le uniche differenze di cui si deve tener conto sono quelle di trattamento di fronte alla legge e non quelle espresse dal colore della pelle, dall'orientamento sessuale, dalla posizione occupata nella società. 

Posso comprendere i gusti dei manganelli, del resto io mi circondo di persone che preferiscono costruire anziché distruggere... ma chi crea è sempre un pericolo, soprattutto se crea qualcosa fuori dagli schemi. Ed ecco perché è proprio su di noi che il manganello apre le fauci. Anche perché, alla fin fine, i buoni, da sempre, siamo noi. 

Nonostante tutto ciò, come dissi nove anni fa alla nipote del compianto Vittorio Foa, dei corpi di Polizia, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza bisogna continuare a fidarsi, perché parto dal presupposto che non è l'esecutore materiale ma chi lo comanda e lo seleziona ad essere il problema, perché se ancora siamo in democrazia parte del merito è loro, perché se possiamo ancora camminare per strada pensando ai fatti nostri è anche grazie a loro. Il problema non sono le autorità in sé, il problema sono i magheggi nei palazzi del potere, sono le direttive che portano alla repressione a priori di una manifestazione regolare ed alle mancanze ingiustificabili ed ingiustificate in altre situazioni (a partire dalle manifestazioni di stampo neo-fascista, come se l'apologia di fascismo non fosse reato), sono le infiltrazioni nei cortei. E non mi sto inventando nulla, di prove ce ne sono a milioni, ma si fa finta di non sapere, di non vedere, di non pensare. E' meglio per tutti, ed almeno i telegiornali hanno qualcosa di cui parlare, e l'opinione pubblica qualcosa di cui indignarsi...

Possiamo comunque tutto sommato ritenerci fortunati... in altri posti del mondo, specialmente laddove si presume di essere i padri dei valori democratici, ai manganelli si sostituiscono i proiettili, che colpiscono anche solo per il fatto che la pelle che ricopre il corpo è di un colore diverso. Quarantuno colpi contro una pelle non propriamente americana. Una storia come tante, messa in musica dal Boss.



Stefano Tortelli