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mercoledì 6 aprile 2016

Venticinque aprile senza stelle in Val Chisone




Leggo sul numero odierno de L'Eco del Chisone che in tutta la Val Chisone non c'è stato un comune che abbia dato la propria disponibilità per ospitare la fiaccolata del 25 aprile, organizzata ogni anno dall'Anpi territoriale.

Ora, non so come siano orientate politicamente le giunte di codesti comuni, né credo che, ora come ora, faccia poi tanta differenza (visti gli attacchi nei confronti dell'Anpi sulle colonne dell'Unità, roba che Antonio Gramsci si starà non solo rivoltando nella tomba, ma peggio), ma il fatto che la gente di quella valle, popolata principalmente da persone anziane, non senta l'esigenza di dire: "Beh, ma per il 25 aprile qui nessuno organizza niente?" mi lascia alquanto perplesso, oltre che farmi piuttosto incazzare.

Tra l'altro potrei capire una cosa del genere in quelle zone dove la Resistenza, intesa come lotta di liberazione armata da parte dei partigiani, è un elemento che non ha caratterizzato il post 8 settembre, ma qui, in Piemonte, sulle nostre montagne, a pochi chilometri da Torino, mi sembra non solo un'assurdità ma un'enorme bestemmia: una bestemmia nei confronti di chi per la liberazione dell'Italia ha versato sangue, una bestemmia nei confronti di chi in quelle valli era sfollato durante la guerra, una bestemmia nei confronti di chi ha dovuto assistere ai crimini nazifascisti, una bestemmia nei confronti della nostra Nazione, nei confronti dell'Italia.

La storia della Resistenza italiana è uno dei capitoli più romantici dell'epica italiana, è quella più ricca di eroi, di atti meravigliosi, di schiene spezzate ma mai piegate. La Resistenza italiana è il punto più alto toccato dall'umanità tricolore nel '900...

...ma appunto è una storia, in Italia non si legge più, non ci si parla più, non si ricorda più...

Centoquarantanove sono i figli della Val Chisone che sono morti in venti mesi di combattimenti... centoquarantanove fiamme ardenti che non troveranno posto sulle strade che hanno pattugliato, liberato e poi difeso, centoquarantanove luci che non illumineranno i boschi delle montagne circostanti, gli stessi boschi che li hanno ospitati e nascosti quando erano in vita... centoquarantanove stelle che l'oscurantismo ed il revisionismo stanno offuscando sempre più, rendendo impossibile la loro naturale missione: mostrare ed insegnare a noi la strada da seguire e perseguire.

Ed intanto le acque si fanno sempre più agitate, ed in questo mare, in questa notte senza stelle, navigare, per noi, sarà sempre più difficile.




Stefano Tortelli

giovedì 14 maggio 2015

"Giovanni e Nori. Storia d'Amore e Resistenza"... e di intrecci

Illustrazione estemporanea di Giulio Peranzoni durante "Sai com'è" dei Gang & Gaetano Liguori, alla fine dello spettacolo di Daniele Biacchessi "Giovanni e Nori. Storie d'Amore e Resistenza" 




12 maggio 2015. Alba, provincia di Cuneo. Sala Beppe Fenoglio. Alba-Fenoglio è uno di quei binomi che rimarranno nell'eternità delle memorie, della letteratura, della Resistenza. Perché Fenoglio prima di diventare un partigiano, uno scrittore, un narratore della lotta partigiana era un intellettuale, amante della filosofia, della lettura, della conoscenza. Ed era nato ad Alba, nel 1922, da una famiglia come tante, di classe sociale medio-bassa, che però desiderava dare ai propri figli una vita migliore insegnando loro la cultura sì del lavoro, ma anche della lotta sociale in nome del progresso comune. E questa è una storia comune, una radice propria di tanti giovani che, dopo il '43, si sono diretti verso le colline, con qualche vecchio fucile in spalla, poche cartucce nelle tasche ma una volontà, una passione ed un amore nel cuore più grandi di ogni fatica, di ogni sacrificio, di ogni paura. Fenoglio era ad Alba il 10 ottobre del 1944, quando "la presero in duemila", ed ad Alba era quando il 2 novembre "la persero in duecento". L'occupazione partigiana di Alba durò per meno di un mese, ma la sconfitta albese è una di quelle battaglie perse che non sono sinonimo di sconfitta in guerra. Perché a distanza di cinque mesi l'Italia sarebbe stata finalmente liberata, e Beppe, come altri intellettuali che hanno combattuto, ha raccontato nei suoi libri le sue esperienze, le sue lotte, gli intrecci continui tra amicizie, amori, fughe, avanzate. Il sapore del fango, l'umidità dei boschi alpini, la ricerca del cibo, l'assistenza dei tanti paesani che in quei giovani di grandi speranze ci credevano fermamente. Dopo la fine della guerra Fenoglio ebbe modo di conoscere Calvino, Vittorini, Natalia Ginzburg, grandi autori ma soprattutto grandi personaggi estremamente attivi durante la Resistenza. E nacquero così nuovi intrecci, reciproci aiuti, reciproche attenzioni, perché prima di qualsiasi altra cosa era fondamentale attestare ciò che in quegli anni successe: le generazioni future dovevano sapere, ricordare, tramandare ciò che era stato il Ventennio Fascista e cosa fu necessario per porre a questo nefasto periodo la parola fine. 

Sono degli intrecci, intrecci che sono alla base delle storie, da quelle più recenti alle più antiche della storia dell'uomo. Ed è una storia di intrecci quella che il 12 maggio 2015, ad Alba, nella Sala Beppe Fenoglio, è stata raccontata da Daniele Biacchessi: intrecci che, se osservati in modo superficiale, possono apparire casuali, ricchi di coincidenze, alquanto fortuiti. La verità è che ad avvicinare i fili delle vite dei personaggi che animano questa storia sono la Resistenza, l'amore per la propria patria, per i propri ideali; e l'amore nato tra i due protagonisti di questa "Storia d'amore e Resistenza" è stato partorito da un grembo fertile figlio anch'esso degli amori che hanno portato non solo i due fili ad incontrarsi ma ad intrecciarsi, perdersi, ritrovarsi per poi non lasciarsi più. Perché questa è la storia del compagno Giovanni Pesce e della compagna Onorina Brambilla: lui alessandrino, lei milanese. Pesce era emigrato con la famiglia in Francia durante i primi anni del Ventennio perché il padre, socialista, si trovò obbligato a lasciare l'Italia per dare un futuro alla propria famiglia. In Francia Pesce conobbe le miniere, le storie dei minatori, molti di loro come lui esuli, ed una volta maturo decise di partire per combattere la sua prima Resistenza, quella spagnola, con le Brigate internazionali e contro i Franchisti ed i nazi-fascisti. La perse la sua prima Resistenza, ed una volta tornato in Italia, poco dopo l'inizio della Seconda Guerra Mondiale, venne incarcerato a Ventotene perché antifascista. In prigione ebbe modo di arricchire ulteriormente la sua coscienza politico-sociale grazie ad uno strumento che ormai è fuori moda, ovvero il libro, ovvero il pensiero filosofico, ovvero la base di ogni grande azione dell'uomo. Dopo l'Armistizio raggiunse Torino e si unì ai GAP del capoluogo piemontese, e fu tra i più grandi partigiani che la città sabauda poté ammirare. E sicuramente ebbe paura più di una volta, sicuramente fu condizionato dall'incertezza di premere o meno un grilletto o di posizionare o meno un ordigno, ma la sua volontà, la sua voglia di libertà, la sua tenacia lo portarono ad agire sempre nel modo giusto. A Milano ci arrivò nel maggio del '44, dopo che, con il grande Dante Di Nanni, aveva sabotato un'antenna presieduta dai fascisti che disturbava le frequenze di Radio Londra. Di Dante Di Danni ho già parlato prima del 25 aprile, ma è fondamentale mettere in luce anche in questo caso un altro intreccio: quello che ha portato a combattere fianco a fianco due grandi partigiani, quello che ha fatto sì che la memoria del partigiano caduto potesse venir raccontata grazie al ricordo del partigiano sopravvissuto e che fino all'ultimo ha cercato di salvare la vita al proprio compagno. 

A Milano Pesce riorganizzò il gap locale, prese contatti con gli altri partigiani, cominciò a pianificare la resistenza. E conobbe Onorina, "Nori", una compagna che sarebbe diventata la SUA compagna. Nori fu però arrestata e portata nei campi di concentramento di Bolzano, Pesce rimase fino al giorno della Liberazione a Milano, continuando a combattere, con il cuore mosso non solo più dall'amore per la libertà ma anche dall'amore per la donna amata. Il 25 aprile 1945 Milano festeggiò la Liberazione, e pochi giorni dopo anche Nori poté raggiungere la città: perché i nazisti abbandonarono Bolzano, liberarono i detenuti, e per Nori, come se non fosse successo nulla nei venti anni precedenti, fu semplicissimo raggiungere il capoluogo longobardo: stazione di Bolzano, treno, Milano, tram, sede del GAP. Giovanni. 

Giovanni e Nori si sposarono due mesi dopo, e sebbene deposero i loro fucili mai smisero di maneggiare le armi della lotta sociale, della memoria, dell'impegno. Entrambi si impegnarono anima e corpo per l'ideale comunista, ma finalmente potevano farlo sempre insieme, fianco a fianco, fino alla fine dei loro giorni. 

Questa è la storia di Giovanni e Nori, questa è la storia che ci è stata raccontata da Daniele Biacchessi ad Alba. E limitarmi a citare soltanto la penna e poi voce che ci ha accompagnato lungo i fili delle vite di Giovanni Pesce ed Onorina Brambilla sarebbe uno sbaglio, perché porterebbe alla non citazione di un altro intreccio. Quello tra la letteratura e la lettura, rappresentate da Daniele Biacchessi, la musica dei Gang e di Gaetano Liguori e le illustrazioni di Giulio Peranzoni: un'opera multimediale quella andata in scena alla Sala Beppe Fenoglio, che ha coinvolto, commosso, scosso, e spero risvegliato in chi ancora ce l'aveva sopito il senso della propria esistenza, della propria voglia di essere, esistere, resistere. 

E, giusto per sottolineare una volta in più l'importanza degli intrecci, intrecci che sostanzialmente condizionano estremamente il processo del filo che ognuno di noi rappresenta, è importante sottolineare come le canzoni eseguite dai Gang siano esemplari per sì raccontare la Resistenza, ma anche per mostrare in quanti alla Resistenza hanno dedicato le loro note e le loro parole. Perché oltre a La pianura dei sette fratelli, brano immancabile quando si parla di Lotta partigiana e scritto dai Gang stessi, sono state cantate Dante di Nanni degli Stormy Six, Su in collina di Guccini, Sai com'è (testo scritto da Lolli) ed Eurialo e Niso di Bubola. 

La vita di ognuno di noi è il prodotto di milioni di intrecci, e la morale di questa storia risiede nel ricordare le storie di ieri, le memorie, gli avvenimenti che hanno fatto sì che ad un certo punto del nostro filo sia presente un nodo: uno dei tanti, forse, ma fondamentale per spiegare il motivo, insieme a tutti gli altri nodi, per il quale noi, adesso, in questo preciso istante, siamo quelli che siamo. 

Grazie a Daniele Biacchessi, ai Gang, a Giulio Peranzoni, a Gateano Liguori per il meraviglioso spettacolo, per avermi commosso nuovamente con le storie della Lotta partigiana che tanto amo leggere e raccontare ma che, mostrate così, hanno tutto un altro sapore. Grazie ad Alba che si è dimostrata sempre attenta al suo passato, alla memoria di uno dei suoi migliori figli e di ciò che lui, Beppe, ha rappresentato per Alba e per l'Italia intera. 

E grazie a voi, grandi uomini e donne che soprattutto tra il '43 ed il '45, ma anche prima e dopo, avete fatto sì che in Italia si possa ancora provare a pensare, a raccontare, a ricordare, a sperare, a vivere. 

Non posso che chiudere questo mio post con la canzone che raccoglie tutta la storia, che la sintetizza e ne mostra la morale più profonda, più intensa, più vera. Giovanni e Nori. Storia d'amore e resistenza, non poteva che concludersi con l'esaltazione di queste due sfumature di rosso, che da sempre e per sempre determineranno il percorso del mio filo e ne detteranno i futuri intrecci. 





Stefano Tortelli

domenica 26 aprile 2015

"Nella chiesa di Bellusco": una storia come tante

La chiesa di Bellusco




Ieri sera, come tante sere, ero all'Orso con gli amici di sempre, a fare le solite cose. Chiacchiere, birre, scherzi, gli immancabili discorsi riguardanti la musica, che però spesso vengono inframezzati da discorsi seri, perché se è vero che il divertimento condiviso avvicina le persone che lo condividono, i discorsi seri creano amicizie, le rafforzano, le cementificano. Ed a volte si parla dei problemi di uno di noi, a volte di problemi comuni, altre volte ancora dell'attualità, della storia, della politica. Stavo raccontando ad alcuni di loro che ieri, complice il tempo, mi sono preso la libertà di starmene per buona parte del tempo a letto, rinunciando ad andare a Torino in Borgo San Paolo per i festeggiamenti della Liberazione a pochi passi da Via Di Nanni. E così è stato introdotto il discorso della Resistenza, portato avanti dal Biondo che sottolineava come sia un bel giorno, ogni anno, il 25 aprile perché sua nonna, ora novantenne, racconta come una ragazzina, con lo stesso piglio e la stessa intensità di una ventenne, gli anni della guerra, i bombardamenti alleati, le persecuzioni da parte di fascisti e nazisti, le torture psicologiche nei confronti dei partigiani catturati, le fucilazioni, ed infine la liberazione vera e propria.

Ognuno di noi ieri sera ha raccontato delle storie: Angelo, il barista, le storie di alcuni vigonesi che quando faceva le medie intervistò con la scuola, Bruno i racconti tramandati dai familiari di ciò che era successo nella campagna che circondava la sua casa, Biondo le storie di Villafranca, io le storie dei miei nonni materni a Torino e dei miei nonni paterni in Toscana. Dissi anche che fu un paradosso decisamente strano il fatto che, se non fosse stato per la guerra, forse mia nonna e mio nonno mai si sarebbero incontrati a Torino, mai sarebbero nati i miei zii e mia mamma, e di conseguenza mai sarei nato io. E tutti noi sottolineavamo come, sfortunatamente, il nome dei partigiani è stato infangato da quei banditi che si mischiarono alle brigate partigiane per poter fare i loro comodi: i vari assassini, stupratori, ladri, traditori, che gli stessi partigiani isolarono o uccisero per poter portare avanti la propria lotta. Del resto, noi che la pensiamo in un certo modo, abbiamo il pregio (che forse a volte diventa un difetto) di discernere la differenza tra ciò che è giusto e sbagliato e tra chi è buono e chi cattivo, a volte anche dandoci delle colossali mazzate sui piedi perché rischiamo di avallare le tesi di chi si mette contro a certi ideali, a certi movimenti che duramente tentiamo di sostenere.

Ieri sera, mentre parlavamo di tutto ciò, inevitabilmente in testa si materializzarono testo e spartito di una canzone che scoprii poco meno di una decina di anni fa, che spesso ho collegato a mia nonna, ma anche a tanti anziani che, magari, non hanno mai assistito ad un assassinio da parte dei nazi-fascisti ma che per almeno due anni hanno avuto paura, ogni giorno, ad ogni ora: paura per loro, per i loro conoscenti, per la loro realtà, che fosse contadina, montana o cittadina. Questa canzone si intitola Nella chiesa di Bellusco, pubblicata nel 2005 dai Mercanti di Liquore sull'album "Che cosa te ne fai di un titolo", e racconta una storia come tante, una storia comune benché sbagliata, che ben descrive il terrore che pervadeva ogni singolo individuo tra l'8 settembre '43 e l'aprile del '45. Ed inoltre sottolinea come in certe situazioni le differenze di idee venivano dopo qualsiasi altra cosa, soprattutto se in gioco c'era la vita di alcuni membri della comunità che stanno lottando per i propri vicini, i propri parenti, i propri simili. Perché Nella chiesa di Bellusco parla di un rastrellamento da parte dei nazisti, alla ricerca di alcuni partigiani che erano stati nascosti sul campanile dal parroco del paese: le SS arrivarono durante la messa, fregandosene della spiritualità, fregandosene del luogo di culto, comunicando al prete il motivo per cui si trovavano lì, chiedendogli collaborazione, promettendogli che nessuno si sarebbe fatto male. Il prete prova a divagare, dice che non ci sono partigiani nascosti in chiesa, ma i tedeschi si fanno pressanti, cominciano a spaventare i presenti. Finché un soldato non decide di accendersi una sigaretta, proprio mentre è appoggiato all'altare, e così il prete, toccato nel profondo, si arma di tutto il suo coraggio e da uno schiaffo al soldato, urlando che "nella casa del Signore non si spara e non si fuma". A quel punto il comandante decide di radunare il suo plotone ed andar via, risparmiando il prete, i presenti ed i partigiani ancora nascosti, per poi non ripresentarsi più. 

Nessuna vittima, né da una parte né dall'altra, ma uno di quegli spaccati di una storia difficile e movimentata che è quella della Resistenza, ed in generale del post-Armistizio, quando nessuno sapeva più chi era amico, chi nemico, chi neutrale, quando bisognava contare semplicemente su se stessi e sui legami che esistevano tra le persone in un certo contesto, per poter sopravvivere, andare avanti, resistere, puntando sul motto "o tutti o nessuno", perché allora, probabilmente, era ancora forte lo spirito di aggregazione, di imprescindibilità di ogni elemento della comunità. Ed è per questo che questa storia, questa canzone, ha un'importanza secondo me fondamentale, perché ci da l'immagine di ciò che potevano essere i tanti paesi del centro-nord italiano negli ultimi due anni della guerra. Come in Val Varaita, così nell'alta pianura; come sulle colline dell'Appennino Tosco-Emiliano, così nella pianura lombarda. E così via.

Una storia comune, una storia sbagliata. Una storia che tanti anziani ricordano ed alla quale si limitano a cambiare il luogo in cui è avvenuta. Perché è una che da Bellusco vale per tutta l'Italia intera. 





Stefano Tortelli


giovedì 23 aprile 2015

Dante Di Nanni, un eroe immigrato






Difficilmente dimenticherò i racconti di mia nonna riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale, soprattutto dei due anni che seguirono l'armistizio dell'8 settembre del 1943, quando talvolta i conflitti tra fascisti ed anti-fascisti erano una scusa per sistemare questioni in sospeso tra vicini di casa e talvolta come l'amicizia, l'affetto e l'aver affrontato tante situazioni difficili insieme fino a quel fatidico giorno andavano oltre ogni differenza ideologica e politica. Mi raccontava di come, quando fu sfollata, partecipava alle staffette partigiane, di come mio nonno, che allora era camicia nera, aiutò il figlio dei vicini, partigiano, a nascondere i fucili (che si infilò nei pantaloni, rischiando lui stesso la vita) che il comando fascista voleva trovare per avere la prova inconfutabile che fosse un nemico del fascismo. Ma anche degli atti gratuiti di violenza compiuti da banditi che si spacciavano per partigiani, sia nei suoi confronti (da parte di un presunto partigiano che la mise al muro con mio zio, ancora in fasce, in braccio... questo partigiano venne poi ucciso dai suoi stessi compagni perché traditore) sia nei confronti di alcuni tedeschi che tutto erano tranne che i nazisti che si vedono in tv. E mia nonna, che nonostante avesse personalmente sofferto più a causa dei partigiani che a causa dei fascisti (benché lei stessa fosse un'ardente anti-fascista già da prima dell'Armistizio), mai si sognò di fare di tutta l'erba un fascio, di estendere il suo odio nei confronti di un singolo partigiano a tutti i partigiani, come mai appoggiò, solo perché moglie di un camerata che ingenuamente viveva nel mito del Duce, il fascismo senza sé e senza ma (ed anzi venne malmenata durante una parata perché si rifiutò di fare il saluto fascista). Stiamo parlando di una donna di altri tempi, di una persona che già di per sé era speciale ma che, probabilmente, faceva anche parte di una generazione capace di discernere il bene dal male al di là del buono e del cattivo di turno. Del resto lei, quando ebbe mio zio nel '44, aveva appena 19 anni, mio nonno 18, e fu proprio a quella generazione che venne dato il compito di "sporcarsi le mani" per ricostruire un'Italia devastata dalla guerra. 

Vivevano in centro all'epoca della guerra, e non molto distante da dove lei ha vissuto quel capitolo della sua storia si stava consumando l'ennesima perdita illustre di un grande eroe della resistenza torinese, suo coetaneo, che morì due giorni prima del diciannovesimo compleanno di mia nonna. Era il 18 maggio, i genitori di Dante Di Nanni erano arrivati a Torino per lavorare dalla Puglia, lui a Torino lavorò studiando la sera, finché durante la seconda guerra mondiale non venne arruolato. Il giorno dell'Armistizio, come tanti soldati che avevano fino a quel giorno combattuto per il Duce ed il Re, scappò dalla caserma e raggiunse i primi partigiani, cominciando ad organizzare la Resistenza, cercando di creare un piano per piegare la dominazione nazi-fascista nel Piemonte. Era scappato a Boves, località non molto lontana da Cuneo, ma presto sarebbe tornato a Torino per lasciare il suo nome alla storia e le sue gesta in nome della nostra libertà. Il 17 maggio del 1944, con i suoi compagni di brigata, attaccò una stazione radio che creava interferenze sulle frequenze di Radio Londra: dovevano eliminarle per permettere alle comunicazioni di riprendere, per far sì che il coordinamento dei partigiani potesse nuovamente sussistere. Distrussero la stazione, risparmiarono la milizia di presidio facendosi promettere che non avrebbero denunciato l'attacco, ma vennero traditi. Presto ebbero i nazi-fascisti alle costole, presto vennero tutti feriti, alcuni catturati. Rimasero in due: Pesce e Di Nanni, quest'ultimo gravemente ferito ed accompagnato dall'amico in una via di Borgo S. Paolo, via San Bernardino, perché potesse essere medicato. Mentre Pesce cercava aiuto per far sì che l'amico potesse raggiungere l'ospedale trovò la sua casa circondata dal nemico, e ben presto anche l'alloggio dove si trovava Di Nanni fu preso d'assedio dalle truppe nazi-fasciste. 

Non so cosa scattò in Di Nanni in quel momento, ma credo che il suo atto sia uno dei più eroici che si possano immaginare: perché lui, già morente, sarebbe ormai morto in ogni caso, e che fosse per le ferite precedenti o per le ferite alle quali si era esposto poco sarebbe cambiato; perché lui la libertà per la quale stava dando la vita non l'avrebbe mai minimamente assaporata; perché, nonostante ciò, si armò di fucile, dinamite e bombe a mano e resistette all'assedio per quattro lunghe ore, uccidendo diversi miliziani e sabotando grazie ai suoi ordigni alcuni veicoli tedeschi. E, quando ormai era allo stremo delle forze e non più in grado di combattere, piuttosto che lasciare che fosse il nemico a prendere la sua vita decise di buttarsi, cadere nel vuoto, lanciandosi dal balcone al grido di "Viva il partito comunista".

Si suicidò, e con tutte le armi che aveva a sua disposizione poteva scegliere anche altri modi per porre fine alla sua eroica agonia. Ma voglio pensare che si sia lanciato dal balcone per versare il suo nobile sangue sulle strade lastricate della città che aveva accolto la sua famiglia, alla quale aveva dato lavoro, e che Dante aveva istruito, e poi avvicinato all'ideologia socialista. 

In Borgo San Paolo, da decenni ormai, una delle vie più belle del quartiere è a lui dedicata e si trova a poche decine di metri dalla casa di Via San Bernardino nella quale è nata la sua eroica storia. La storia di un figlio di una terra allora lontana come poteva essere la Puglia durante il ventennio fascista, la storia di un ragazzo che a Torino ha conosciuto il lavoro, la cultura, le idee, un ragazzo che prima in fabbrica e poi, di nascosto, sotto le armi ha maturato la sua decisione di dare una svolta a questo Paese appena si fosse presentata l'occasione di farlo, senza posticipare, senza tirarsi indietro, senza mollare nemmeno un centimetro. E non ha mollato nemmeno quando sapeva che ormai era finita, ha sparato ogni singola cartuccia urlante libertà fino a che ha avuto sufficiente sangue nelle sue vene per poter premere il grilletto, non dando nemmeno la soddisfazione ai suoi aspiranti carnefici di poter dire che l'avevano ucciso loro. Un eroe di altri tempi, un uomo di altri tempi, dello stesso anno di mia nonna, con gli stessi sogni di mia nonna. Lui è stato uno dei molti che ha messo i semi per far diventare realtà i sogni, mia nonna è stata una delle molte che ha fatto in modo che a questi semi non mancasse nulla. 

A lui è stata dedicata anche una canzone meravigliosa degli Stormy Six, ripresa da diversi artisti ma che, nella sua versione originale, soprattutto se ascoltata nel contesto dell'album dal quale è estratta (Un biglietto del tram, che non fatico a definire uno dei più grandi album riguardanti non solo la Resistenza ma l'intero periodo '42-'45, da Stalingrado all'arrivo degli Americani passando per Dante Di Nanni, gli scioperi di Torino e le persecuzioni degli ebrei), rappresenta un tributo emozionante e meraviglioso ad uno dei più grandi eroi di Torino, della Resistenza e dell'Italia intera.



Stefano Tortelli



sabato 17 gennaio 2015

Red is the colour - L'arte della lotta, l'arte dell'amare

Nilde Iotti e Palmiro Togliatti: compagni di lotta, compagni di vita. 



Attenzione, allontanate dal computer i fascisti, distraete i capitalisti. Questo post ed il prossimo andranno a toccare tematiche a loro sconosciute poiché le temono più d'ogni altra cosa al mondo: i prossimi due post saranno a luci rosse! Rosse d'amore, rosse di passione, rosse di emozione, rosse di lotta. 

Avevo già parlato del Rosso colore, del suo ruolo fondamentale nella mia vita, sviscerandone ogni sua sfumatura, attribuendo ad ognuna di esse un particolare ruolo nella mia quotidianità. Voglio però ora soffermarmi sui due elementi portanti, che tanto possono sembrare lontani a prima vista ma che, con un piccolo sforzo, possono sovrascriversi, mischiarsi, unificarsi: il rosso dell'amore ed il rosso della politica. Lo so, sono quasi bitematico, ma leggendo dall'inizio questo blog è possibile capire, senza leggere questo post, quanto tutto sia strettamente correlato, fortemente interdipendente, estremamente destinato a dar vita ad un circolo virtuoso (se ben applicato, se alimentato da una coerenza di fondo). 

Più volte ho citato artisti come De André, Guccini, Finardi e Bertoli, ed anzi, ad ognuno di loro ho dedicato un intero post, sottolineando di tutti e quattro (e ciò vale per tanti altri artisti a me cari) la loro estrema intensità, la loro estrema passione, la loro irriducibile capacità di emozionare, che si parli di amore o di politica. Io sono un aspirante sociologo, oltre che, a detta di molti, un poliedrico artista (c'è chi mi ha dato del poeta maledetto, chi mi reputa un musicista/cantante, chi un abile parlatore, chi un inconsapevole profeta; a scanso di equivoci, ringrazio ed allo stesso tempo mi dissocio, limitandomi a dire che cerco di esprimermi al massimo delle mie possibilità, percorrendo le strade che meglio conosco per farlo), ed alla luce di ciò mi trovo a rimbalzare da una parte all'altra: sono sì il soggetto che cerca di analizzare, ma anche l'oggetto dell'analisi. Che poi, se ci penso un attimo, ogni cantautore, ogni poeta, ogni scrittore ha in sé l'arte della sociologia: per scrivere un componimento, soprattutto se analitico, bisogna avere le capacità di vedere ciò che attorno succede, e questo vale anche per un pittore che dipinge un quadro, tanto più se astratto, quindi bene o male questo doppio ruolo non è poi così assurdo. Da sociologo, in ogni caso, mi son ritrovato più volte a cercare di capire come possano coesistere l'intensità nel parlare d'amore e l'intensità nel parlare di lotta, di politica, di riscatto, proprie dei cantautori sopracitati, e che si può allargare anche a scrittori come Pasolini e Tondelli, a psicologi e sociologi come Lorenz (che, tra l'altro, è soprattutto conosciuto per essere stato premio Nobel per la medicina) e Fromm.

A dirla tutta una spiegazione totale non sono mai riuscito a trovarla, e forse è anche un bene così, ma credo che alla base di tutto ci sia sostanzialmente una forte passione, una forte capacità di emozionarsi, oltre ad un'enorme empatia, una inestimabile voglia di condivisione, di puntare al massimo, di esaltare la propria condizione, senza isolarsi ma, anzi, vivendo sempre più in mezzo alla gente, amandola e scrivendola, stimolandola e cantandola, respirandola e parlandoci assieme. Perché prima di tutto, prima di ogni specializzazione dovuta all'aver cavalcato i propri talenti e le proprie passioni, ognuno di loro è stato un individuo ricco di energia e di voglia di dare, prima che di ricevere, consapevole di quanto sia difficile mettere tutto ciò in pratica nel fare quotidiano in un mondo dove ci si chiude sempre di più in casa, ci si proibisce il confronto, ci si limita sicuramente le incazzature, ma per contro anche i grandi piaceri scemano. Ed allora l'unico modo era entrare nelle case: attraverso i libri, attraverso le radio, con teorie valide che finiscono sui giornali, con poesie da dedicare e da ricevere. Ed a questo punto diventa anche complicato capire cosa ci sia alla base e cosa sia venuto dopo: è nato prima lo spirito di lotta o quello dell'amore, espressi entrambi attraverso la propria arte? C'è chi come De André ha sottolineato come mai si sarebbe sognato di scrivere un album politico, commentando l'uscita di Storia di un impiegato... dimenticandosi però che tutto ciò che aveva pubblicato prima era politico allo stesso modo, da La buona novella a Non al denaro non all'amore né al cielo passando per Tutti morimmo a stento e canzoni come Carlo Martello o La ballata dell'eroe; Finardi ha cominciato come cantautore impegnato per poi scrivere canzoni d'amore meravigliose come Un uomo, Patrizia ed Amore diverso; Guccini ha sempre fatto convivere questi elementi, a partire da Folk Beat n.1, dove convivevano nello stesso album canzoni d'amore e canzoni di protesta; Bertoli addirittura si è trovato a scrivere una canzone intitolata Per te nella quale affermava come nel suo cantare di lotta cantava anche di amore, e di amore non in generale ma per la persona che amava. 

Quindi capire quale sia Adamo e quale sia Eva, tra il rosso dell'amore e il rosso della politica, è un gran casino. Certo è che se c'è uno dei due elementi prevaricante sull'altro, il secondo non è più debole, solo è nella penombra, pronto a colpire quando meno ce lo si aspetta. Ed è anche un po' il meccanismo che mi ha portato ad avvicinare ed ad avvicinarmi, ad innamorare ed ad innamorarmi, salvo poi trovarmi incapace di essere efficace in entrambe le sfere nel momento in cui quella dell'amore cominciava ad assomigliare ad un uovo, subendo le pressioni interne ed esterne alla coppia, alla Lei, all'Io di quel momento. 

Però di una cosa sono consapevole: so di aver lasciato un segno in ogni persona che con me è stata coprotagonista di una relazione, ma anche di un'amicizia, che ora è andata perduta, o che, soprattutto per quanto riguarda le relazioni, non si è mai potuta realmente vivere. Scrissi una canzone tempo fa che faceva leva soprattutto su questo: bisogna saper lasciare il segno sulla terra, incidere il proprio nome nel cuore di una persona, sopravvivere nelle memorie altrui. Tutto il resto conta poco, tutto il resto è un avere o un aver avuto. Ma l'aver lasciato, l'aver segnato, l'essere quindi stato, è lo scopo fondamentale di ogni esistenza. Ed è l'obiettivo primario della mia. 

A riassumere tutto questo voglio postare una canzone che sviscera con estrema semplicità, la quale viaggia a pari passo con l'intensità, questo mio lungo discorso: è un brano di Fausto Amodei, cantautore molto famoso in Piemonte che si è sempre schierato in prima linea durante le lotte operaie e studentesche degli anni '70 e che, ancora oggi, continua a lottare (cambiano i nemici, ma la necessità della lotta è sempre attuale)... allo stesso tempo ha saputo scrivere questa canzone d'amore meravigliosa. Una prova in più alla mia tesi, un'ulteriore conferma che l'amore è amare, ma anche lottare. Del resto il plurale di lottare è lottiamo, di resistere è resistiamo... anche l'italiano è dalla mia parte! 



Stefano Tortelli

domenica 28 dicembre 2014

Da Valle Re ai Campi Rossi




Quelle che andrò a raccontarvi sono due storie a me molto care, e tutto sommato è superfluo sottolinearlo, poiché non fosse così non scriverei a riguardo; ci sono tante cose che apparentemente o effettivamente sono superflue in senso assoluto, tante altre lo sono in senso relativo, e non è da me scrivere tanto per scrivere, parlando di ciò che non mi interessa, di ciò che non sento mio, di ciò che non mi rispecchia.
Oggi è l'anniversario dell'eccidio dei sette Fratelli Cervi: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore. Avevano dai 22 ai 42 anni la notte che vennero uccisi brutalmente settantuno anni fa. Erano contadini, lavoravano la terra con il padre Alcide a Gattatico, una località della campagna emiliana non tanto lontana da Reggio Emilia. L'Emilia Romagna ha dato i natali a grandi militanti politici di sinistra, e loro non erano da meno: ogni giorno avevano a che fare con i simboli dei loro ideali, la falce ed il martello, condividevano nella loro casa il pane, si riunivano attorno al focolare a raccontare storie, a ballare, a sorseggiare il vino che loro stessi producevano. Erano una famiglia come tante, ma ciò che a loro ha regalato l'immortalità nella storia dell'Italia anti-fascista è anche la croce che ne ha abbracciato gli ultimi respiri. Perché durante la seconda guerra mondiale, quando il partito cominciava a vacillare sotto i colpi delle penose sconfitte in campo militare, l'economia che di conseguenza era andata in crisi, la repressione da parte dei fascisti e dei tedeschi portarono ad un sempre più forte movimento di persone, ideali ed armi. E tutto ciò andava nascosto, questo movimento, per rimanere implacabile, doveva nascondersi, agire clandestinamente, con tanta attenzione quanta determinazione. E la casa dei Fratelli Cervi divenne così un nascondiglio per i partigiani, un punto di ristoro per le staffette, un'oasi sicura ma sempre all'erta nella quale esprimere liberamente le proprie idee, i propri sogni, le proprie speranze, da allargare all'intera Emilia, all'intera Italia. 
Ma dopo Natale, in seguito all'uccisione di un fascista in un paese limitrofo, il 28 dicembre fu eseguito l'ordine di fucilazione per rappresaglia dei Sette Fratelli Cervi, i figli della Pianura, dopo essere stati catturati un mese prima, tra il 24 ed il 25 novembre dopo uno scontro a fuoco avvenuto nella loro casa. Sette fratelli, una famiglia intera spazzata via dall'odio, dalla repressione, dalla più triste pagina della storia millenaria della nostra penisola. Sette figli di un padre che per ancora alcuni giorni si è trovato solo, rinchiuso in una prigione, senza sapere che il sangue del suo sangue era stato lavato via dal nero piombo fascista. Ma una volta fuggito di prigione dopo un bombardamento alleato, Alcide ancora ha portato avanti i suoi ideali, le sue battaglie, i suoi sogni. In suo nome ed in nome dei figli, fino all'età di 95 anni, quando si è spento con accanto i suoi nipoti e le sue nuore, ed altri 200.000 italiani ai suoi funerali. 

Settantuno anni fa cominciò questo primo racconto che ancora oggi andrebbe riportato nei libri di storia, nelle pagine dei giornali, per le vie delle città. E fortunatamente tutto ciò avviene, con scuole, piazze e strade a loro dedicati dal Nord al Sud Italia passando per la Sardegna. Ed io ho avuto l'onore di ascoltare la nipote di Alcide parlare a me ed ad altri giovani in quello che ora è il Museo Cervi, in quella che allora era la casa dei suoi zii. Respirare quell'aria fu assolutamente particolare, perché mi ricordava quella che è propria della mia casa: i campi rigogliosi del maggio padano, la brezza primaverile che se qui è figlia della Alpi lì è generata dagli Appennini, i grandi alberi ed il silenzio a circondare i muri di quella cascina di campagna. Ma in quell'aria c'era ben di più: c'erano i ricordi, c'era il sangue, ma c'era anche la speranza di un mondo migliore, il desiderio di uguaglianza, fratellanza, libertà, tutti sentimenti propri di ogni luogo se solo qualcuno in quel momento li sta portando avanti con tutto se stesso. E quel giorno, quel 19 maggio del 2007, eravamo in trenta a voler continuare questa lotta, ad indossare quelle famose scarpe rotte, a voler trasformare l'aria in vento. A voler far rivivere con noi Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore... ed Alcide.

Quella mattina vedemmo diversi cimeli nella Casa Museo Cervi: il trattore che comprarono dopo tanti sforzi per poter arare i campi, il mappamondo tanto caro ad Alcide, la simbolica rappresentazione di un albero genealogico sotto forma di quercia con sette rami. E vedemmo un breve documentario riguardante la loro storia, con alcune scene tratte dal film "I sette fratelli Cervi" del 1968, chiusosi con una canzone che inevitabilmente mi riporta a quel giorno, in quel luogo, con tutti i compagni accanto a me a cantarla ancora una volta. Ed a commuovermi, di nuovo. Perché come cantano i Gang nei loro ultimi versi: "E in quella pianura, tra Valle Re e i Campi Rossi, noi ci passammo un giorno e in mezzo alla nebbia ci scoprimmo commossi".


Stefano Tortelli