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domenica 22 febbraio 2015

Stigmatizzazione a priori & santificazione a posteriori - Breve storia della xenofobia

Statua in ricordo di Giordano Bruno




Razzismo, omofobia e odi religiosi, nonostante le tesi degli attuali politici, non sono i mali del XXI secolo. Hanno radici ben più profonde, probabilmente insite nella natura umana, che mutano nel corso dei secoli, assumendo diverse forme e diverse manifestazioni, e sono presenti a livello universale. Sarebbe oltre tutto un errore madornale legare a doppio filo questi mali all'ignoranza, perché se si può anche accettare come dato di fatto una stretta correlazione tra alcune forme di odio per il diverso e l'ignoranza e l'ottusità, è altresì vero che non tutte le xenofobie germogliano negli aridi campi della mancanza di cultura e di intelligenza. Ne sono esempi le rivoluzioni scientifiche, ovvero i passaggi da un paradigma scientifico ad un altro da parte della comunità intellettuale. Un passaggio tutt'altro che indolore, che vede come primi promotori esponenti che hanno conosciuto molte gogne prima di poter essere riconosciuti come luminari. Galileo, Copernico, Darwin, Tesla, Einstein, Von Daniken, tutti perseguitati, tutti considerai matti, tutti osteggiati. E non dagli ignoranti, ma da persone intelligenti quanto loro. Come spiegare ciò?

Come scritto in precedenza la xenofobia è un qualcosa di riscontrabile a livello globale, a qualsiasi latitudine, ma soprattutto in tantissime differenti forme. Fanno scalpore l'omicidio, il genocidio, la ghettizzazione, la segregazione, ma pensare che dietro a questi non vi sia un processo che è passato per diverse tappe, collocabili in un arco di tempo più o meno ampio, sarebbe estremamente riduttivo e pressapochista. Forse l'unico razzismo che è nato da un giorno all'altro è quello che ha visto come carnefici i coloni europei in America e come vittime i deportati dall'Africa, diventati merce da vendere ai proprietari terrieri, ai padroni delle miniere, agli impresari edili. Un uomo diventa merce, un altro uomo paga un altro uomo ancora per avere l'uomo-merce. E già questo particolare processo rende il razzismo in America, ed in particolare negli Stati Uniti, un caso limite, che merita delle analisi specifiche, e che in certi sensi rappresenta l'eccezione che conferma la regola. Perché gli Ebrei durante il nazi-fascismo non sono stati perseguitati da un momento all'altro, e la loro persecuzione non si può ricondurre esclusivamente all'ideologia hitleriana; perché la persecuzione nei confronti dei cosiddetti "eretici" non è stato un fenomeno estemporaneo, e prima del suo intensificarsi ha avuto una storia lunghissima, che ha coinvolto l'Europa intera, le coste settentrionali dell'Africa, il Medio Oriente. 

Ed anche certe religioni, certe credenze, certe superstizioni sono figlie di processi di lungo corso: l'uccisione degli albini in Africa, le condanne religiose nei confronti dei sodomiti, l'aberrazione delle malattie psichiche e delle deformità. Fino ad arrivare alla persecuzione di qualcosa che non è riscontrabile a livello esteriore o nei comportamenti, ma nel modo di pensare, di parlare, di ragionare: le persecuzioni politiche, che tanto hanno animato il Novecento, hanno radici antichissime e che, se ancora oggi sono in grado di alimentare odi ideologici è perché sono sempre state in grado di attecchire in un terreno estremamente fertile. E quale altro terreno può essere, questo, se non la natura umana? 

Quanti personaggi storici e religiosi sono stati uccisi perché diversi, perché fuori dagli schemi? Gesù era diverso, Giulio Cesare era diverso, i santi erano diversi, Martin Luther King era diverso, John Lennon era diverso. Con il passare dei decenni o dei secoli ci si è poi ritrovati a chiedere scusa ed a sostenere che tutti questi diversi erano nel giusto mentre i normali erano nel torto, e probabilmente questo processo si perpetuerà ancora per molti anni a venire, proprio perché ben insito nel nostro inconscio. Perseguitati da vivi, incensati da morti, fino ad elevarli a divinità, a miti, a leggende. E, paradossalmente, in alcuni casi oltre al danno c'è la beffa: gli osteggiati in vita, osannati da morti, a volte si ritrovano a loro malgrado ad essere il feticcio da venerare e da difendere da nuovi diversi che portano avanti un nuovo modo di pensare, di vivere, di fare scienza. E così ogni teoria che va contro l'evoluzionismo ed il creazionismo viene osteggiata, ogni corrente di pensiero che va contro il Cristianesimo è il Male. Del resto anche il rock n' roll si è provato ad ucciderlo nella culla, ed ironia della sorte è stato ammazzato in seguito dai suoi seguaci, perché ormai si era trasformato, era diventato altro. A livello macrosociale tutto ciò è ben visibile, ma la xenofobia è riscontrabile anche nei rapporti interpersonali di ogni singolo individuo. Andare oltre, andare avanti, evolversi è ciò che più spaventa ogni uomo e donna, ed è molto più facile prendere le distanze da chi è differente e nuovo e che in sé incarna il futuro anziché rimanere in un contesto che si considera amico solo perché conosciuto, ma che in verità soffoca ogni propria aspirazione al migliorarsi. 

Ci vorranno decenni prima che vengano pre-datati eventi significativi nell'evoluzione e nell'espressione dell'uomo (la costruzione delle piramidi, la comparsa dell'uomo in America), ci vorranno decenni prima che si possa considerare possibile la nostra provenienza extra-terrestre, ed anche quando queste ipotesi verranno accettate andando a creare un nuovo paradigma scientifico, assisteremo allo stesso processo che si verifica puntualmente da migliaia di anni: quand'anche ci saranno prove che potrebbero modificare il prossimo paradigma, si assisterà nuovamente ad una persecuzione, ad un osteggiamento, ad un rigetto. 

E' umano, a quanto pare, odiare il diverso, averne paura. Ma sono umane anche le diversità nel colore della pelle, nell'orientamento sessuale, nel modo di concepire il trascendentale, nel pensiero, nella scienza, nel gusto artistico. Sembra però che sia più facile rinunciare a queste ultime peculiarità dell'essere umano anziché alla xenofobia. Forse perché, sotto sotto, molti considerano il diverso superiore e non inferiore a loro, e quindi da combattere, da eliminare, da relegare, per poter continuare a perpetuare il loro essere inferiori. Inferiori, ma tranquillamente e disumanamente normali.

Preferisco di gran lunga le storie sbagliate, quelle che per la maggior parte delle persone sono senza senso, senza morale, senza pudore. Le preferisco, perché nella loro diversità c'è il loro essere speciali, c'è il loro essere policromatiche all'interno di un contesto grigio, c'è un barlume di futuro, di ignoto, che adorerei scoprire, adorerei esplorare. E forse è proprio questa la spiegazione delle parole del Cristo: "Gli ultimi  (perché diversi) saranno i primi"...





sabato 17 gennaio 2015

Red is the colour - L'arte della lotta, l'arte dell'amare

Nilde Iotti e Palmiro Togliatti: compagni di lotta, compagni di vita. 



Attenzione, allontanate dal computer i fascisti, distraete i capitalisti. Questo post ed il prossimo andranno a toccare tematiche a loro sconosciute poiché le temono più d'ogni altra cosa al mondo: i prossimi due post saranno a luci rosse! Rosse d'amore, rosse di passione, rosse di emozione, rosse di lotta. 

Avevo già parlato del Rosso colore, del suo ruolo fondamentale nella mia vita, sviscerandone ogni sua sfumatura, attribuendo ad ognuna di esse un particolare ruolo nella mia quotidianità. Voglio però ora soffermarmi sui due elementi portanti, che tanto possono sembrare lontani a prima vista ma che, con un piccolo sforzo, possono sovrascriversi, mischiarsi, unificarsi: il rosso dell'amore ed il rosso della politica. Lo so, sono quasi bitematico, ma leggendo dall'inizio questo blog è possibile capire, senza leggere questo post, quanto tutto sia strettamente correlato, fortemente interdipendente, estremamente destinato a dar vita ad un circolo virtuoso (se ben applicato, se alimentato da una coerenza di fondo). 

Più volte ho citato artisti come De André, Guccini, Finardi e Bertoli, ed anzi, ad ognuno di loro ho dedicato un intero post, sottolineando di tutti e quattro (e ciò vale per tanti altri artisti a me cari) la loro estrema intensità, la loro estrema passione, la loro irriducibile capacità di emozionare, che si parli di amore o di politica. Io sono un aspirante sociologo, oltre che, a detta di molti, un poliedrico artista (c'è chi mi ha dato del poeta maledetto, chi mi reputa un musicista/cantante, chi un abile parlatore, chi un inconsapevole profeta; a scanso di equivoci, ringrazio ed allo stesso tempo mi dissocio, limitandomi a dire che cerco di esprimermi al massimo delle mie possibilità, percorrendo le strade che meglio conosco per farlo), ed alla luce di ciò mi trovo a rimbalzare da una parte all'altra: sono sì il soggetto che cerca di analizzare, ma anche l'oggetto dell'analisi. Che poi, se ci penso un attimo, ogni cantautore, ogni poeta, ogni scrittore ha in sé l'arte della sociologia: per scrivere un componimento, soprattutto se analitico, bisogna avere le capacità di vedere ciò che attorno succede, e questo vale anche per un pittore che dipinge un quadro, tanto più se astratto, quindi bene o male questo doppio ruolo non è poi così assurdo. Da sociologo, in ogni caso, mi son ritrovato più volte a cercare di capire come possano coesistere l'intensità nel parlare d'amore e l'intensità nel parlare di lotta, di politica, di riscatto, proprie dei cantautori sopracitati, e che si può allargare anche a scrittori come Pasolini e Tondelli, a psicologi e sociologi come Lorenz (che, tra l'altro, è soprattutto conosciuto per essere stato premio Nobel per la medicina) e Fromm.

A dirla tutta una spiegazione totale non sono mai riuscito a trovarla, e forse è anche un bene così, ma credo che alla base di tutto ci sia sostanzialmente una forte passione, una forte capacità di emozionarsi, oltre ad un'enorme empatia, una inestimabile voglia di condivisione, di puntare al massimo, di esaltare la propria condizione, senza isolarsi ma, anzi, vivendo sempre più in mezzo alla gente, amandola e scrivendola, stimolandola e cantandola, respirandola e parlandoci assieme. Perché prima di tutto, prima di ogni specializzazione dovuta all'aver cavalcato i propri talenti e le proprie passioni, ognuno di loro è stato un individuo ricco di energia e di voglia di dare, prima che di ricevere, consapevole di quanto sia difficile mettere tutto ciò in pratica nel fare quotidiano in un mondo dove ci si chiude sempre di più in casa, ci si proibisce il confronto, ci si limita sicuramente le incazzature, ma per contro anche i grandi piaceri scemano. Ed allora l'unico modo era entrare nelle case: attraverso i libri, attraverso le radio, con teorie valide che finiscono sui giornali, con poesie da dedicare e da ricevere. Ed a questo punto diventa anche complicato capire cosa ci sia alla base e cosa sia venuto dopo: è nato prima lo spirito di lotta o quello dell'amore, espressi entrambi attraverso la propria arte? C'è chi come De André ha sottolineato come mai si sarebbe sognato di scrivere un album politico, commentando l'uscita di Storia di un impiegato... dimenticandosi però che tutto ciò che aveva pubblicato prima era politico allo stesso modo, da La buona novella a Non al denaro non all'amore né al cielo passando per Tutti morimmo a stento e canzoni come Carlo Martello o La ballata dell'eroe; Finardi ha cominciato come cantautore impegnato per poi scrivere canzoni d'amore meravigliose come Un uomo, Patrizia ed Amore diverso; Guccini ha sempre fatto convivere questi elementi, a partire da Folk Beat n.1, dove convivevano nello stesso album canzoni d'amore e canzoni di protesta; Bertoli addirittura si è trovato a scrivere una canzone intitolata Per te nella quale affermava come nel suo cantare di lotta cantava anche di amore, e di amore non in generale ma per la persona che amava. 

Quindi capire quale sia Adamo e quale sia Eva, tra il rosso dell'amore e il rosso della politica, è un gran casino. Certo è che se c'è uno dei due elementi prevaricante sull'altro, il secondo non è più debole, solo è nella penombra, pronto a colpire quando meno ce lo si aspetta. Ed è anche un po' il meccanismo che mi ha portato ad avvicinare ed ad avvicinarmi, ad innamorare ed ad innamorarmi, salvo poi trovarmi incapace di essere efficace in entrambe le sfere nel momento in cui quella dell'amore cominciava ad assomigliare ad un uovo, subendo le pressioni interne ed esterne alla coppia, alla Lei, all'Io di quel momento. 

Però di una cosa sono consapevole: so di aver lasciato un segno in ogni persona che con me è stata coprotagonista di una relazione, ma anche di un'amicizia, che ora è andata perduta, o che, soprattutto per quanto riguarda le relazioni, non si è mai potuta realmente vivere. Scrissi una canzone tempo fa che faceva leva soprattutto su questo: bisogna saper lasciare il segno sulla terra, incidere il proprio nome nel cuore di una persona, sopravvivere nelle memorie altrui. Tutto il resto conta poco, tutto il resto è un avere o un aver avuto. Ma l'aver lasciato, l'aver segnato, l'essere quindi stato, è lo scopo fondamentale di ogni esistenza. Ed è l'obiettivo primario della mia. 

A riassumere tutto questo voglio postare una canzone che sviscera con estrema semplicità, la quale viaggia a pari passo con l'intensità, questo mio lungo discorso: è un brano di Fausto Amodei, cantautore molto famoso in Piemonte che si è sempre schierato in prima linea durante le lotte operaie e studentesche degli anni '70 e che, ancora oggi, continua a lottare (cambiano i nemici, ma la necessità della lotta è sempre attuale)... allo stesso tempo ha saputo scrivere questa canzone d'amore meravigliosa. Una prova in più alla mia tesi, un'ulteriore conferma che l'amore è amare, ma anche lottare. Del resto il plurale di lottare è lottiamo, di resistere è resistiamo... anche l'italiano è dalla mia parte! 



Stefano Tortelli

domenica 28 dicembre 2014

Da Valle Re ai Campi Rossi




Quelle che andrò a raccontarvi sono due storie a me molto care, e tutto sommato è superfluo sottolinearlo, poiché non fosse così non scriverei a riguardo; ci sono tante cose che apparentemente o effettivamente sono superflue in senso assoluto, tante altre lo sono in senso relativo, e non è da me scrivere tanto per scrivere, parlando di ciò che non mi interessa, di ciò che non sento mio, di ciò che non mi rispecchia.
Oggi è l'anniversario dell'eccidio dei sette Fratelli Cervi: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore. Avevano dai 22 ai 42 anni la notte che vennero uccisi brutalmente settantuno anni fa. Erano contadini, lavoravano la terra con il padre Alcide a Gattatico, una località della campagna emiliana non tanto lontana da Reggio Emilia. L'Emilia Romagna ha dato i natali a grandi militanti politici di sinistra, e loro non erano da meno: ogni giorno avevano a che fare con i simboli dei loro ideali, la falce ed il martello, condividevano nella loro casa il pane, si riunivano attorno al focolare a raccontare storie, a ballare, a sorseggiare il vino che loro stessi producevano. Erano una famiglia come tante, ma ciò che a loro ha regalato l'immortalità nella storia dell'Italia anti-fascista è anche la croce che ne ha abbracciato gli ultimi respiri. Perché durante la seconda guerra mondiale, quando il partito cominciava a vacillare sotto i colpi delle penose sconfitte in campo militare, l'economia che di conseguenza era andata in crisi, la repressione da parte dei fascisti e dei tedeschi portarono ad un sempre più forte movimento di persone, ideali ed armi. E tutto ciò andava nascosto, questo movimento, per rimanere implacabile, doveva nascondersi, agire clandestinamente, con tanta attenzione quanta determinazione. E la casa dei Fratelli Cervi divenne così un nascondiglio per i partigiani, un punto di ristoro per le staffette, un'oasi sicura ma sempre all'erta nella quale esprimere liberamente le proprie idee, i propri sogni, le proprie speranze, da allargare all'intera Emilia, all'intera Italia. 
Ma dopo Natale, in seguito all'uccisione di un fascista in un paese limitrofo, il 28 dicembre fu eseguito l'ordine di fucilazione per rappresaglia dei Sette Fratelli Cervi, i figli della Pianura, dopo essere stati catturati un mese prima, tra il 24 ed il 25 novembre dopo uno scontro a fuoco avvenuto nella loro casa. Sette fratelli, una famiglia intera spazzata via dall'odio, dalla repressione, dalla più triste pagina della storia millenaria della nostra penisola. Sette figli di un padre che per ancora alcuni giorni si è trovato solo, rinchiuso in una prigione, senza sapere che il sangue del suo sangue era stato lavato via dal nero piombo fascista. Ma una volta fuggito di prigione dopo un bombardamento alleato, Alcide ancora ha portato avanti i suoi ideali, le sue battaglie, i suoi sogni. In suo nome ed in nome dei figli, fino all'età di 95 anni, quando si è spento con accanto i suoi nipoti e le sue nuore, ed altri 200.000 italiani ai suoi funerali. 

Settantuno anni fa cominciò questo primo racconto che ancora oggi andrebbe riportato nei libri di storia, nelle pagine dei giornali, per le vie delle città. E fortunatamente tutto ciò avviene, con scuole, piazze e strade a loro dedicati dal Nord al Sud Italia passando per la Sardegna. Ed io ho avuto l'onore di ascoltare la nipote di Alcide parlare a me ed ad altri giovani in quello che ora è il Museo Cervi, in quella che allora era la casa dei suoi zii. Respirare quell'aria fu assolutamente particolare, perché mi ricordava quella che è propria della mia casa: i campi rigogliosi del maggio padano, la brezza primaverile che se qui è figlia della Alpi lì è generata dagli Appennini, i grandi alberi ed il silenzio a circondare i muri di quella cascina di campagna. Ma in quell'aria c'era ben di più: c'erano i ricordi, c'era il sangue, ma c'era anche la speranza di un mondo migliore, il desiderio di uguaglianza, fratellanza, libertà, tutti sentimenti propri di ogni luogo se solo qualcuno in quel momento li sta portando avanti con tutto se stesso. E quel giorno, quel 19 maggio del 2007, eravamo in trenta a voler continuare questa lotta, ad indossare quelle famose scarpe rotte, a voler trasformare l'aria in vento. A voler far rivivere con noi Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore... ed Alcide.

Quella mattina vedemmo diversi cimeli nella Casa Museo Cervi: il trattore che comprarono dopo tanti sforzi per poter arare i campi, il mappamondo tanto caro ad Alcide, la simbolica rappresentazione di un albero genealogico sotto forma di quercia con sette rami. E vedemmo un breve documentario riguardante la loro storia, con alcune scene tratte dal film "I sette fratelli Cervi" del 1968, chiusosi con una canzone che inevitabilmente mi riporta a quel giorno, in quel luogo, con tutti i compagni accanto a me a cantarla ancora una volta. Ed a commuovermi, di nuovo. Perché come cantano i Gang nei loro ultimi versi: "E in quella pianura, tra Valle Re e i Campi Rossi, noi ci passammo un giorno e in mezzo alla nebbia ci scoprimmo commossi".


Stefano Tortelli