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giovedì 6 ottobre 2016

La pendolare





Mattina presto, inizio ottobre, gli sguardi dei passanti ancora alternano immagini oniriche alla realtà. Il tram si ferma e mi permette di sfuggire per un po' ai primi freddi; cerco posto svogliatamente, non lo trovo, mi appoggio allo scheletro del vagone, intento a sciogliere i nodi delle cuffie che qualche folletto dispettoso ogni notte accuraramente tesse con le sue tanto piccole quanto abili dita.

Fa freddo ma c'è il sole, i passeggeri cercano nel giornale e nel cellulare un po' di compagnia e qualche emozione. Premo play e mi abbandono alla musica, mi guardo attorno e tengo il tempo ticchettando su una delle sbarre del tram.

All'improvviso vedo lei, qualche metro più in là, raccolta nei suoi capelli rossi e nel giubbotto dello stesso colore. Mi vede, distogliamo lo sguardo, ma non passa una canzone che siamo di nuovo lì, a metà strada. I nostri occhi di incontrano tra la madre col passeggino e l'impiegato che guarda l'orologio sbuffando periodicamente. Noto il filo degli auricolari, abilmente nascosti dalla sua chioma color tramonto, vedo il suo piede che batte sul pavimento e va a ritmo con le mie dita... chissà se stiamo ascoltando la stessa canzone!? Sorrido pensandoci, ed intanto lei ancora non scende. Andrà dove vado io?

Mancano sempre meno fermate, lei è impassibile al suo posto, io mi sposto ma ci vediamo ancora. E ancora cinque fermate, ho il 20% di possibilità, non male. Scenderemo insieme e forse faremo qualche passo insieme... ma non è così, si avvicina alle porte, prenota la fermata. Il mio sguardo si aggrappa ad ogni suo gesto, quasi a supplicarla. Non vorrebbe dirle addio. Ma è un tentativo vano. Il tram si ferma, Torino si riapre a noi e lei è già per strada.

La cerco per un'ultima volta, si gira per attraversare e per commiato gli sguardi si incrociano per lasciarsi in un attimo.

Sarà per un'altra vita, pendolare dai capelli color del tramonto...

Ma se ci penso, dopo tutto, un breve tratto del lungo percorso che si chiama Vita l'abbiamo condiviso.

Grazie di esserci stata.

Stefano Tortelli



martedì 18 agosto 2015

La seconda guerra mondiale in musica: "Un biglietto del tram" degli Stormy Six





Ieri sono tornato in Piemonte, tra i campi di granturco, dopo aver passato qualche giorno in Toscana tra i castagni. In Garfagnana, tra le colline delle Alpi Apuane, ritrovo le mie radici, forti e vive come quelle dei vecchi castagni che rigogliosi crescono nei boschi che circondano il piccolo borgo nel quale la mia famiglia paterna è nata e cresciuta, sebbene mia nonna e mio nonno si innamorarono a Torino per via di numerose coincidenze, ma questa è un'altra storia...

Casatico, frazione di Camporgiano, è all'incirca a metà strada tra Lucca ed Aulla: ad ovest la Lunigiana, a sud-est la Versilia. Al centro la Garfagnana. Ed a pochi chilometri, in una direzione o nell'altra, ci sono alcuni luoghi che sono diventati tristemente famosi ai tempi della Linea gotica, Stazzema e Vinca su tutti. Ma se la prima località è più o meno conosciuta da tutti, a causa del film di Spike Lee e delle celebrazioni che almeno fino a qualche anno fa hanno avuto una forte cassa di risonanza a livello mediatico (a ragion veduta, dato che vennero massacrate e violentate cinquecentosessanta persone, di cui 130 bambini, dalle SS che stavano ripiegando verso nord), Vinca è pressoché sconosciuta alla maggior parte delle persone. E c'è modo e modo per avere modo di conoscere una nuova storia: c'è chi sfoglia enciclopedie alternative, chi si affida a siti internet di settore, chi ai film.. io, nonostante abbia le mie radici a circa quaranta chilometri da Vinca, ho conosciuto i fatti del 24 agosto 1944 grazie all'album che meglio di tutti racconta la storia della seconda guerra mondiale: Un biglietto del tram degli Stormy Six. 

Un biglietto del tram è il classico album progressive italiano: un concept, che segue un filo conduttore il quale lega storie, luoghi, ma soprattutto testi e musiche. Nonostante manchi un tema musicale ricorrente nelle diverse tracce, il fatto che l'album in questione sia un concept è facilmente intuibile dai titoli delle canzoni: sono nomi di persone, di località e di realtà che hanno avuto una valenza enorme durante la seconda guerra mondiale, ed in particolare durante la resistenza europea al nazi-fascismo: Dante Di Nanni e Gianfranco Mattei, Stalingrado e Vinca, la fabbrica ed il tram che porta a Piazzale Loreto. Come ogni storia, Un biglietto del tram ha un inizio, uno svolgimento ed una fine. E l'inizio è ad appannaggio di due canzoni che in realtà danno vita ad una suite: questo perché si è voluto dare una continuità, un senso di unità, di correlazione, di un unico inizio benché collocato in due nazioni e due realtà ben diverse. Perché abbiamo nella prima parte il racconto dell'assedio spezzato di Stalingrado, la vittoria dell'Armata Rossa contro il contingente nazi-fascista inviato in Russia, l'inizio della fine dei regimi di estrema destra; mentre nella seconda parte è raccontato l'inizio della Resistenza: prima del governo Badoglio, prima dell'Armistizio, prima della corsa alle montagne e della nascita delle Brigate di Liberazione, la resistenza ha cominciato a fermentare nelle fabbriche, grazie agli scioperi di Torino, Milano, Genova e di tutte le grandi città italiane. Ed infatti gli ultimi versi di Stalingrado, prima dello strumentale atto a legare la prima canzone a La fabbrica, recitano "Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa, d'ora in poi troverà Stalingrado in ogni città". E le nostre prime Stalingrado furono proprio nelle grandi città industriali del nord-Italia, e famoso (e citato nella seconda canzone) è lo sciopero alla FIAT di Torino, quando centinaia di migliaia di lavoratori scioperarono e si rivoltarono alle camicie nere mandate a reprimere i manifestanti. "E come a Stalingrado i nazisti son crollati, alla preda rossa in sciopero i fascisti son crollati"...

A scombinare però i piani della Resistenza, dei liberatori della patria, fu l'invasione del Sud Italia degli anglo-americani. La loro descrizione lascia ben poco all'immaginazione: la vana speranza di liberazione dal nazi-fascismo, la falsa promessa di una rinascita dell'Italia intera è racchiusa in tavolette di cioccolato che hanno solo il sapore di libertà. Ma la verità è Anzio, è l'Abbazia di Montecassino, è la non volontà di interferire troppo con i partner economici italo-tedeschi frenando l'avanzata e permettendo ai nazisti di riprendere Roma... Perché ok liberare l'Italia, ma prima lasciamo che i nazi-fascisti facciano fuori un po' di comunisti, che non si sa mai...

Arriva l'8 settembre, lo scenario politico nazionale cambia totalmente, ma ciò che è allucinante è che non solo l'Italia è divisa in due tra fascisti e partigiani. Ad essere divisi tra fascisti e partigiani sono tutti i comuni e tutte le città d'Italia, tanto da dar vita a scontri fratricidi, a faide, a rappresaglie spesso dettate non da motivi politici ma da motivi personali. Da una parte e dall'altra. Perché come c'erano camicie nere buone (ma sicuramente un po' ingenue), c'erano anche partigiani che volevano approfittare della situazione caotica per perseguire i propri interessi. 

E quindi eccoci a Vinca, ad una delle tante rappresaglie dei nazi-fascisti contro i partigiani, ad uno di quegli eccidi che sono passati alla storia per la loro efferatezza, per la loro crudeltà. "Fanno tiro a segno, cani macellai, ma che bella mira, non la sbaglian mai, non la sbaglian mai". Funzionava così nel biennio '43-'45: i partigiani combattevano per la libertà, si rifugiavano nei boschi per non mettere in pericolo le famiglie, ma c'era sempre qualche fascista pronto a dire chi era nella brigata e dove vivevano i suoi figli, e subito le SS o i fascisti arrivavano per la rappresaglia. Dieci a uno, se andava bene... a Vinca morirono in 170 per l'assalto ad un camion... 

I luoghi spesso diventano famosi in base a chi vi è nato, vissuto, morto: Vinci non sarebbe che uno dei tanti paesi della Toscana non fosse stato per Leonardo... Borgo San Paolo ha un'eco particolare per i cultori della Resistenza grazie a Dante Di Nanni, del quale ampiamente parlai in un mio post precedente (accompagnato oltre tutto dalla canzone di quest'album). A lui è stata dedicata questa canzone, di lui è raccontata la storia, ma sostanzialmente nella figura di Dante Di Nanni è racchiusa l'essenza di ogni partigiano comunista morto per la libertà, per la propria patria. Ogni singolo partigiano caduto non è caduto invano, ogni partigiano morto non è morto veramente, perché nel suo sacrificio, nell'esempio che ha dato ad altri giovani in Italia e nel mondo (la nostra Resistenza è invidiata da tutti gli Stati che hanno conosciuto l'egemonia fascista, in Europa e non solo...)  risiede il suo essere immortale, il suo essere ancora presente per le strade dei luoghi che l'han visto lottare, vivere, resistere e morire in nome della nostra libertà. 

La seconda figura raccontata è quella di Gianfranco Mattei, ebreo e comunista, professore di chimica che diede appoggio alle brigate partigiane romane prima come fabbricante di ordigni esplosivi ed in seguito come esecutore materiale di azioni contro i nazi-fascisti. E non è un pezzo superfluo all'interno dell'album, non va a creare una rottura nella linea narrativa, perché descrive una particolare figura di partigiano. Se Dante Di Nanni era un giovane operaio, Gianfranco Mattei era un professore universitario affermato; se Dante Di Nanni era figlio del proletariato immigrato, Gianfranco Mattei era figlio della borghesia romana ed ebrea. Ma il suo essere di una classe sociale superiore non gli ha impedito di prendere parte alla resistenza: le idee, ed in questo caso il voler proteggere la propria identità religiosa, l'hanno portato ad essere idealmente al fianco di Dante Di Nanni. Due diverse culture, due diverse estrazioni, due diverse città: lo stesso destino, la stessa immortalità. 

Arriva il 25 aprile, l'Italia è libera. Tra macerie e festeggiamenti giunge anche l'ora di dover seppellire i propri morti, e ciò rende la gioia non totalmente completa. Da una parte e dall'altra della barricata è tempo di ricostruire, ma anche di scavare, di dar degna sepoltura ai cari periti durante gli scontri. Camicie nere o fazzoletti rossi il dolore è lo stesso e parla italiano. Non tedesco, non inglese. Italiano. E si fa un salto in avanti, si arriva all'illusione degli anni '60, al boom economico che sembra far dimenticare ciò che fu soltanto vent'anni prima. Ma è per l'appunto un'illusione perché i fascisti ci sono ancora, Ordine Nuovo e compagnia bella fanno saltare in aria banche, treni e stazioni, anarchici e comunisti vengono uccisi o "suicidati"... ma è il boom economico, si sta bene, il dolore è solo un ricordo che deve rimanere sotto terra... 

Un biglietto del tram, album del 1975, finisce con l'omonima canzone che fa riferimento al "suo" presente. La gente è distratta, pensa alla quotidianità, ma l'Italia è comunque in subbuglio, perché oltre alla crescita economica c'è anche il fermento delle proteste, delle manifestazioni. Sono gli anni di piombo, è il periodo in cui diventano famosi i celerini, e sebbene in tanti non vogliono ricordare ci sono luoghi, simboli che devono rievocare nella mente delle persone un passato che sebbene può sembrare remoto ha ancora i suoi strascichi nel presente. Il brano è ambientato a Milano, ed il biglietto del tram serve per andare a Piazzale Loreto: di Piazzale Loreto ci viene soltanto raccontato "quello" della fine di aprile del 1945, quando Mussolini e la Petacci vennero esposti a testa in giù insieme ai cadaveri di altri gerarchi nazisti... ma non ci viene raccontata tutta la storia, le radici di questo comunque ignobile gesto, che di per sé è una rappresaglia all'oltraggio che un anno prima venne perpetrato ai cadaveri di diversi partigiani lasciati legati per i piedi nello stesso luogo per più giorni, come monito ai compagni dei caduti... Ecco perché Piazzale Loreto è la destinazione, la fine della storia della Seconda Guerra Mondiale raccontataci dagli Stormy Six: a Piazzale Loreto prima si era cercato di spezzare le ali alla resistenza e poi, benché in un modo piuttosto discutibile, mostrata la fine dell'incubo.

Un biglietto del tram degli Stormy Six è un album che racconta molte storie: alcune di queste vanno di diritto in quella che Marino Severini dei Gang ama definire l'epica della Resistenza, altre si collocano nell'ambito delle canzoni a tema storico, altre ancora hanno avuto lo scopo di raccontare ai contemporanei che di lavoro da fare ce n'era ancora molto. L'album intero va invece di diritto in quella raccolta di dischi estremamente utili a ridestare le coscienze, a smuoverle ed a portarle ad agire, mostrando come per cominciare a resistere non bisogna aspettare l'ultimo momento, mostrando come per cominciare a resistere bisogna sapersi organizzare, riuscire a pianificare, agire. E soprattutto porta a ricordare che gli anni tra il 1940 ed il 1945 sono lontani solo qualche decennio: tre o sette non fa differenza. Sono dietro l'angolo, sono storia di ieri. 




Stefano Tortelli




mercoledì 3 giugno 2015

I Blues Brothers ed i cerchi che si chiudono



Non avevo ancora sei anni quando per la prima vidi il film "The Blues Brothers". In verità con l'universo correlato a questo capolavoro della cinematografia ebbi alcuni contatti già in precedenza, quando ancora abitavo a Torino: probabilmente ne vidi solo alcune scene, ma qualche flash che ha come ambientazione la casa dove ho vissuto per i miei primi quattro anni di vita c'è, anche perché negli anni seguenti avevo spesso il desiderio di vederlo, sebbene logicamente capissi ben poco la trama ed i contenuti. Ma mi piaceva la musica, mi facevano ridere Jack ed Elwood, e poi era sempre un piacere immenso vederlo in casa, sul divano, con i miei genitori. 

Ricordo che durante la famosa scena introduttiva del film, quando Jack sta per uscire di prigione e l'agente incaricato di dargli i suoi effetti personali fa l'elenco di tutti gli oggetti dei quali Jack era in possesso quando fu arrestato, mi soffermai sulla parola "profilattico": la mia genuina curiosità, tipica di un bambino di sei anni, mi portò a chiedere ai miei cosa fosse... "E' un cerotto, tesoro!!": fu la risposta di mia madre, che nonostante fosse stata presa in contropiede seppe rifugiarsi abilmente in corner, lasciando che fossero gli anni e l'esperienza ad insegnarmi il vero significato di quella parola. Ciò che poi ha sempre contraddistinto le visioni familiari della pellicola di John Landis furono le risate, i balletti (spesso da seduti ma talvolta da in piedi) improvvisati, le citazioni del film che venivano riproposte ad ogni ora per almeno tutta la settimana successiva. The Blues Brothers ha rappresentato quindi un forte legante tra i miei genitori e me, e crescendo, comprendendo ancora di più certe battute, contestualizzandole, ed apprezzando ulteriormente la colonna sonora, il discorso Blues Brothers è spesso stato trattato con mamma e papà, come è successo per altri film che con loro ho visto ed imparato ad apprezzare. 

I Blues Brothers però, forse più di tutti gli altri, oltre a rappresentare un legante è diventato anche un legame tra i miei ed io, per una molteplicità di fattori: innanzi tutto i miei andarono a vedere il film al cinema quando uscì, ed io, venti anni dopo, andai a vederlo nel 2012 al Reposi di Torino con quella che allora era la mia ragazza, ripercorrendo più o meno gli stessi passi che fecero loro due decenni prima; i Blues Brothers è uno di quei film dei quali ho spesso parlato ai miei amici, ad alcuni di loro l'ho fatto vedere e con alcuni di loro mi sono ritrovato a ridere a crepapelle non solo guardandolo ma riproponendo le varie scene per strada, al pub, nei ristoranti. Quando con i miei amici andai a Roma a vedere Roger Waters ovviamente c'erano tante suore per le strade della capitale, e si faticava a trattenere un "Ed allora sono cavoli tuoi, sorella!" ogni volta che ne avvistavamo una! Oppure per fare gli scemi ordinare "Quattro polli fritti ed una coca!", ricevendo sguardi alquanto perplessi dei ristoratori di turno... ma era più forte di noi, e soprattutto con il Biondo una celebrazione settimanale di qualche scena o canzone dei Blues Brothers non può assolutamente mancare. E se poi quando tutto ciò avviene è presente anche mio padre, allora apriti cielo, perché se è vero che il Biondo ed io conosciamo a memoria il film, papà è come se lo avesse scritto, come se fosse stato lui a consigliare a Dan Aykroyd l'intera sceneggiatura.

Si aprì un cerchio diciannove anni fa, quella sera in salotto, mentre la mia famiglia ed io guardavamo i Blues Brothers... e diciannove anni dopo, ieri sera, ci siamo nuovamente ritrovati mamma, papà ed io per gustarci i Blues Brothers: stavolta però erano su un palco, della formazione originale erano rimasti Blue Lou Marini (il sassofonista) e Steve Cropper (il chitarrista col barbone), ma le canzoni erano le stesse, le emozioni erano le stesse, e Piazza San Carlo era diventato il nostro salotto di casa: decisamente affollato con quelle 35000 persone a farci compagnia, ma comunque il senso era lo stesso. 

Si è chiuso un cerchio ieri sera in Piazza San Carlo, ma il fatto che la penna abbia compiuto un intero giro non significa che la musica sia finita... le puntine su un vinile fanno centinaia di giri prima che la musica cessi di riecheggiare dalle casse.

E poi, come se non bastasse, c'è sempre il lato B. 




Stefano Tortelli

domenica 3 maggio 2015

Torino, la mia città.




In partenza volevo scrivere una descrizione di Torino, un'esaltazione il più possibile oggettiva, dettata dalla sua maestosità, dalla sua storia, dalla sua enorme cultura, dal fatto che è stata una delle prime città in cui, dopo un primo periodo complicato negli anni '50-'60, si è verificato il primo incontro tra culture diverse massiccio, quello tra i torinesi ed i meridionali, che ha poi reso facilmente realizzabile quello tra gli italiani e gli stranieri. Perché Torino è forse una delle città più multiculturali italiane, una di quelle realtà in cui sì, gli stranieri si vedono perché ovviamente ci sono, ma non si percepiscono in modo negativo come spesso succede altrove, soprattutto in quelle zone d'Italia che più che essere state realtà soggette ad immigrazione sono state bacini dai quali altre città attingevano per compensare la necessità di operai, impiegati, lavoratori in generale. Penso ad esempio al Veneto, che in sociologia spesso viene definito il caso particolare del nord-Italia, una terra che ha visto partire tanti suoi figli verso Milano, Torino e Genova o verso l'Estero... ma ora è una delle prime a percepire come invasiva la presenza degli stranieri in Italia. Torino no, Torino ha da sempre accolto i figli di altre città e di altri Stati: ha avuto sì qualche difficoltà all'inizio, ma poi si è fatta perdonare. Come dicevo, stavo cercando di scriverne un elogio il più obiettivo possibile, ma non sono un cronista, faccio fatica ad esularmi dal discorso, lasciare da parte le emozioni, e per cui ho cancellato le trenta righe precedenti per lasciar spazio ad una descrizione puramente soggettiva. 

Sono nato a Torino, da Torino sono venuto via a quattro anni, spostandomi con i miei genitori in campagna, ma con i miei nonni ed i miei zii che abitavano lì, mia madre che lavorava per la Camera di commercio ed i tanti ricordi che legano mio padre e legavano mia nonna alla loro città natia, Torino non è mai mancata nella mia realtà quotidiana. Perché se un giorno andavo a trovare i miei nonni paterni, con i quali giravo Mirafiori, andando ai giardini, camminando tra i grandi capannoni ed i condomini, frequentando i mercati rionali, il giorno dopo andavo con mio padre a prendere mia madre a lavoro, il giorno dopo ancora mia nonna mi raccontava dei suoi ricordi legati alla città, e via dicendo. Torino c'era sempre, ed in partenza c'era e c'è sempre perché in parte scorre nel mio sangue. Mia nonna materna era torinese, aveva, sebbene in modo illegittimo, discendenza reale, e per cui anche nelle mie vene c'è un po' di nobiltà, un po' di sangue blu, che forse, in qualche modo, mi porta ad essere un fervente difensore della mia città natia. Già quando arrivò il momento di scegliere le superiori avevo fatto un pensierino a Torino, che però non assecondai alla luce del fatto che non solo nessun mio compagno di classe delle medie sarebbe venuto a scuola con me, ma perché sarei stato l'unico villafranchese ad andare a scuola a Torino. Questa cosa in parte un po' mi stupì, perché tutto sommato, sebbene Pinerolo, Saluzzo e Savigliano siano realtà più vicine a quella torinese in fatto di distanza spazio-temporale, è anche vero che Torino non è poi così distante. Capii solo successivamente le motivazioni di questa forte distanza tra la realtà di questo paese e quella del capoluogo: Torino non è distante solo chilometricamente parlando, ma lo è anche a livello di modo di pensare, di agire, di fare. Anche adesso, se non fosse per il lavoro o per l'università, molti miei coetanei a Torino non ci andrebbero (e vale in parte anche il discorso opposto: molti torinesi, in provincia, anche fosse Pinerolo, non ci andrebbero mai), perché probabilmente non la capiscono, probabilmente la vedono come qualcosa di estremamente diverso. Per molti Torino è caos, è traffico, è grigiore (salvo poi andare a Londra, tornare dal viaggio e dire: Wow, Londra è bellissima...), e pur di non andarci, pur di non rimanerci un'ora in più del dovuto, farebbero carte false.

Invece Torino è tutt'altro. Torino è meravigliosa, con un centro storico stupendo da frequentare in qualsiasi orario del giorno, mai caotico e ricco di stimoli, di edifici stupendi, di gesti quotidiani bellissimi. Torino è la città della Dora e del Po, che oltre ad essere raffigurate in Piazza CLN come il padre e la madre della città ospitano sulle loro rive dei luoghi in cui respirare, camminare, vivere totalmente. Penso al Parco del Valentino, alla zona al ridosso della collina, lungo Corso Casale, penso ai Murazzi. Torino è città di grande cultura, con bellissimi musei, con palazzi storici, con interi quartieri che sembrano rimasti fuori dal tempo per come hanno mantenuto la loro identità di borgo, più che di quartiere in senso odierno. Torino è uno stimolo continuo anche grazie alle moltitudini di realtà che offre a chi la frequenta, dando quindi numerose e differenti emozioni: ci si può quasi sentire padroni della città percorrendo a piedi trasversalmente, quasi in solitudine, Piazza San Carlo, e sia che ci si stia dirigendo verso Piazza Castello sia che si stia andando verso Porta Nuova la cornice e la vista offerta sono maestose, gloriose, ed in un certo senso glorificanti; ed allo stesso tempo, alle 7 di mattina, si può percorrere udendo solo l'eco dei propri passi e di pochi altri Via Po, quando la città è ancora sopita, e ci si arriva quasi a chiedere se il mondo per tutti gli altri avesse deciso di fermarsi; ed è sufficiente allontanarsi di una ventina di metri da Corso Massimo d'Azeglio per credere quasi di non avere una città a pochi passi di distanza quando all'improvviso ci si ritrova vicino al Po, in mezzo all'erba o seduti su una panchina. A volte, poi, in pieno autunno può capitare che la nebbia arrivi addirittura a dominare le vie del centro, ed il suo potere di attutire i suoni fa credere quasi di essere in un mondo sognato, magico, surreale. 

Di Torino poi sono per me affascinanti il suono dei tram, i grovigli dei fili sospesi che danno elettricità a quei possenti vagoni che raggiungono ogni zona della città, quel clima particolare che la irradia in inverno sotto natale, ma anche la particolare lucentezza che assume in primavera nelle giornate di sole, dove accanto ad un grande condominio puoi ammirare gli alberi in fiore. Perché un'altra cosa stupenda di Torino è la grande presenza di vegetazione, che a sua volta ospita piccoli animali, tanto che è più semplice vedere uno scoiattolo a Torino che dalle mie parti, vuoi un po' per la vicinanza a Stupinigi, vuoi anche che comunque Torino non è per loro nociva. E magari, dato che principalmente ho parlato del centro storico, si potrà pensare che il resto conta poco, ma non è così. Quartieri come Mirafiori sono stati costruiti in modo estremamente funzionale, ma anche rispettando le logiche ecologiche, e così è per Borgo San Paolo, che forse è meno verde ma molto suggestivo nel suo insieme, e così vale per Torino Nord e Porta Palazzo, che forse venissero meno bistrattate sarebbero anche meglio di quanto già non sono. 

Torino è la mia città, e nonostante io ne abbia viste tante altre sino ad ora, soprattutto nel centro-nord, non la scambierei con nessun altro centro urbano italiano. E non è tanto per il fatto che la conosco, perché so girarla, perché so viverla, ma perché nonostante tutte queste mie conoscenze che la riguardano sa sempre stupirmi: vuoi che sia per un nuovo angolo mai esplorato in precedenza e vicino al quale sono passato decine di volte, vuoi che sia per la cordialità di un commerciante, vuoi che sia per il sorriso di una sua abitante, sa sempre come sorprendermi, come catturarmi, come tenermi nel suo grembo, mettendomi nella condizione di voler presto ritornare appena vado via. 

Il mio rapporto nei confronti di Torino è uno di quei rapporti che probabilmente mai finiranno, anche se magari, per un motivo o per l'altro, mi dovessi ritrovare a migliaia di chilometri di distanza. Perché Torino c'è stata, c'è e sempre ci sarà. E se non attorno a me, dentro di me; ed a volte, anche questo, basta.



giovedì 23 aprile 2015

Dante Di Nanni, un eroe immigrato






Difficilmente dimenticherò i racconti di mia nonna riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale, soprattutto dei due anni che seguirono l'armistizio dell'8 settembre del 1943, quando talvolta i conflitti tra fascisti ed anti-fascisti erano una scusa per sistemare questioni in sospeso tra vicini di casa e talvolta come l'amicizia, l'affetto e l'aver affrontato tante situazioni difficili insieme fino a quel fatidico giorno andavano oltre ogni differenza ideologica e politica. Mi raccontava di come, quando fu sfollata, partecipava alle staffette partigiane, di come mio nonno, che allora era camicia nera, aiutò il figlio dei vicini, partigiano, a nascondere i fucili (che si infilò nei pantaloni, rischiando lui stesso la vita) che il comando fascista voleva trovare per avere la prova inconfutabile che fosse un nemico del fascismo. Ma anche degli atti gratuiti di violenza compiuti da banditi che si spacciavano per partigiani, sia nei suoi confronti (da parte di un presunto partigiano che la mise al muro con mio zio, ancora in fasce, in braccio... questo partigiano venne poi ucciso dai suoi stessi compagni perché traditore) sia nei confronti di alcuni tedeschi che tutto erano tranne che i nazisti che si vedono in tv. E mia nonna, che nonostante avesse personalmente sofferto più a causa dei partigiani che a causa dei fascisti (benché lei stessa fosse un'ardente anti-fascista già da prima dell'Armistizio), mai si sognò di fare di tutta l'erba un fascio, di estendere il suo odio nei confronti di un singolo partigiano a tutti i partigiani, come mai appoggiò, solo perché moglie di un camerata che ingenuamente viveva nel mito del Duce, il fascismo senza sé e senza ma (ed anzi venne malmenata durante una parata perché si rifiutò di fare il saluto fascista). Stiamo parlando di una donna di altri tempi, di una persona che già di per sé era speciale ma che, probabilmente, faceva anche parte di una generazione capace di discernere il bene dal male al di là del buono e del cattivo di turno. Del resto lei, quando ebbe mio zio nel '44, aveva appena 19 anni, mio nonno 18, e fu proprio a quella generazione che venne dato il compito di "sporcarsi le mani" per ricostruire un'Italia devastata dalla guerra. 

Vivevano in centro all'epoca della guerra, e non molto distante da dove lei ha vissuto quel capitolo della sua storia si stava consumando l'ennesima perdita illustre di un grande eroe della resistenza torinese, suo coetaneo, che morì due giorni prima del diciannovesimo compleanno di mia nonna. Era il 18 maggio, i genitori di Dante Di Nanni erano arrivati a Torino per lavorare dalla Puglia, lui a Torino lavorò studiando la sera, finché durante la seconda guerra mondiale non venne arruolato. Il giorno dell'Armistizio, come tanti soldati che avevano fino a quel giorno combattuto per il Duce ed il Re, scappò dalla caserma e raggiunse i primi partigiani, cominciando ad organizzare la Resistenza, cercando di creare un piano per piegare la dominazione nazi-fascista nel Piemonte. Era scappato a Boves, località non molto lontana da Cuneo, ma presto sarebbe tornato a Torino per lasciare il suo nome alla storia e le sue gesta in nome della nostra libertà. Il 17 maggio del 1944, con i suoi compagni di brigata, attaccò una stazione radio che creava interferenze sulle frequenze di Radio Londra: dovevano eliminarle per permettere alle comunicazioni di riprendere, per far sì che il coordinamento dei partigiani potesse nuovamente sussistere. Distrussero la stazione, risparmiarono la milizia di presidio facendosi promettere che non avrebbero denunciato l'attacco, ma vennero traditi. Presto ebbero i nazi-fascisti alle costole, presto vennero tutti feriti, alcuni catturati. Rimasero in due: Pesce e Di Nanni, quest'ultimo gravemente ferito ed accompagnato dall'amico in una via di Borgo S. Paolo, via San Bernardino, perché potesse essere medicato. Mentre Pesce cercava aiuto per far sì che l'amico potesse raggiungere l'ospedale trovò la sua casa circondata dal nemico, e ben presto anche l'alloggio dove si trovava Di Nanni fu preso d'assedio dalle truppe nazi-fasciste. 

Non so cosa scattò in Di Nanni in quel momento, ma credo che il suo atto sia uno dei più eroici che si possano immaginare: perché lui, già morente, sarebbe ormai morto in ogni caso, e che fosse per le ferite precedenti o per le ferite alle quali si era esposto poco sarebbe cambiato; perché lui la libertà per la quale stava dando la vita non l'avrebbe mai minimamente assaporata; perché, nonostante ciò, si armò di fucile, dinamite e bombe a mano e resistette all'assedio per quattro lunghe ore, uccidendo diversi miliziani e sabotando grazie ai suoi ordigni alcuni veicoli tedeschi. E, quando ormai era allo stremo delle forze e non più in grado di combattere, piuttosto che lasciare che fosse il nemico a prendere la sua vita decise di buttarsi, cadere nel vuoto, lanciandosi dal balcone al grido di "Viva il partito comunista".

Si suicidò, e con tutte le armi che aveva a sua disposizione poteva scegliere anche altri modi per porre fine alla sua eroica agonia. Ma voglio pensare che si sia lanciato dal balcone per versare il suo nobile sangue sulle strade lastricate della città che aveva accolto la sua famiglia, alla quale aveva dato lavoro, e che Dante aveva istruito, e poi avvicinato all'ideologia socialista. 

In Borgo San Paolo, da decenni ormai, una delle vie più belle del quartiere è a lui dedicata e si trova a poche decine di metri dalla casa di Via San Bernardino nella quale è nata la sua eroica storia. La storia di un figlio di una terra allora lontana come poteva essere la Puglia durante il ventennio fascista, la storia di un ragazzo che a Torino ha conosciuto il lavoro, la cultura, le idee, un ragazzo che prima in fabbrica e poi, di nascosto, sotto le armi ha maturato la sua decisione di dare una svolta a questo Paese appena si fosse presentata l'occasione di farlo, senza posticipare, senza tirarsi indietro, senza mollare nemmeno un centimetro. E non ha mollato nemmeno quando sapeva che ormai era finita, ha sparato ogni singola cartuccia urlante libertà fino a che ha avuto sufficiente sangue nelle sue vene per poter premere il grilletto, non dando nemmeno la soddisfazione ai suoi aspiranti carnefici di poter dire che l'avevano ucciso loro. Un eroe di altri tempi, un uomo di altri tempi, dello stesso anno di mia nonna, con gli stessi sogni di mia nonna. Lui è stato uno dei molti che ha messo i semi per far diventare realtà i sogni, mia nonna è stata una delle molte che ha fatto in modo che a questi semi non mancasse nulla. 

A lui è stata dedicata anche una canzone meravigliosa degli Stormy Six, ripresa da diversi artisti ma che, nella sua versione originale, soprattutto se ascoltata nel contesto dell'album dal quale è estratta (Un biglietto del tram, che non fatico a definire uno dei più grandi album riguardanti non solo la Resistenza ma l'intero periodo '42-'45, da Stalingrado all'arrivo degli Americani passando per Dante Di Nanni, gli scioperi di Torino e le persecuzioni degli ebrei), rappresenta un tributo emozionante e meraviglioso ad uno dei più grandi eroi di Torino, della Resistenza e dell'Italia intera.



Stefano Tortelli