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mercoledì 6 aprile 2016

Venticinque aprile senza stelle in Val Chisone




Leggo sul numero odierno de L'Eco del Chisone che in tutta la Val Chisone non c'è stato un comune che abbia dato la propria disponibilità per ospitare la fiaccolata del 25 aprile, organizzata ogni anno dall'Anpi territoriale.

Ora, non so come siano orientate politicamente le giunte di codesti comuni, né credo che, ora come ora, faccia poi tanta differenza (visti gli attacchi nei confronti dell'Anpi sulle colonne dell'Unità, roba che Antonio Gramsci si starà non solo rivoltando nella tomba, ma peggio), ma il fatto che la gente di quella valle, popolata principalmente da persone anziane, non senta l'esigenza di dire: "Beh, ma per il 25 aprile qui nessuno organizza niente?" mi lascia alquanto perplesso, oltre che farmi piuttosto incazzare.

Tra l'altro potrei capire una cosa del genere in quelle zone dove la Resistenza, intesa come lotta di liberazione armata da parte dei partigiani, è un elemento che non ha caratterizzato il post 8 settembre, ma qui, in Piemonte, sulle nostre montagne, a pochi chilometri da Torino, mi sembra non solo un'assurdità ma un'enorme bestemmia: una bestemmia nei confronti di chi per la liberazione dell'Italia ha versato sangue, una bestemmia nei confronti di chi in quelle valli era sfollato durante la guerra, una bestemmia nei confronti di chi ha dovuto assistere ai crimini nazifascisti, una bestemmia nei confronti della nostra Nazione, nei confronti dell'Italia.

La storia della Resistenza italiana è uno dei capitoli più romantici dell'epica italiana, è quella più ricca di eroi, di atti meravigliosi, di schiene spezzate ma mai piegate. La Resistenza italiana è il punto più alto toccato dall'umanità tricolore nel '900...

...ma appunto è una storia, in Italia non si legge più, non ci si parla più, non si ricorda più...

Centoquarantanove sono i figli della Val Chisone che sono morti in venti mesi di combattimenti... centoquarantanove fiamme ardenti che non troveranno posto sulle strade che hanno pattugliato, liberato e poi difeso, centoquarantanove luci che non illumineranno i boschi delle montagne circostanti, gli stessi boschi che li hanno ospitati e nascosti quando erano in vita... centoquarantanove stelle che l'oscurantismo ed il revisionismo stanno offuscando sempre più, rendendo impossibile la loro naturale missione: mostrare ed insegnare a noi la strada da seguire e perseguire.

Ed intanto le acque si fanno sempre più agitate, ed in questo mare, in questa notte senza stelle, navigare, per noi, sarà sempre più difficile.




Stefano Tortelli

lunedì 27 aprile 2015

Antonio Gramsci, "Nino".

Antonio Gramsci. Filosofo, linguista, letterato, giornalista. E Comunista.




"Basta pensare al Partito Comunista. Basta con i pugni chiusi, la falce ed il martello. Basta con i vecchi slogan. Basta rimpiangere le lotte operaie e studentesche. Basta, perché fintanto che non si ritrova il coraggio di dire con fierezza Sì, sono comunista, ripartendo dal padre del comunismo in Italia e dei suoi insegnamenti, tutto questo resta solo puro folklore". Queste sono le parole che Marino Severini ha usato a Torino, in occasione del concerto dei Gang di inizio marzo, per introdurre uno dei brani che compongono il nuovo album Sangue e cenere. Si intitola Nino questa canzone, dedicata ad Antonio Gramsci, ed è una specie di confidenza, di un dialogo a senso unico, pregno di rabbia, di domande, ma che contiene anche una promessa, una dichiarazione di amore: per Nino, per i suoi insegnamenti, per le caratteristiche peculiari dell'essere comunista, del sentirsi comunista. 

Perché sfortunatamente dopo settant'anni di politica anti-comunista e filo-occidentale in Italia il concetto di comunismo è stato devastato da luoghi comuni, stereotipi, promossi prima dalla DC, poi dai filo-americani, passando per Berlusconi ed arrivando a Renzi. Perché ammetto che quando a fine luglio si concretizzò la chiusura del giornale L'Unità, fondato dallo stesso Gramsci, sottovalutai la portata di quel gesto, ed anzi pensai: "Beh, in questo modo finalmente si smetterà di infangare un giornale che è stato la colonna portante del comunismo fino almeno ai primi anni '90". Ma poi, negli ultimi mesi, ho rivalutato la mia posizione, e mi sono reso conto di come la fine de L'Unità fosse l'ennesimo segnale di come, anziché tentare di riprendere in mano una tradizione meravigliosa, ricca di cultura, di lotte, di ideali, si volesse andare in tutt'altra direzione. Del resto da allora Renzi si è manifestato per quel che è, ovvero in tutto e per tutto un altro democristiano prestato alla politica di oggi che si comporta come quello che, teoricamente, era il suo primo antagonista, fino a riabilitarlo, fino, addirittura, a farlo quasi rimpiangere. Se questo è il futuro che ci aspetta, visto che il presente già di per sé non è roseo, siamo veramente messi malissimo. 

C'era invece chi, originario della Sardegna ma trapiantato in Piemonte, aveva, cent'anni fa, teorizzato "La città futura", reso contemporaneo Marx, sottolineando come sì, la lotta operaia e contadina sono importanti, ma che queste per affermarsi al meglio dovevano appoggiarsi alla cultura, alla storia, agli studi. Ed è proprio questa la peculiarità di Gramsci: lui non parlava di classe operaia, non parlava di contadini, per lui esistevano solo gli sfruttati e gli sfruttatori, e vedeva nella cultura, nello studio, nella conoscenza delle proprie radici e delle proprie storie la base per rendere infallibile una rivoluzione, un'evoluzione, un miglioramento per tutti a scapito di pochi. Gramsci aveva anticipato di 40 anni le considerazioni fatte da Fromm e Chomsky in alcuni loro testi. Tutto questo perché Gramsci, prima di essere un filosofo, un linguista, un critico letterario, uno scrittore, era una persona che aveva un'immensa cultura, una grande conoscenza. Cultura e conoscenza che voleva mettere al servizio del popolo, aggiungendoci però qualcosa di suo: le sue teorie, le sue idee, i suoi ideali. E per un certo periodo riuscì a fare tutto questo: nel 1921, il giorno prima del suo compleanno, fu tra i principali promotori della nascita del Partito Comunista, nel 1926 fu tra i più duri contestatori di Mussolini e del fascismo.. Nel '27 venne incarcerato per le sue idee, per la sua strenua resistenza, per la sua incorruttibilità. Una volta in carcere avrebbe potuto rinnegare le sue idee, avrebbe potuto decidere di porre fine alla sua sofferenza voltando le spalle al comunismo, ai simboli: bastava che abiurasse, come fece Galileo Galilei. Ma lui era un Giordano Bruno, e come lui stesso ebbe a scrivere si rese co-responsabile della sua morte, della sua condanna. Era consapevole, Nino, di essere uno, ma era anche consapevole che stava diventando un simbolo vivente dell'ideale comunista, e che un crimine ancora peggiore della sua ingiusta detenzione era il rinnegare tutto per la sua individuale libertà.

Nino scelse, e scelse di donare la speranza della libertà universale anziché condannare il resto del mondo ma salvare se stesso. Parteggiò e non patteggiò, e nemmeno smise di combattere, continuando a riempire quaderni con i suoi appunti, prima dal carcere e poi dalla clinica nel quale venne ricoverato per l'inesorabile peggioramento delle sue condizioni di salute. Morì, nel '37, ma come tutte le morti dei grandi eroi non fu vana. Perché fino all'ultimo seppe dare una direzione, seppe indicare la via, seppe guidare chi silenziosamente si sentiva comunista verso la Rossa Primavera, che cominciò a manifestarsi in tutto il suo splendore dopo l'Armistizio. 

Però Nino è poco ricordato, quasi mai insegnato, se non all'università, ma anche nel mondo accademico lo si incontra negli insegnamenti "di settore", e facilmente lo si ritrova nei testi riguardanti la linguistica, e specialmente la dialettologia, piuttosto che in quelli di filosofia o di storia contemporanea. E probabilmente anche in questo si denota l'influenza catto-capitalista che hanno caratterizzato la storia italiana dal dopoguerra ad oggi. Di Gramsci si parla poco, ed è quindi inevitabile ritrovarsi circondati da persone che non sanno il significato del 25 aprile, di altre che vedono in tutti i partigiani dei banditi, di altre ancora per le quali i comunisti erano mangia-bambini e ladri di terreni. Perché ovviamente per un certo tipo di propaganda era più comodo mostrare quel che è stato il comunismo nell'Est Europa, dove le vergogne verificatesi in nome di un ideale sono state strumentalizzate al massimo, senza spiegare il perché, senza dire a cosa erano dovute. Una vergogna è sempre una vergogna, sia chiaro, ma la vergogna va raccontata dall'inizio alla fine e non soltanto nel momento della sua manifestazione. E la vera vergogna resta l'ignoranza, o meglio l'indifferenza, di fronte a Gramsci, di fronte a Matteotti, di fronte a Turati, di fronte a tutti i partigiani caduti per la libertà, di fronte alla naturale evoluzione del fascismo, ovvero il capitalismo. 

Ma queste sono storie che non si può cercare su alcun libro, queste sono storie che bisogna imparare analizzando la storia, studiando, informandosi. Per non commettere l'errore di grandi compagni che hanno voluto rendere settoriale, dimenticandosi di Gramsci, le varie lotte, finendo ovviamente per perderle il giorno dopo averle vinte. Del resto, questo è il sistema capitalistico ed utilitaristico: nel momento in cui si ottiene lo scopo per cui ci si è uniti è inutile rimanere un corpo unico, a quel punto meglio prendere strade differenti, che non si sa mai che il mio contributo ad una lotta che non sento mia possa recarmi qualche danno. 

Mi dispiace Nino, ed anche io voglio chiederti scusa in nome di chi presto ti ha dimenticato, di chi una volta raggiunto il suo scopo, servendosi dell'ideale, l'ha abbandonato, "gettando la bandiera in un fosso". Ed anche io, Nino, voglio darti la mia parola. Perché io non ti dimentico, ed anzi sempre più approfondirò la conoscenza delle tue opere, di chi in qualche modo si è ispirato a te, di chi continua a portare avanti le tue istanze.

Ma oggi Nino ti do la mia parola,
quella di chi nel pane ci mette tutto il sole,
quella che canta con la città futura,
e corre fino al vento,
oltre le sbarre, oltre i cancelli, oltre queste mura.

Comunista è chi ferma la mano che alza il bastone,
comunista è la terra che c'è oltre ogni nazione,
comunista non è che un sentimento, è Rivoluzione
comunista ora e sempre per l'unità..
Comunista... Comunista... 





Stefano Tortelli

martedì 24 febbraio 2015

I collezionisti di occasioni perse - L'inutile contestazione a Tsipras






Non mi considero un inguaribile ottimista. Tutt'al più sono un sognatore, uno che ci spera fino all'ultimo, uno che se può fare qualcosa lo fa, e se non può farlo fa in modo di poterlo fare. Ed inoltre mi è stato insegnato che è importante ammirare chi intraprende un cammino, chi tenta di migliorare lo stato attuale delle cose, chi ci mette ogni energia per far sì che qualcosa di nuovo si realizzi. La Grecia non diventerà la nuova Cuba, non nel giro di tre mesi, non nel giro di un anno. 

In Italia i pseudo-compagni vanno farneticando, tacciando di indole borghese Syriza, considerandola un prodotto del capitalismo, pretendendo di sentire riecheggiare l'Internazionale dagli altoparlanti di ogni dispositivo audio-trasmittente della penisola ellenica. Cavoli, bastasse essere di sinistra e vincere un'elezione per realizzare tutto questo datemi un partito che andiamo a conquistare la rossa primavera. Stiamo rasentando l'assurdo, siamo già nel ridicolo. Ed oltre tutto non ci assumiamo le nostre colpe, che sono enormi, e che in gran parte risiedono in quel gruppo dirigenziale fantoccio che è venuto a crearsi nei vari partiti che si AUTOdefiniscono comunisti. Già definirsi comunisti è una bella pretesa: non è mica come dire "Ciao, io sono Stefano e sono italiano"; comunista è un'etichetta che dovrebbe venirci data, e che sia un nemico od un amico ad affibbiarcela poco importa, l'importante è aver fatto qualcosa che agli occhi altrui ci rende tali. Una volta successo allora sì che ci si può definire comunisti o socialisti. Per me il partito di Tsipras è una buona via per raggiungere il comunismo in un mondo totalmente capitalista. Perché la Russia non è più anti-capitalista da cinquant'anni, semplicemente ha adattato il capitalismo all'ideale comunista, e la stessa cosa vale per la Cina. per cui di modelli a cui ispirarsi e che siano attuali non ce ne sono. Bisogna procedere per tentoni, per tappe, per compromessi. Vogliamo distruggere il capitalismo? Non possiamo: o facciamo una rivoluzione armata o non possiamo. Non ci sono riusciti i cubani ed i sovietici senza un tributo di sangue e con la gente che stava morendo di fame, vogliamo credere di poterlo fare noi senza imbracciare le armi in una realtà dove, comunque, le pance sono piene? Il capitalismo non va distrutto, va superato. Del resto Il capitale di Marx non parla di distruzione del capitalismo, parla del suo superamento, del suo annientamento in quanto desueto, in quanto fallito, in quanto incapace di auto-alimentarsi. Ma occhio, il marxismo ora come ora è inapplicabile: i proletari non esistono più, o meglio, i proletari di oggi sono i borghesi di ieri. Chi fa figli se non i ricchi!? E proletario non significa "colui che ha prole"? Quindi basta parlare di proletariato. E la classe operaia? Dov'è la classe operaia? Chi è ancora che lavora in fabbrica, e soprattutto quanti ancora, di quelli che lavorano in fabbrica, votano in modo differente dai propri padroni? Se dove lavorava fino a un paio di anni fa mio padre la maggior parte dei suoi colleghi votavano l'asse Lega-PDL qualcosa non funziona, o sbaglio? 

Studiando per un esame mi è capitata sott'occhio una ricerca condotta negli anni '50 in Inghilterra presso alcune fabbriche di uno dei più importanti centri siderurgici della Gran Bretagna, la quale metteva in luce come, una volta conquistati certi diritti, migliori condizioni di vita e determinate sicurezze, l'operaio cambiava la sua linea politica, allineandosi a quella del datore di lavoro. Ne è la prova il fatto che, se dopo la seconda guerra mondiale a vincere le elezioni furono i laburisti, nel giro di pochi anni, nonostante avessero rispettato il loro programma elettorale, al potere tornarono i conservatori. In Italia questo processo è stato fortunatamente più lento, ma forse è solo perché in Italia certe conquiste sono state più difficoltose, hanno richiesto più tempo, e per cui l'esigenza di un partito comunista si è sentita per trent'anni anziché per soli dieci. Questa è una delle tante mancanze storiche, una delle tante ignoranze dei "comunisti" di oggi. La fondazione del PCI non è stata concepita in una notte, la Rivoluzione russa non è avvenuta dall'oggi al domani, come non è stata una questione da poco il processo che ha portato al trionfo di Fidel Castro e di Che Guevara a Cuba. Questi signori invece vogliono tutto e subito, mostrando così quanto su di loro ha attecchito il lato più profondo del capitalismo. L'assurdo poi è che blaterano di voler rifondare il PCI quando loro sono stati tra i principali assassini del nostro partito comunista, e sebbene in modo subdolo ne rivendicano l'uccisione: insultando Berlinguer, massacrandone il ricordo, spargendo immondizia sulla tomba del più grande statista italiano. Ma stiamo scherzando!? 

Enrico, perdonali tu, perché io non ci riesco. A guidare il pensiero comunista dovrebbe esserci una persona come te, uno che anziché snocciolare soltanto numeri e teorie sapeva anche parlava alla gente, arrivare al cuore delle persone, farsi voler bene. E soprattutto tu non ti rifugiavi nelle tue stanze, non ti mostravi avulso dalla realtà del tuo tempo, ma soprattutto estraneo alla gente. Majakovskj sosteneva che per essere un buon politico bisognava essere in grado di calarsi nella realtà, nella contemporaneità, conoscendone così le problematiche e potendo così escogitare soluzioni applicabili alla natura del contesto. Berlinguer è stato capace di farlo, e l'ha fatto due volte, prima portando avanti le istanze di quella che non era la sua classe d'origine, e poi modificando gli obiettivi del partito in base ai mutamenti della società. Ora invece i nostri politici pensano di essere ancora nel 1800, o tutt'al più ai tempi della Rivoluzione d'Ottobre. 

Mentre stavo andando ad insegnare stavo pensando a tutto questo ed a come la filosofia si sia evoluta in tremila anni. Da Anassimene a Marx il passo è breve, ed ha una sua logica, mostra un'evoluzione che se non è paragonabile a quella di un entità biologica poco ci manca. Il problema sono questi ultimi 200 anni e quest'assenza di una nuova filosofia, o meglio di esponenti a cui si da credito, per affrontare gli attuali problemi e sostenere con la teoria una pratica socialista realizzabile ora. Ci son stati Gramsci, Lorenz, Fromm, ma tutto sommato non se li caga nessuno... chissà perché... forse sono considerati impuri.

Spiace, ma io negli attuali comunisti puristi ci vedo dei reazionari, che non si rendono conto di vedere come Tsipras possa essere il preludio per un nuovo socialismo (caso strano Tsipras ha messo in moto quel che più si può considerare erede dell'Internazionale Socialista, ovvero la sua Altra Europa), perdendo così, di fatto, l'ennesima occasione di scendere dai loro piedistalli. Siete statue di sale, siete castelli di sabbia... e non per niente non entrerete mai in parlamento. Sale e sabbia sono inorganici, di conseguenza incapaci di provare e far provare emozioni. La politica di sinistra dovrebbe essere la politica delle emozioni, non la politica dei numeri. I numeri, almeno quelli, lasciateli al capitalismo. 

Non avrei mai dovuto scrivere queste righe, soprattutto alla luce del fatto che spesso mi trovo a dover difendere le mie posizioni politica, considerate spesso anacronistiche. Non sono le mie posizioni ad essere anacronistiche, sono gli esponenti principali che son rimasti nel Medioevo del pensiero comunista. Il comunismo può farcela, è molto malato, ma lo possiamo salvare. Forse dovremo dialogare con i nostri nemici, forse dovremo scendere a compromessi, ma intanto guadagneremo terreno, intanto porteremo sempre più avanti la linea di confine, sposteremo più ad "est" le nostre trincee e le nostre barricate. Berlinguer ha avuto successo perché innanzitutto sapeva dialogare, e soprattutto perché si metteva in gioco, faceva qualcosa. Ha sbagliato a volte, ma solo chi non fa non sbaglia mai. 

Non voglio pensare che la sua morte sia la morte dei miei ideali, altrimenti io qui che ci sto a fare!? Ai suoi funerali c'erano tre milioni di persone... stiamo parlando di poco più di trent'anni fa. Era un uomo, era mortale, come lo siamo noi. Vogliamo ricordarlo davvero!? Allora viviamo come lui, agiamo come lui. E lasciamo agli altri il lusso di poter sputare su di noi e sulle tombe dei nostri padri, non hanno bisogno del nostro aiuto.

Scusa Enrico se ti ho coinvolto così tanto, probabilmente sei schifato più di me al momento, ma voglio pensare che anche tu stia sperando nel vedere un giovane compagno provarci sull'altra sponda dell'Adriatico.




Stefano Tortelli