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martedì 18 agosto 2015

La seconda guerra mondiale in musica: "Un biglietto del tram" degli Stormy Six





Ieri sono tornato in Piemonte, tra i campi di granturco, dopo aver passato qualche giorno in Toscana tra i castagni. In Garfagnana, tra le colline delle Alpi Apuane, ritrovo le mie radici, forti e vive come quelle dei vecchi castagni che rigogliosi crescono nei boschi che circondano il piccolo borgo nel quale la mia famiglia paterna è nata e cresciuta, sebbene mia nonna e mio nonno si innamorarono a Torino per via di numerose coincidenze, ma questa è un'altra storia...

Casatico, frazione di Camporgiano, è all'incirca a metà strada tra Lucca ed Aulla: ad ovest la Lunigiana, a sud-est la Versilia. Al centro la Garfagnana. Ed a pochi chilometri, in una direzione o nell'altra, ci sono alcuni luoghi che sono diventati tristemente famosi ai tempi della Linea gotica, Stazzema e Vinca su tutti. Ma se la prima località è più o meno conosciuta da tutti, a causa del film di Spike Lee e delle celebrazioni che almeno fino a qualche anno fa hanno avuto una forte cassa di risonanza a livello mediatico (a ragion veduta, dato che vennero massacrate e violentate cinquecentosessanta persone, di cui 130 bambini, dalle SS che stavano ripiegando verso nord), Vinca è pressoché sconosciuta alla maggior parte delle persone. E c'è modo e modo per avere modo di conoscere una nuova storia: c'è chi sfoglia enciclopedie alternative, chi si affida a siti internet di settore, chi ai film.. io, nonostante abbia le mie radici a circa quaranta chilometri da Vinca, ho conosciuto i fatti del 24 agosto 1944 grazie all'album che meglio di tutti racconta la storia della seconda guerra mondiale: Un biglietto del tram degli Stormy Six. 

Un biglietto del tram è il classico album progressive italiano: un concept, che segue un filo conduttore il quale lega storie, luoghi, ma soprattutto testi e musiche. Nonostante manchi un tema musicale ricorrente nelle diverse tracce, il fatto che l'album in questione sia un concept è facilmente intuibile dai titoli delle canzoni: sono nomi di persone, di località e di realtà che hanno avuto una valenza enorme durante la seconda guerra mondiale, ed in particolare durante la resistenza europea al nazi-fascismo: Dante Di Nanni e Gianfranco Mattei, Stalingrado e Vinca, la fabbrica ed il tram che porta a Piazzale Loreto. Come ogni storia, Un biglietto del tram ha un inizio, uno svolgimento ed una fine. E l'inizio è ad appannaggio di due canzoni che in realtà danno vita ad una suite: questo perché si è voluto dare una continuità, un senso di unità, di correlazione, di un unico inizio benché collocato in due nazioni e due realtà ben diverse. Perché abbiamo nella prima parte il racconto dell'assedio spezzato di Stalingrado, la vittoria dell'Armata Rossa contro il contingente nazi-fascista inviato in Russia, l'inizio della fine dei regimi di estrema destra; mentre nella seconda parte è raccontato l'inizio della Resistenza: prima del governo Badoglio, prima dell'Armistizio, prima della corsa alle montagne e della nascita delle Brigate di Liberazione, la resistenza ha cominciato a fermentare nelle fabbriche, grazie agli scioperi di Torino, Milano, Genova e di tutte le grandi città italiane. Ed infatti gli ultimi versi di Stalingrado, prima dello strumentale atto a legare la prima canzone a La fabbrica, recitano "Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa, d'ora in poi troverà Stalingrado in ogni città". E le nostre prime Stalingrado furono proprio nelle grandi città industriali del nord-Italia, e famoso (e citato nella seconda canzone) è lo sciopero alla FIAT di Torino, quando centinaia di migliaia di lavoratori scioperarono e si rivoltarono alle camicie nere mandate a reprimere i manifestanti. "E come a Stalingrado i nazisti son crollati, alla preda rossa in sciopero i fascisti son crollati"...

A scombinare però i piani della Resistenza, dei liberatori della patria, fu l'invasione del Sud Italia degli anglo-americani. La loro descrizione lascia ben poco all'immaginazione: la vana speranza di liberazione dal nazi-fascismo, la falsa promessa di una rinascita dell'Italia intera è racchiusa in tavolette di cioccolato che hanno solo il sapore di libertà. Ma la verità è Anzio, è l'Abbazia di Montecassino, è la non volontà di interferire troppo con i partner economici italo-tedeschi frenando l'avanzata e permettendo ai nazisti di riprendere Roma... Perché ok liberare l'Italia, ma prima lasciamo che i nazi-fascisti facciano fuori un po' di comunisti, che non si sa mai...

Arriva l'8 settembre, lo scenario politico nazionale cambia totalmente, ma ciò che è allucinante è che non solo l'Italia è divisa in due tra fascisti e partigiani. Ad essere divisi tra fascisti e partigiani sono tutti i comuni e tutte le città d'Italia, tanto da dar vita a scontri fratricidi, a faide, a rappresaglie spesso dettate non da motivi politici ma da motivi personali. Da una parte e dall'altra. Perché come c'erano camicie nere buone (ma sicuramente un po' ingenue), c'erano anche partigiani che volevano approfittare della situazione caotica per perseguire i propri interessi. 

E quindi eccoci a Vinca, ad una delle tante rappresaglie dei nazi-fascisti contro i partigiani, ad uno di quegli eccidi che sono passati alla storia per la loro efferatezza, per la loro crudeltà. "Fanno tiro a segno, cani macellai, ma che bella mira, non la sbaglian mai, non la sbaglian mai". Funzionava così nel biennio '43-'45: i partigiani combattevano per la libertà, si rifugiavano nei boschi per non mettere in pericolo le famiglie, ma c'era sempre qualche fascista pronto a dire chi era nella brigata e dove vivevano i suoi figli, e subito le SS o i fascisti arrivavano per la rappresaglia. Dieci a uno, se andava bene... a Vinca morirono in 170 per l'assalto ad un camion... 

I luoghi spesso diventano famosi in base a chi vi è nato, vissuto, morto: Vinci non sarebbe che uno dei tanti paesi della Toscana non fosse stato per Leonardo... Borgo San Paolo ha un'eco particolare per i cultori della Resistenza grazie a Dante Di Nanni, del quale ampiamente parlai in un mio post precedente (accompagnato oltre tutto dalla canzone di quest'album). A lui è stata dedicata questa canzone, di lui è raccontata la storia, ma sostanzialmente nella figura di Dante Di Nanni è racchiusa l'essenza di ogni partigiano comunista morto per la libertà, per la propria patria. Ogni singolo partigiano caduto non è caduto invano, ogni partigiano morto non è morto veramente, perché nel suo sacrificio, nell'esempio che ha dato ad altri giovani in Italia e nel mondo (la nostra Resistenza è invidiata da tutti gli Stati che hanno conosciuto l'egemonia fascista, in Europa e non solo...)  risiede il suo essere immortale, il suo essere ancora presente per le strade dei luoghi che l'han visto lottare, vivere, resistere e morire in nome della nostra libertà. 

La seconda figura raccontata è quella di Gianfranco Mattei, ebreo e comunista, professore di chimica che diede appoggio alle brigate partigiane romane prima come fabbricante di ordigni esplosivi ed in seguito come esecutore materiale di azioni contro i nazi-fascisti. E non è un pezzo superfluo all'interno dell'album, non va a creare una rottura nella linea narrativa, perché descrive una particolare figura di partigiano. Se Dante Di Nanni era un giovane operaio, Gianfranco Mattei era un professore universitario affermato; se Dante Di Nanni era figlio del proletariato immigrato, Gianfranco Mattei era figlio della borghesia romana ed ebrea. Ma il suo essere di una classe sociale superiore non gli ha impedito di prendere parte alla resistenza: le idee, ed in questo caso il voler proteggere la propria identità religiosa, l'hanno portato ad essere idealmente al fianco di Dante Di Nanni. Due diverse culture, due diverse estrazioni, due diverse città: lo stesso destino, la stessa immortalità. 

Arriva il 25 aprile, l'Italia è libera. Tra macerie e festeggiamenti giunge anche l'ora di dover seppellire i propri morti, e ciò rende la gioia non totalmente completa. Da una parte e dall'altra della barricata è tempo di ricostruire, ma anche di scavare, di dar degna sepoltura ai cari periti durante gli scontri. Camicie nere o fazzoletti rossi il dolore è lo stesso e parla italiano. Non tedesco, non inglese. Italiano. E si fa un salto in avanti, si arriva all'illusione degli anni '60, al boom economico che sembra far dimenticare ciò che fu soltanto vent'anni prima. Ma è per l'appunto un'illusione perché i fascisti ci sono ancora, Ordine Nuovo e compagnia bella fanno saltare in aria banche, treni e stazioni, anarchici e comunisti vengono uccisi o "suicidati"... ma è il boom economico, si sta bene, il dolore è solo un ricordo che deve rimanere sotto terra... 

Un biglietto del tram, album del 1975, finisce con l'omonima canzone che fa riferimento al "suo" presente. La gente è distratta, pensa alla quotidianità, ma l'Italia è comunque in subbuglio, perché oltre alla crescita economica c'è anche il fermento delle proteste, delle manifestazioni. Sono gli anni di piombo, è il periodo in cui diventano famosi i celerini, e sebbene in tanti non vogliono ricordare ci sono luoghi, simboli che devono rievocare nella mente delle persone un passato che sebbene può sembrare remoto ha ancora i suoi strascichi nel presente. Il brano è ambientato a Milano, ed il biglietto del tram serve per andare a Piazzale Loreto: di Piazzale Loreto ci viene soltanto raccontato "quello" della fine di aprile del 1945, quando Mussolini e la Petacci vennero esposti a testa in giù insieme ai cadaveri di altri gerarchi nazisti... ma non ci viene raccontata tutta la storia, le radici di questo comunque ignobile gesto, che di per sé è una rappresaglia all'oltraggio che un anno prima venne perpetrato ai cadaveri di diversi partigiani lasciati legati per i piedi nello stesso luogo per più giorni, come monito ai compagni dei caduti... Ecco perché Piazzale Loreto è la destinazione, la fine della storia della Seconda Guerra Mondiale raccontataci dagli Stormy Six: a Piazzale Loreto prima si era cercato di spezzare le ali alla resistenza e poi, benché in un modo piuttosto discutibile, mostrata la fine dell'incubo.

Un biglietto del tram degli Stormy Six è un album che racconta molte storie: alcune di queste vanno di diritto in quella che Marino Severini dei Gang ama definire l'epica della Resistenza, altre si collocano nell'ambito delle canzoni a tema storico, altre ancora hanno avuto lo scopo di raccontare ai contemporanei che di lavoro da fare ce n'era ancora molto. L'album intero va invece di diritto in quella raccolta di dischi estremamente utili a ridestare le coscienze, a smuoverle ed a portarle ad agire, mostrando come per cominciare a resistere non bisogna aspettare l'ultimo momento, mostrando come per cominciare a resistere bisogna sapersi organizzare, riuscire a pianificare, agire. E soprattutto porta a ricordare che gli anni tra il 1940 ed il 1945 sono lontani solo qualche decennio: tre o sette non fa differenza. Sono dietro l'angolo, sono storia di ieri. 




Stefano Tortelli




domenica 22 febbraio 2015

Anche i manganelli hanno i propri gusti





Dev'esserci una certa predilezione per alcuni tipi di sangue, di pelli e di idee da reprimere da parte dei manganelli italiani, oppure a volte si trovano ad aver la pancia piena, viste le scorpacciate fatte nei mesi precedenti, che fa sì che se ne stiano buoni buoni attaccati alla cintura dei poliziotti anziché roteare prima di colpire chi, in quel momento, è considerato meritevole di un bel pestaggio istituzionale.

In questi ultimi giorni tanto si è scritto e detto riguardo ai tifosi del Feyenoord ed a ciò che hanno fatto in Piazza di Spagna, a come l'han fatto, a come sono stati lasciati liberi di agire. alla mancata adozione di misure di precauzione efficaci, come se fosse la prima volta che succedono episodi del genere, come se non esistesse una ricca cronistoria di vandalismo ed illegalità attorno al mondo delle tifoserie, e specialmente in ambito capitolino. I manganelli riposano in questi casi, o nella migliore delle ipotesi arrivano tardi, quando già c'è scappato un morto, quando già è stato rovinato un monumento, quando già l'atteggiamento criminale si è manifestato. Per non parlare delle misure di sicurezza che vengono adottate negli stadi, dove assolutamente lo spettatore qualunque non può portare dentro un accendino o una bottiglia, ma il tifoso organizzato può tranquillamente far entrare un arsenale di spranghe, coltelli, fumogeni e bombe carta. Tra l'altro li conoscono tutti, si conosce bene l'identità, la storia politica, la fedina penale di ogni ultrà, ma mai che si prendano una manganellata quando se la meritano. 

Probabilmente il sapore del sangue dei tifosi non è apprezzato dal fine palato dei manganelli, che a quanto pare prediligono quello di giovani studenti, operai, sindacalisti, stranieri, ragazzi. Oppure semplicemente non apprezzano il sangue che gli ricorda quello dei propri possessori, soprattutto se celerini o dei reparti speciali, dove sotto il caschetto, ovviamente senza numero di identificazione, potrebbe celare il viso di un fascista, ma in uniforme. Cane non mangia cane, fascista non mangia fascista, distruttore non mangia distruttore. E fidatevi, se ciò che è successo a Roma fosse avvenuto per mano di tifosi italiani, magari juventini, napoletani o milanisti, i discorsi si sarebbero già esauriti; se ne parla ancora solo perché i tifosi sono stranieri, ed in quanto cittadini di un altro Paese è venuta a crearsi una tensione in sede di politica estera. Ne è la dimostrazione la morte del poliziotto Giuseppe Raciti durante gli scontri di Catania-Palermo nel 2007, fatta passare come un caso di cronaca come un altro perché alla fin fine era una questione totalmente italiana, anzi, totalmente siciliana, e quindi erano sufficienti due parole di commiato, le solite accuse nei confronti del mondo del pallone e delle tifoserie, i soliti mea culpa da parte delle istituzioni e poi il silenzio dopo il funerale in diretta tv. 

Ma gli ultras non devono preoccuparsi. Ai manganelli, come già detto, il loro sangue non piace, probabilmente perché privo di ogni ideale, di ogni inventiva, di ogni spirito di uguaglianza e libertà. E' insipido, evidentemente. E quindi non assisteremo ad un impegno da parte della politica di far sì che queste cose, finalmente, non possano più succedere arginandole, reprimendole, debellandole. I manganelli vanno tenuti affamati per chi in piazza ci scende per qualcosa di più importante di una partita di calcio. I manganelli devono essere usati per aprire le teste degli studenti nelle piazze e nelle scuole, per violentare ragazze inermi, per massacrare in una prigione un ragazzo colpevole di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, per far conoscere l'Italian style a chi arriva sulle coste italiane dopo aver sofferto l'inimmaginabile prima nel Paese natio e poi per mare, facendo svanire nel sangue l'illusione che qui non avrebbero più sofferto. I manganelli vengono "cacciati in gola" a chi ha ancora la forza di urlare che così non funziona, che a forza di toglierci i diritti ci stanno togliendo ogni libertà, che le uniche differenze di cui si deve tener conto sono quelle di trattamento di fronte alla legge e non quelle espresse dal colore della pelle, dall'orientamento sessuale, dalla posizione occupata nella società. 

Posso comprendere i gusti dei manganelli, del resto io mi circondo di persone che preferiscono costruire anziché distruggere... ma chi crea è sempre un pericolo, soprattutto se crea qualcosa fuori dagli schemi. Ed ecco perché è proprio su di noi che il manganello apre le fauci. Anche perché, alla fin fine, i buoni, da sempre, siamo noi. 

Nonostante tutto ciò, come dissi nove anni fa alla nipote del compianto Vittorio Foa, dei corpi di Polizia, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza bisogna continuare a fidarsi, perché parto dal presupposto che non è l'esecutore materiale ma chi lo comanda e lo seleziona ad essere il problema, perché se ancora siamo in democrazia parte del merito è loro, perché se possiamo ancora camminare per strada pensando ai fatti nostri è anche grazie a loro. Il problema non sono le autorità in sé, il problema sono i magheggi nei palazzi del potere, sono le direttive che portano alla repressione a priori di una manifestazione regolare ed alle mancanze ingiustificabili ed ingiustificate in altre situazioni (a partire dalle manifestazioni di stampo neo-fascista, come se l'apologia di fascismo non fosse reato), sono le infiltrazioni nei cortei. E non mi sto inventando nulla, di prove ce ne sono a milioni, ma si fa finta di non sapere, di non vedere, di non pensare. E' meglio per tutti, ed almeno i telegiornali hanno qualcosa di cui parlare, e l'opinione pubblica qualcosa di cui indignarsi...

Possiamo comunque tutto sommato ritenerci fortunati... in altri posti del mondo, specialmente laddove si presume di essere i padri dei valori democratici, ai manganelli si sostituiscono i proiettili, che colpiscono anche solo per il fatto che la pelle che ricopre il corpo è di un colore diverso. Quarantuno colpi contro una pelle non propriamente americana. Una storia come tante, messa in musica dal Boss.



Stefano Tortelli