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giovedì 14 maggio 2015

"Giovanni e Nori. Storia d'Amore e Resistenza"... e di intrecci

Illustrazione estemporanea di Giulio Peranzoni durante "Sai com'è" dei Gang & Gaetano Liguori, alla fine dello spettacolo di Daniele Biacchessi "Giovanni e Nori. Storie d'Amore e Resistenza" 




12 maggio 2015. Alba, provincia di Cuneo. Sala Beppe Fenoglio. Alba-Fenoglio è uno di quei binomi che rimarranno nell'eternità delle memorie, della letteratura, della Resistenza. Perché Fenoglio prima di diventare un partigiano, uno scrittore, un narratore della lotta partigiana era un intellettuale, amante della filosofia, della lettura, della conoscenza. Ed era nato ad Alba, nel 1922, da una famiglia come tante, di classe sociale medio-bassa, che però desiderava dare ai propri figli una vita migliore insegnando loro la cultura sì del lavoro, ma anche della lotta sociale in nome del progresso comune. E questa è una storia comune, una radice propria di tanti giovani che, dopo il '43, si sono diretti verso le colline, con qualche vecchio fucile in spalla, poche cartucce nelle tasche ma una volontà, una passione ed un amore nel cuore più grandi di ogni fatica, di ogni sacrificio, di ogni paura. Fenoglio era ad Alba il 10 ottobre del 1944, quando "la presero in duemila", ed ad Alba era quando il 2 novembre "la persero in duecento". L'occupazione partigiana di Alba durò per meno di un mese, ma la sconfitta albese è una di quelle battaglie perse che non sono sinonimo di sconfitta in guerra. Perché a distanza di cinque mesi l'Italia sarebbe stata finalmente liberata, e Beppe, come altri intellettuali che hanno combattuto, ha raccontato nei suoi libri le sue esperienze, le sue lotte, gli intrecci continui tra amicizie, amori, fughe, avanzate. Il sapore del fango, l'umidità dei boschi alpini, la ricerca del cibo, l'assistenza dei tanti paesani che in quei giovani di grandi speranze ci credevano fermamente. Dopo la fine della guerra Fenoglio ebbe modo di conoscere Calvino, Vittorini, Natalia Ginzburg, grandi autori ma soprattutto grandi personaggi estremamente attivi durante la Resistenza. E nacquero così nuovi intrecci, reciproci aiuti, reciproche attenzioni, perché prima di qualsiasi altra cosa era fondamentale attestare ciò che in quegli anni successe: le generazioni future dovevano sapere, ricordare, tramandare ciò che era stato il Ventennio Fascista e cosa fu necessario per porre a questo nefasto periodo la parola fine. 

Sono degli intrecci, intrecci che sono alla base delle storie, da quelle più recenti alle più antiche della storia dell'uomo. Ed è una storia di intrecci quella che il 12 maggio 2015, ad Alba, nella Sala Beppe Fenoglio, è stata raccontata da Daniele Biacchessi: intrecci che, se osservati in modo superficiale, possono apparire casuali, ricchi di coincidenze, alquanto fortuiti. La verità è che ad avvicinare i fili delle vite dei personaggi che animano questa storia sono la Resistenza, l'amore per la propria patria, per i propri ideali; e l'amore nato tra i due protagonisti di questa "Storia d'amore e Resistenza" è stato partorito da un grembo fertile figlio anch'esso degli amori che hanno portato non solo i due fili ad incontrarsi ma ad intrecciarsi, perdersi, ritrovarsi per poi non lasciarsi più. Perché questa è la storia del compagno Giovanni Pesce e della compagna Onorina Brambilla: lui alessandrino, lei milanese. Pesce era emigrato con la famiglia in Francia durante i primi anni del Ventennio perché il padre, socialista, si trovò obbligato a lasciare l'Italia per dare un futuro alla propria famiglia. In Francia Pesce conobbe le miniere, le storie dei minatori, molti di loro come lui esuli, ed una volta maturo decise di partire per combattere la sua prima Resistenza, quella spagnola, con le Brigate internazionali e contro i Franchisti ed i nazi-fascisti. La perse la sua prima Resistenza, ed una volta tornato in Italia, poco dopo l'inizio della Seconda Guerra Mondiale, venne incarcerato a Ventotene perché antifascista. In prigione ebbe modo di arricchire ulteriormente la sua coscienza politico-sociale grazie ad uno strumento che ormai è fuori moda, ovvero il libro, ovvero il pensiero filosofico, ovvero la base di ogni grande azione dell'uomo. Dopo l'Armistizio raggiunse Torino e si unì ai GAP del capoluogo piemontese, e fu tra i più grandi partigiani che la città sabauda poté ammirare. E sicuramente ebbe paura più di una volta, sicuramente fu condizionato dall'incertezza di premere o meno un grilletto o di posizionare o meno un ordigno, ma la sua volontà, la sua voglia di libertà, la sua tenacia lo portarono ad agire sempre nel modo giusto. A Milano ci arrivò nel maggio del '44, dopo che, con il grande Dante Di Nanni, aveva sabotato un'antenna presieduta dai fascisti che disturbava le frequenze di Radio Londra. Di Dante Di Danni ho già parlato prima del 25 aprile, ma è fondamentale mettere in luce anche in questo caso un altro intreccio: quello che ha portato a combattere fianco a fianco due grandi partigiani, quello che ha fatto sì che la memoria del partigiano caduto potesse venir raccontata grazie al ricordo del partigiano sopravvissuto e che fino all'ultimo ha cercato di salvare la vita al proprio compagno. 

A Milano Pesce riorganizzò il gap locale, prese contatti con gli altri partigiani, cominciò a pianificare la resistenza. E conobbe Onorina, "Nori", una compagna che sarebbe diventata la SUA compagna. Nori fu però arrestata e portata nei campi di concentramento di Bolzano, Pesce rimase fino al giorno della Liberazione a Milano, continuando a combattere, con il cuore mosso non solo più dall'amore per la libertà ma anche dall'amore per la donna amata. Il 25 aprile 1945 Milano festeggiò la Liberazione, e pochi giorni dopo anche Nori poté raggiungere la città: perché i nazisti abbandonarono Bolzano, liberarono i detenuti, e per Nori, come se non fosse successo nulla nei venti anni precedenti, fu semplicissimo raggiungere il capoluogo longobardo: stazione di Bolzano, treno, Milano, tram, sede del GAP. Giovanni. 

Giovanni e Nori si sposarono due mesi dopo, e sebbene deposero i loro fucili mai smisero di maneggiare le armi della lotta sociale, della memoria, dell'impegno. Entrambi si impegnarono anima e corpo per l'ideale comunista, ma finalmente potevano farlo sempre insieme, fianco a fianco, fino alla fine dei loro giorni. 

Questa è la storia di Giovanni e Nori, questa è la storia che ci è stata raccontata da Daniele Biacchessi ad Alba. E limitarmi a citare soltanto la penna e poi voce che ci ha accompagnato lungo i fili delle vite di Giovanni Pesce ed Onorina Brambilla sarebbe uno sbaglio, perché porterebbe alla non citazione di un altro intreccio. Quello tra la letteratura e la lettura, rappresentate da Daniele Biacchessi, la musica dei Gang e di Gaetano Liguori e le illustrazioni di Giulio Peranzoni: un'opera multimediale quella andata in scena alla Sala Beppe Fenoglio, che ha coinvolto, commosso, scosso, e spero risvegliato in chi ancora ce l'aveva sopito il senso della propria esistenza, della propria voglia di essere, esistere, resistere. 

E, giusto per sottolineare una volta in più l'importanza degli intrecci, intrecci che sostanzialmente condizionano estremamente il processo del filo che ognuno di noi rappresenta, è importante sottolineare come le canzoni eseguite dai Gang siano esemplari per sì raccontare la Resistenza, ma anche per mostrare in quanti alla Resistenza hanno dedicato le loro note e le loro parole. Perché oltre a La pianura dei sette fratelli, brano immancabile quando si parla di Lotta partigiana e scritto dai Gang stessi, sono state cantate Dante di Nanni degli Stormy Six, Su in collina di Guccini, Sai com'è (testo scritto da Lolli) ed Eurialo e Niso di Bubola. 

La vita di ognuno di noi è il prodotto di milioni di intrecci, e la morale di questa storia risiede nel ricordare le storie di ieri, le memorie, gli avvenimenti che hanno fatto sì che ad un certo punto del nostro filo sia presente un nodo: uno dei tanti, forse, ma fondamentale per spiegare il motivo, insieme a tutti gli altri nodi, per il quale noi, adesso, in questo preciso istante, siamo quelli che siamo. 

Grazie a Daniele Biacchessi, ai Gang, a Giulio Peranzoni, a Gateano Liguori per il meraviglioso spettacolo, per avermi commosso nuovamente con le storie della Lotta partigiana che tanto amo leggere e raccontare ma che, mostrate così, hanno tutto un altro sapore. Grazie ad Alba che si è dimostrata sempre attenta al suo passato, alla memoria di uno dei suoi migliori figli e di ciò che lui, Beppe, ha rappresentato per Alba e per l'Italia intera. 

E grazie a voi, grandi uomini e donne che soprattutto tra il '43 ed il '45, ma anche prima e dopo, avete fatto sì che in Italia si possa ancora provare a pensare, a raccontare, a ricordare, a sperare, a vivere. 

Non posso che chiudere questo mio post con la canzone che raccoglie tutta la storia, che la sintetizza e ne mostra la morale più profonda, più intensa, più vera. Giovanni e Nori. Storia d'amore e resistenza, non poteva che concludersi con l'esaltazione di queste due sfumature di rosso, che da sempre e per sempre determineranno il percorso del mio filo e ne detteranno i futuri intrecci. 





Stefano Tortelli

lunedì 27 aprile 2015

Antonio Gramsci, "Nino".

Antonio Gramsci. Filosofo, linguista, letterato, giornalista. E Comunista.




"Basta pensare al Partito Comunista. Basta con i pugni chiusi, la falce ed il martello. Basta con i vecchi slogan. Basta rimpiangere le lotte operaie e studentesche. Basta, perché fintanto che non si ritrova il coraggio di dire con fierezza Sì, sono comunista, ripartendo dal padre del comunismo in Italia e dei suoi insegnamenti, tutto questo resta solo puro folklore". Queste sono le parole che Marino Severini ha usato a Torino, in occasione del concerto dei Gang di inizio marzo, per introdurre uno dei brani che compongono il nuovo album Sangue e cenere. Si intitola Nino questa canzone, dedicata ad Antonio Gramsci, ed è una specie di confidenza, di un dialogo a senso unico, pregno di rabbia, di domande, ma che contiene anche una promessa, una dichiarazione di amore: per Nino, per i suoi insegnamenti, per le caratteristiche peculiari dell'essere comunista, del sentirsi comunista. 

Perché sfortunatamente dopo settant'anni di politica anti-comunista e filo-occidentale in Italia il concetto di comunismo è stato devastato da luoghi comuni, stereotipi, promossi prima dalla DC, poi dai filo-americani, passando per Berlusconi ed arrivando a Renzi. Perché ammetto che quando a fine luglio si concretizzò la chiusura del giornale L'Unità, fondato dallo stesso Gramsci, sottovalutai la portata di quel gesto, ed anzi pensai: "Beh, in questo modo finalmente si smetterà di infangare un giornale che è stato la colonna portante del comunismo fino almeno ai primi anni '90". Ma poi, negli ultimi mesi, ho rivalutato la mia posizione, e mi sono reso conto di come la fine de L'Unità fosse l'ennesimo segnale di come, anziché tentare di riprendere in mano una tradizione meravigliosa, ricca di cultura, di lotte, di ideali, si volesse andare in tutt'altra direzione. Del resto da allora Renzi si è manifestato per quel che è, ovvero in tutto e per tutto un altro democristiano prestato alla politica di oggi che si comporta come quello che, teoricamente, era il suo primo antagonista, fino a riabilitarlo, fino, addirittura, a farlo quasi rimpiangere. Se questo è il futuro che ci aspetta, visto che il presente già di per sé non è roseo, siamo veramente messi malissimo. 

C'era invece chi, originario della Sardegna ma trapiantato in Piemonte, aveva, cent'anni fa, teorizzato "La città futura", reso contemporaneo Marx, sottolineando come sì, la lotta operaia e contadina sono importanti, ma che queste per affermarsi al meglio dovevano appoggiarsi alla cultura, alla storia, agli studi. Ed è proprio questa la peculiarità di Gramsci: lui non parlava di classe operaia, non parlava di contadini, per lui esistevano solo gli sfruttati e gli sfruttatori, e vedeva nella cultura, nello studio, nella conoscenza delle proprie radici e delle proprie storie la base per rendere infallibile una rivoluzione, un'evoluzione, un miglioramento per tutti a scapito di pochi. Gramsci aveva anticipato di 40 anni le considerazioni fatte da Fromm e Chomsky in alcuni loro testi. Tutto questo perché Gramsci, prima di essere un filosofo, un linguista, un critico letterario, uno scrittore, era una persona che aveva un'immensa cultura, una grande conoscenza. Cultura e conoscenza che voleva mettere al servizio del popolo, aggiungendoci però qualcosa di suo: le sue teorie, le sue idee, i suoi ideali. E per un certo periodo riuscì a fare tutto questo: nel 1921, il giorno prima del suo compleanno, fu tra i principali promotori della nascita del Partito Comunista, nel 1926 fu tra i più duri contestatori di Mussolini e del fascismo.. Nel '27 venne incarcerato per le sue idee, per la sua strenua resistenza, per la sua incorruttibilità. Una volta in carcere avrebbe potuto rinnegare le sue idee, avrebbe potuto decidere di porre fine alla sua sofferenza voltando le spalle al comunismo, ai simboli: bastava che abiurasse, come fece Galileo Galilei. Ma lui era un Giordano Bruno, e come lui stesso ebbe a scrivere si rese co-responsabile della sua morte, della sua condanna. Era consapevole, Nino, di essere uno, ma era anche consapevole che stava diventando un simbolo vivente dell'ideale comunista, e che un crimine ancora peggiore della sua ingiusta detenzione era il rinnegare tutto per la sua individuale libertà.

Nino scelse, e scelse di donare la speranza della libertà universale anziché condannare il resto del mondo ma salvare se stesso. Parteggiò e non patteggiò, e nemmeno smise di combattere, continuando a riempire quaderni con i suoi appunti, prima dal carcere e poi dalla clinica nel quale venne ricoverato per l'inesorabile peggioramento delle sue condizioni di salute. Morì, nel '37, ma come tutte le morti dei grandi eroi non fu vana. Perché fino all'ultimo seppe dare una direzione, seppe indicare la via, seppe guidare chi silenziosamente si sentiva comunista verso la Rossa Primavera, che cominciò a manifestarsi in tutto il suo splendore dopo l'Armistizio. 

Però Nino è poco ricordato, quasi mai insegnato, se non all'università, ma anche nel mondo accademico lo si incontra negli insegnamenti "di settore", e facilmente lo si ritrova nei testi riguardanti la linguistica, e specialmente la dialettologia, piuttosto che in quelli di filosofia o di storia contemporanea. E probabilmente anche in questo si denota l'influenza catto-capitalista che hanno caratterizzato la storia italiana dal dopoguerra ad oggi. Di Gramsci si parla poco, ed è quindi inevitabile ritrovarsi circondati da persone che non sanno il significato del 25 aprile, di altre che vedono in tutti i partigiani dei banditi, di altre ancora per le quali i comunisti erano mangia-bambini e ladri di terreni. Perché ovviamente per un certo tipo di propaganda era più comodo mostrare quel che è stato il comunismo nell'Est Europa, dove le vergogne verificatesi in nome di un ideale sono state strumentalizzate al massimo, senza spiegare il perché, senza dire a cosa erano dovute. Una vergogna è sempre una vergogna, sia chiaro, ma la vergogna va raccontata dall'inizio alla fine e non soltanto nel momento della sua manifestazione. E la vera vergogna resta l'ignoranza, o meglio l'indifferenza, di fronte a Gramsci, di fronte a Matteotti, di fronte a Turati, di fronte a tutti i partigiani caduti per la libertà, di fronte alla naturale evoluzione del fascismo, ovvero il capitalismo. 

Ma queste sono storie che non si può cercare su alcun libro, queste sono storie che bisogna imparare analizzando la storia, studiando, informandosi. Per non commettere l'errore di grandi compagni che hanno voluto rendere settoriale, dimenticandosi di Gramsci, le varie lotte, finendo ovviamente per perderle il giorno dopo averle vinte. Del resto, questo è il sistema capitalistico ed utilitaristico: nel momento in cui si ottiene lo scopo per cui ci si è uniti è inutile rimanere un corpo unico, a quel punto meglio prendere strade differenti, che non si sa mai che il mio contributo ad una lotta che non sento mia possa recarmi qualche danno. 

Mi dispiace Nino, ed anche io voglio chiederti scusa in nome di chi presto ti ha dimenticato, di chi una volta raggiunto il suo scopo, servendosi dell'ideale, l'ha abbandonato, "gettando la bandiera in un fosso". Ed anche io, Nino, voglio darti la mia parola. Perché io non ti dimentico, ed anzi sempre più approfondirò la conoscenza delle tue opere, di chi in qualche modo si è ispirato a te, di chi continua a portare avanti le tue istanze.

Ma oggi Nino ti do la mia parola,
quella di chi nel pane ci mette tutto il sole,
quella che canta con la città futura,
e corre fino al vento,
oltre le sbarre, oltre i cancelli, oltre queste mura.

Comunista è chi ferma la mano che alza il bastone,
comunista è la terra che c'è oltre ogni nazione,
comunista non è che un sentimento, è Rivoluzione
comunista ora e sempre per l'unità..
Comunista... Comunista... 





Stefano Tortelli

venerdì 16 gennaio 2015

Coherence, where art thou?




Mi risulta sempre più difficile capire i meccanismi attraverso i quali le persone analizzano e giudicano ciò che attorno a loro accade. O meglio, diventa sempre più difficile notare un filo conduttore tra un'epifania e l'altra di una data persona, che sia un amico, un conoscente, un politico, un docente, ed ho come l'impressione che siamo solo all'inizio, che tutto questo non potrà che peggiorare. Anche perché spesso chi ha questo bel vizio di lasciarsi sballottare dai venti mediatici è anche il primo a volersi affibbiare un'etichetta, che sia questa politica, ideologica, religiosa, auto-proclamandosi esponente di un dato modo di pensare, stravolgendone così il reale significato, annacquandolo, distorcendolo, fino a distruggerlo. Ed è un po' il principio attraverso il quale, dopo la morte di Berlinguer, c'è stata un'enorme confusione nello schieramento comunista; confusione che si è poi trasformata in caos, evolutosi in distruzione, manifestandosi poi nella definitiva eliminazione. E non c'è da stupirsi che sia andata così, e non c'è da cercare colpevoli all'infuori del PCI: nei miei anni di analisi dei processi comportamentali, sia in dimensione macrosociale sia in dimensione microsociale (anche solo analizzando me stesso o un singolo individuo), ho notato che quasi sempre non si può parlare di esplosione provocata da agenti esterni, ma che si deve parlare di implosione, di autodistruzione. O, se proprio si vuole scaricare la responsabilità all'esterno, beh, l'esterno spesso è il prodotto del nostro agire, o dell'agire della nostra comunità, del gruppo d'appartenenza al quale ci sentiamo legati (la famiglia, la coppia, il sistema universitario, la Nazione). C'è poco da fare, e gli eventi sismici ne sono il più grande esempio nella natura (e non per nulla i terremoti vengono spesso usati nelle metafore: la lingua, soprattutto quella italiana, tutto è tranne che illogica): se c'è un forte terremoto a cadere per prime sono le costruzioni più fragili, che possono anche esser state appena costruite, ma se si risparmia sul materiale e sulla qualità del lavoro, il destino è segnato... si da poi la colpa al terremoto, ma intanto le chiese di 600 anni rimangono in piedi, chissà perché...

Questa introduzione è giustificata dal fatto che sempre più trovo incoerenza ed estrema facilità nello slegarsi da quelli che si professano come i propri ideali di riferimento, ed è una condizione alquanto bipartisan ma che ovviamente nella sinistra mi da estremamente fastidio (ed è per questo che ho voluto portare avanti l'esempio del PCI, ma volendo potevo parlare del PDL, del Fascismo, della monarchia francese). Teoricamente dovremmo essere quelli lucidi e razionali che sanno incanalare le proprie emozioni per dar vita ad un modo di agire estremamente propositivo, positivo e rivoluzionario, ma invece mi trovo ad assistere ad un disperdersi di questo processo, oltre che ad un suo rallentarsi, oltre che ad un suo rendersi sempre più raro. 

Ed un'altra volta il tutto si è palesato con la totale incoerenza che ci è stata nel reagire prima alla morte dei compagni di Charlie Hebdo e poi alla liberazione delle due volontarie che erano state rapite in Siria. In pochi si scandalizzano nello scoprire che Charlie Hebdo ha visto centuplicarsi il numero di abbonati dopo l'attentato subito, in tanti si scandalizzano nello scoprire che sono stati pagati 12 milioni di dollari come riscatto per le due ragazze. E mi chiedo come possano coesistere queste due reazioni nello stesso individuo. "Ecco, con quei 12 milioni ora i terroristi potranno comprare nuove armi", "Chi ha chiesto loro di andare in Siria? Sapevano i rischi che correvano", "Ma poi siamo sicuri che non fossero collaborazioniste anziché volontarie andate là per aiutare i profughi?". Sticazzi, gente! Sticazzi! O meglio, io posso accettare questi discorsi da chi prende posto dall'altra parte della barricata, ma da voi proprio no. Anche perché non più di qualche anno fa piangevate Arrigoni, ucciso in Palestina dagli Israeliani mentre, anche lui, si prodigava nell'assistere i più deboli, quelli in difficoltà, quelli che erano rimasti senza nulla, che fossero arabi od ebrei. A lui chi l'ha fatto fare? Lui non era consapevole dei rischi che avrebbe potuto correre? E fosse stato rapito, cosa avreste detto? Come allo stesso tempo mi chiedo: se queste due ragazze fossero state uccise ci scommetto le palle che le avreste piante, dicendo: "Ecco, lo Stato non ha fatto nulla per aiutarle". Ragazzi, veramente, curatevi, fate pace con il vostro cervello, aspettate un attimo a scrivere o parlare, ragionate su come avete agito in situazioni analoghe, perché altrimenti si mette veramente male. Per voi, per noi, per le nostre idee. Perché nella vostra incoerenza si manifesta la mancanza di credibilità, ed a quel punto c'è poco da stupirsi se la gente vota Cinque Stelle o PD. Ed onestamente, alla luce di certi discorsi che fate, io come posso fidarmi quando dite: "I partigiani sono stati degli eroi"... perché seguendo un ragionamento logico, anche a loro nessuno ha chiesto di armarsi contro il nazi-fascismo e liberare l'Italia. Come non è stato chiesto a Che Guevara di fare rivoluzioni in mezzo mondo, come non è stato chiesto ai bolscevichi di dar vita alla Rivoluzione d'Ottobre. 

Siete incoerenti, oltre ad essere dei politicanti da tastiera, dei radical chic che "Sìsì, facciamo la rivoluzione, ma vediamo di non sporcarci le mani", perché per l'appunto, se ragionate così, nel momento in cui vi troverete con le mani sporche vi chiederete "Ma chi me l'ha fatto fare?" e ve ne tornerete a casa, vi laverete biblicamente le mani e pace, potrete sempre giustificarlo come un errore di gioventù. 
Però davvero, così non andiamo da nessuna parte. E non sorprendetevi se continuiamo, dopo essere stato il Paese occidentale con il più grande partito comunista a non avere un punto di riferimento unitario che sia in grado, anche solo lontanamente, di riempire quel vuoto lasciato dai grandi padri di nome Gramsci, Togliatti e Berlinguer. Perché in molti, probabilmente, se ne vedranno bene prima di raccogliere questa patata bollente rappresentata dalla vostra estrema confusione, dal vostro estremo lasciarvi traviare, dalla vostra inestimabile incoerenza.

Voi, voi siete quelli del "Prendiamo tempo e non vediamo l'ora". Ma l'ora davvero non la vedete, e quella formula sta perdendo ogni suo significato più profondo, la state facendo valere per quello che grammaticalmente è. E non credo di meritarmelo, non credo se lo meritino i giovani compagni che si stanno avvicinando alla vita politica, non credo se lo meritino le idee che vogliamo rappresentare... e non credo che nemmeno voi ve lo meritiate. Però ora è tempo di aprire gli occhi, le orecchie e la bocca, e farlo consapevolmente, quotidianamente, in ogni gesto, in ogni tipo di relazione che instaurate, in ogni momento delle vostre giornate. E soprattutto con coerenza, e soprattutto non confondendo le idee con i vostri istinti. 

Poi fate come volete. Ma sono stanco di sentire lamenti inutili. La possibilità di prendere ciò che stiamo desiderando c'è, perciò allunghiamo la mano e facciamo nostro l'oggetto del desiderio, senza rifugiarci nei famosi "Vorrei ma non posso". Queste cose lasciamole a chi vuol soltanto sopravvivere.


Ed a proposito del "Prendere tempo e non vedere l'ora", voglio postare questa canzone che contiene il verso da me riportato, scritta da chi è sempre stato coerente, fedele alla linea. E dedicata a chi è come loro, ma che ora non c'è più 


Stefano Tortelli

mercoledì 7 gennaio 2015

I Gang: rispolverando gli ideali e le radici del Rock n' Roll

Sandro e Marino Severini: l'anima dei Gang


La condizione del popolo italiano è alquanto paradossale, se ci si ferma un attimo a pensarci. Ci ritroviamo con un patrimonio culturale immenso, abbiamo avuto eccelsi pensatori, grandi statisti, tanti personaggi degni di essere chiamati eroi, con tutti i requisiti necessari per entrare a far parte di un personale Pantheon che, come tutto ciò che parte da una presa di posizione individuale, può allargarsi ad un intera comunità, fino ad esser proprio di un'intera Nazione. Ma, nel bene e nel male, rivolgiamo il nostro sguardo al di là delle Alpi, sulle altre sponde del Mediterraneo, rifugiandoci nell'Estremo Occidente o nell'Estremo Oriente. E chissà, forse collocare gli esempi da seguire, i miti da elogiare e le speranze lontane dai nostri occhi fa sì che si abbia sempre la scusa buona per non comportarsi in modo tale. "Sai com'è, là funziona in modo diverso"; "Qui non ci sono i presupposti per agire in quel modo, anche se sarebbe bello"; quante volte ho sentito dire queste cose, quante persone si nascondono dietro scuse simili per non provarci, manifestando però anche un'incapacità di importare, interiorizzandoli, questi loro meravigliosi stereotipi. Dall'Estero, a conti fatti, quel che meglio abbiamo saputo interiorizzare, importare e riproporre, è solo il peggio: il capitalismo americano, la corruzione nelle alte sfere politiche e societarie, il nepotismo, il razzismo. E sul razzismo mi viene da sorridere sempre, perché è in assoluto ciò che più affossa e massacra le radici del grande popolo che siamo (o eravamo): siamo tutti dei bastardi, biologicamente parlando, abbiamo il sangue più ricco di miscugli a livello mondiale grazie all'espansione dell'Impero Romano, alla centralità che ha avuto Roma durante il Medio Evo, al mecenatismo italiano che non aveva eguali durante il Rinascimento. Ed antropologicamente parlando l'esogamia, l'arricchire il sangue della propria terra con quello di mondi lontani è la via migliore per l'evoluzione, per il dar vita ad una specie più forte, più resistente, più intelligente. Tant'è che gli italiani, insieme ai greci, sono tra i più dotati fisicamente ed intellettualmente a livello europeo. Certo, che poi non si esprimano è un'altra questione, riconducibile all'importazione del peggio dall'estero. 
Ma per non tergiversare troppo, per non discostarmi eccessivamente da ciò che voglio qui esporre (sebbene la premessa sia totalmente inerente, ed allo stesso tempo estremamente dilatabile, ma mi fermo qui, altrimenti finisce il disco), non è assolutamente necessario rivolgersi all'Estero per trovare un gruppo che sappia fondere il rock a testi politicamente e socialmente impegnati, intrisi di nobili ideali e della voglia di lottare, di cambiare il mondo, anche grazie ad una chitarra ed una voce graffiante. Che poi il rock non era questo, agli albori? Il rock n' roll fu il primo negli Stati Uniti ad avvicinare, ad unire i neri ad i bianchi: sonorità proprie sia degli afroamericani sia degli anglosassoni si incontrarono in una cantina, su un pentagramma appena abbozzato, per dar vita a quello che è senza dubbio il genere musicale che più ha contraddistinto la seconda metà del XX secolo. E su quell'amalgama, che già di per sé era una sfida all'ordine costituito, venivano cantati testi di ribellione, di emancipazione, di riscossa, di protesta. 
I Gang, fin troppo in sordina per quello che è il loro reale valore, stanno facendo tutto ciò da più di trent'anni, cantandoci l'Italia che resiste alle oppressioni, ai soprusi, alle malefatte della politica e degli interessi economici che sempre più vanno a braccetto, narrandoci le storie dei partigiani caduti sotto i colpi dei nazi-fascisti per darci la possibilità di esprimerci, di scrivere, di amare, di respirare, di pensare. Ed a differenza della maggior parte degli artisti italiani che hanno scelto di far cavalcare la musica da parole rivoluzionarie, loro non si sono affidati esclusivamente all'acustico, al folk, al cantautorato. Loro hanno legato a doppio filo i loro gridi di lotta al distorcersi di chitarre elettriche, a batterie martellanti, a bassi incalzanti, importando, interiorizzando, riproponendo nella nostra Penisola gli insegnamenti dei vari Jimi Hendrix, Rolling Stones, The Who, passando per i Clash ed i Sex Pistols, fino ad arrivare ai loro contemporanei ed omologhi americani Pearl Jam e Bruce Springsteen. 
E sì, forse sono stati esterofili, anche loro hanno avuto i loro miti al di là dei nostri confini... ma nel loro riportare a casa gli esempi provenienti da terre lontane hanno deciso di appropriarsene, di ripercorrere i passi dei loro Dei musicali, dando così all'Italia un qualcosa di nuovo, di ancora mai proposto, perché evidentemente nel tragitto tra l'estero e la nostra terra la voglia di ricreare qui ciò che di stupendo si è trovato all'estero è morta durante il viaggio di rientro, annegando in mare o sbattendo la testa contro le montagne. 
Ed i Gang, probabilmente senza volerlo, sono diventati esempio per molti altri artisti in questi trent'anni di loro agire, di loro cantare, di loro suonare, di loro vivere, di loro essere. Dai Modena City Ramblers ai Del Sangre, dalla Bandabardò ai Vad Vuc, tutti si sono passati i dischi dei Gang nelle orecchie, sono stati ai loro concerti, hanno respirato la loro aria. Ed hanno deciso di contribuire a farla soffiare, a darle più forza, a darle continua linfa vitale.
E devo tanto anche io ai Gang, alla loro energia, alla loro intensità, ad alla loro voglia di non fermarsi mai. 
Grazie ragazzi, restiamo tutti vivi, restiamo tutti svegli. E continuiamo sulla nostra strada. Consapevoli delle nostre radici ed armati di ali rosse e melodiose.


Stefano Tortelli