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giovedì 15 ottobre 2015

Giovani assopiti: il fallimento delle generazioni precedenti.






La canzone O cara moglie di Ivan Della Mea è del 1966. Una canzone ambientata nel periodo dei grandi scioperi, dei picchetti ai cancelli delle fabbriche, delle lotte tra gli operai ed i capi, ma anche tra scioperanti e crumiri. 

Era un periodo profondamente democratico, molto più democratico di quello che stiamo vivendo adesso. Perché è vero, molti diritti non erano ancora stati conquistati (o forse concessi!?), in determinati campi (libertà sessuale, libertà di scelta riguardo ad aborto e divorzio) eravamo ancora estremamente indietro, ma ai tempi valeva la legge del 50% più uno: se per un determinato diritto si mobilitava la maggioranza, che fosse a livello microsociale (un'azienda, una località) o macrosociale (lo Stato intero), questo diritto facilmente veniva conquistato. E non sono così convinto che, ai tempi, si combattesse per determinati diritti perché ci si ritrovava ridotti alla fame o perché non si riusciva a sopperire ai propri bisogni con gli status quo che sussistevano allora. Credo invece che, tra gli anni '60 e gli anni '70, c'era un senso di collettivo, di appartenenza ad una determinata classe sociale, c'era il desiderio di anteporre il bisogno di tutti a quello individuale, senza mai comunque perdere di vista la dignità del singolo individuo, cosa che invece è venuta a mancare nel momento in cui l'opportunismo, la necessità del superfluo e la prevaricazione sono entrati nella mente di tanti che fino a poco prima avevano combattuto per giuste cause. Come cantava Pietrangeli, del resto, "Se il vento fischiava ora fischia più forte, le idee di rivolta non sono mai morte,se c'è chi lo afferma non state a sentire, è uno che vuole soltanto tradire; se c'è chi lo afferma sputategli addosso, la bandiera rossa gettato ha in un fosso", e perciò, forse forse, socialisti, questi, non erano mai stati. 

Ma lasciando perdere chi ha cambiato colore man mano che è riuscito ad ottenere ciò di cui necessitava sfruttando qualsiasi mezzo a sua disposizione, vorrei soffermarmi sulla tanto paventata crisi di valori degli ultimi anni, soprattutto nella generazione che rappresento, quella dei giovani tra i venti ed i trent'anni. Noi siamo cresciuti nel ventennio berlusconiano, abbiamo avuto modo di sentire man mano, crescendo, le ripercussioni di politiche distruttive, le quali hanno minato alla base lo stato sociale, la scuola, la libertà d'informazione, la capacità di discernere tra il giusto e lo sbagliato. Siamo cresciuti nell'opulenza, e chi più chi meno abbiamo comunque assorbito un certo modo di vivere, di pensare, di agire. Tutto questo è sicuramente frutto di vent'anni di mal governo, che è però riuscito a destabilizzare così audacemente tutto ciò che poteva darci una cultura di base che siamo cresciuti sostanzialmente ignoranti, privi di reali interessi, assuefatti dalla televisione e dalle vane promesse di Silvio e soci. 

E' vero, siamo ignoranti, privi di stimoli, incapaci di agire in senso collettivo, abbiamo perso ogni contatto con le realtà di insieme: in primis quelle che riguardano i nostri comuni, le nostre regioni, poi quelle che riguardano il nostro Stato, infine quelle che riguardano il mondo intero. E' vero, ci facciamo abbindolare, dobbiamo avere paura dell'Isis, fidarci degli Stati Uniti, lodare la Germania, guardare con sospetto Grecia e Russia, ed intanto farci dare i soldi dai nostri genitori o investire buona parte dei nostri stipendi da stagisti/apprendisti per comprare il nuovo I-Phone. Siamo un gregge, non c'è dubbio. Siamo un gregge come la generazione che ci ha anticipato, quella che ora ha tra i trenta ed i quarantacinque anni: quella che si è convinta che i contratti flessibili, i part-time fossero positivi perché davano libertà di azione. Peccato che questa libertà d'azione era sempre e comunque vincolata dal datore di lavoro di turno, quindi era immaginaria; quella che si è convinta che era bello poter avere a disposizione una pay tv attraverso la quale vedere le partite, i film in prima visione esclusiva ed assoluta, senza rendersi conto che così facendo ora sui canali in chiaro non danno più niente di nuovo perché i diritti sono quasi tutti di Sky o Mediaset Premium, e magari si lamentano anche del canone Rai; quella che si è venduta in toto, lasciandosi indirizzare verso il consumo folle incentivato dalle offerte, dalle rate, dagli abbonamenti, dai leasing.

E, andando ancora a ritroso, mi chiedo dove sia la grandezza delle generazioni passate se all'unico importante compito alle quali erano state chiamate, non tanto istituzionalmente e socialmente parlando ma a livello puramente biologico, hanno fallito miseramente. Dov'è la loro esperienza? A chi è stata tramandata? Per quale motivo i loro figli non sono stati cresciuti con il culto della lotta, della protesta e del collettivo? Siamo sicuri che due genitori siano più deboli della tv e degli stimoli esterni? Siamo sicuri che se è vero che la mia generazione non ha identità, spirito di condivisione e dignità individuale, questo non sia il frutto della perdita, in primis, di tutto questo da parte di chi ci ha cresciuti? Perché è tanto facile poi, a posteriori, dire che i giovani di adesso sono annoiati, statici, apatici. Ma è così che la maggior parte di noi è stata cresciuta, è così che ci ha voluto la società, ma è anche vero che è così che i nostri genitori ci hanno voluto far diventare. Quindi, prima di innanzi tutto generalizzare e dopodiché attaccare i giovani d'oggi, sarebbe il caso di chiedersi che ruolo si ha avuto all'interno di questo meccanismo di disgregazione del pensiero collettivo e della dignità individuale, che cosa non si è fatto per evitare che ciò accadesse e quali sbagli, come individuo e come generazione che si rappresenta, si sono commessi. E poi, magari, provare a riparare, insieme, senza vedere barriere generazionali. Di barriere ora come ora ce ne sono veramente tante, troppe, ed inserire pure quelle anagrafiche mi sembra piuttosto eccessivo e, ovviamente, controproducente.

Voglio concludere spiegando il perché io abbia cominciato l'articolo citando O cara moglie di Ivan Della Mea. Ecco, questa canzone viene ricordata soprattutto per il suo valore all'interno dell'antologia delle canzoni di protesta, poiché racconta per filo e per segno uno sciopero, i conflitti con i crumiri, l'odio verso il padrone e la differenza di risultati che derivano da una lotta totale che coinvolge tutta la forza lavoro ed una lotta frammentata. Quello che però è il messaggio più importante in questa canzone è il totale stravolgimento dello scenario d'apertura quando si giunge alla fine della canzone. Perché se all'inizio il figlio deve andare a dormire "perché le cose che io ho da dire, non sono cose che deve sentire", alla fine l'operaio si rende conto dell'errore, chiede alla moglie di richiamare il figlio perché "venga a sentire, perché ha da capire che cosa vuol dire lottare per la libertà". Ecco, ecco dove AVETE sbagliato. Vi siete fermati alle strofe centrali, alla lotta, all'estemporaneità dei fatti, senza pensare a ciò che a livello interiore questa potesse portare, ovvero alla comprensione che se è vero che certi argomenti sono difficili, a volte duri, sicuramente di difficile comprensione per un bambino o un ragazzino, questi valgono molto più di tante parole e raccomandazioni che da genitore si fanno, non tanto perché si vuole, ma perché si devono fare, perché fanno parte del ruolo del padre o della madre. Sarebbe invece stato il caso di parlare con i vostri figli di politica, o come minimo discuterne in loro presenza, far emergere le vostre preoccupazioni, i vostri disagi legati magari alle condizioni difficili sul posto di lavoro, all'essere in cassa integrazione, all'essere disoccupati. 

Forse si pensa di proteggere i figli mandandoli a dormire, evitando loro i discorsi che "non devon sentire"... ma così facendo non li si protegge, ne si posticipa soltanto il momento in cui saranno carne da macello per questo sistema cannibale.





Stefano Tortelli

martedì 14 luglio 2015

"Storia di un impiegato" di Fabrizio De André




Il vero peccato non è fare del male, il vero peccato è non fare del bene. Credo che con questa semplice frase si possa riassumere il pensiero racchiuso da Fabrizio De André nel suo "Storia di un impiegato". Era il 1973, Fabrizio stava cominciando ad avere un peso rilevante nel panorama cantautorale italiano, e con il suo sesto album andava idealmente a chiudere un secondo capitolo della sua discografia, ovvero quello dei concept album. E se "La buona novella" rappresenta uno dei suoi dischi più controversi e di difficile lettura (ed io in un post di aprile ho provato a dargli una mia personalissima interpretazione), se in "Non al denaro non all'amore né al cielo" ha cercato di definire, utilizzando le poesie di Edgar Lee Masters tradotte divinamente da Fernanda Pivano, gli archetipi delle persone che vivono il nostro tempo, con "Storia di un impiegato" ha sostanzialmente descritto il processo mentale che un uomo della classe media percorre dal momento in cui abbraccia la lotta di classe al momento in cui, dopo aver perso tutto, anche la libertà fisica e l'amore, riesca comunque a sentirsi vincente. Perché è vero, è stato sconfitto su tutti i fronti: ma ci ha provato. Ha perso, ma ci ha provato.

Doveva essere una storia comune quella raccontata da Fabrizio quando lui prese carta, penna e chitarra per dar vita a questo capolavoro. Erano gli anni delle contestazioni studentesche, delle occupazioni, degli scioperi e dei picchetti davanti alle fabbriche. Spesso mio padre mi racconta di quegli anni: lui a diciotto anni ed un mese entrò in Fiat, ed a quei tempi la fabbrica era non solo il primo motore dell'economia italiana, ma anche la fucina di giovani menti che avrebbero potuto e dovuto, ma soprattutto voluto, portare avanti la lotta, la stessa lotta che trent'anni prima mise sotto scacco il fascismo con i famosi scioperi di Mirafiori che coinvolsero centinaia di migliaia di lavoratori. Non era una passeggiata il lavoro in fabbrica, non lo è mai stato, ma in quel periodo c'era ancora la speranza, c'era la consapevolezza che si poteva anche cambiare lavoro, perché di lavoro ce n'era fuori dalle mura degli stabilimenti. Chi restava lo faceva quasi per scelta, e spesso questa scelta era dettata dalla consapevolezza, dall'identità operaia: sì, quella classe operaia che è stata sistematicamente distrutta negli ultimi anni per rendere arido il terreno più fertile per i semi del socialismo, della lotta di classe, della guerra senza quartiere nei confronti del sistema capitalista. Lotta che dalle fabbriche, allora, si estese alle università, agli uffici, a quelle realtà che prima d'allora mai, più di tanto, si erano interessate ad un certo tipo di pensiero politico e sociale: gli anni a cavallo dei '60 e '70 del secolo scorso hanno in un certo senso rappresentato un nuovo illuminismo, illuminismo che coinvolse anche il protagonista della storia di Fabrizio. Perché l'impiegato del quale vengono narrati gli ultimi mesi di libertà fisica e del suo processo di liberazione mentale era un piccolo borghese, che nulla aveva da chiedere alla vita perché la vita già gli aveva dato tutto. Eppure, ad un certo punto, si rese conto che gente meno fortunata di 
lui, sebbene calpestata, rinchiusa, picchiata, vessata stava vivendo, stava respirando, e respirando dava vita ad un vento nuovo, un vento forte, un vento fresco; lui invece in quella bambagia stava sopravvivendo, i giorni erano tutti uguali. Se ne rese conto, e decise di unirsi alla lotta. Decise di vivere. Decise di decidere. Ma per fare ciò doveva sostanzialmente distruggere ciò che fino a quel momento l'aveva oppresso: non era la mancanza di denaro ad averlo distrutto, ma la monotonia della sua vita, i miti con i quali era stato cresciuto, quelle figure che danzano mascherate nel suo sogno. Andavano distrutte, andavano fatte esplodere. Ed andavano ripudiate anche le sue origini: la madre, il padre. E soprattutto andava sabotato alle radici il sistema: quello giudiziario, quello economico, quello politico. 

E pensare che questo processo mentale è stato "inizializzato" da un canto di protesta che ripeteva ad ogni strofa il coinvolgimento dell'uomo medio nell'oppressione delle lotte, delle rimostranze, dei soprusi ai danni delle classi più colpite dal sistema vigente. La Canzone del maggio fu l'incipit, fu la sveglia per questo impiegato trentenne, che si è trovato a ragionare più e più volte su cosa fosse giusto fare: i suoi dubbi, i suoi timori, la sua voglia di riscatto, il suo desiderio di dare un contributo ne tormentavano i giorni e le notti, fino a decidere di abbracciare la causa, e di armarla. E così cominciò a sognare, ad immaginarsi in diversi contesti, ad affrontare i suoi nuovi nemici, figure che fino a poco tempo prima lo affascinavano e ne edulcoravano l'esistenza. Ma lo stesso destino toccava anche a chi l'aveva, secondo il suo giudizio, cresciuto nella tranquillità abituandolo ad ogni agio, ma di fatto rendendolo ignorante ed indifferente alle giuste cause. Arrivò poi il momento della resa dei conti, il momento di agire, il momento di far saltare il simbolo del potere. Ma l'attentato non ha successo, portandolo quindi a perdere la sua libertà fisica, la sua vita, il suo amore. Ed è l'amore la cosa alla quale non avrebbe mai voluto rinunciare, ed è la sua amata la persona alla quale più spesso si ritrovò a dedicare i pensieri, immaginandola sommersa di domande, ripercorrendo la vita passata insieme a lei, ragionando su ciò che lei avrebbe potuto fare dopo la fine forzata della loro storia d'amore. Ed in quel "Continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?" c'è un significato più profondo di quello puramente legato all'amore: c'è anche un significato legato ad ogni potere decisionale di ogni individuo, spesso delegato a qualcun altro, qualcuno più forte di noi, qualcuno che apparentemente è più autorevole (ed in una realtà in cui la donna era ancora estremamente subordinata all'uomo il potere decisionale che l'impiegato sperava potesse finalmente essere esclusivamente nelle mani di sua moglie rappresenta l'emancipazione dei più deboli dai dettami di chi detiene il potere) e che, in seguito alle prese di coscienza del protagonista di questa storia, non doveva essere d'altra persona se non di lei.

Ma la storia dell'impiegato non è finita qui. Anzi, la storia di questo piccolo borghese diventato rivoluzionario non ha una fine. Perché sebbene fosse finito in carcere, sebbene fosse stato privato di ogni libertà d'azione, il nostro eroe sfortunato non perse ciò che finalmente aveva conquistato: la libertà di pensiero, e di conseguenza la vita. Finora non ho accennato minimamente alla musica che accompagna le parole di Fabrizio De André, ma in questo caso è doveroso: il nostro eroe è stato imprigionato, ha sostanzialmente perso, teoricamente ci si dovrebbe aspettare una musica cupa, triste, carica di dolore. E invece no, l'atmosfera creata è ariosa, serena, forse un po' rassegnata, ma che da un senso di libertà. La stessa libertà che poteva respirare durante l'ora d'aria, ora d'aria che decise però di disertare perché non voleva condividere quel cortile con un secondino, ovvero con il simbolo dell'oppressione, del sistema, del potere. Fedele alla linea fino in fondo, e così si limitava a ragionare su tutto ciò che gli era capitato, a come con orgoglio rivendicava ogni sua azione, ogni sua presa di posizione, di coscienza, difendendo così, di fatto, la sua libertà mentale, che pian piano si stava diffondendo tra i suoi compagni di reclusione. Tanto da rinchiudere il secondino durante l'ora di libertà, rivoluzionando così le gerarchie, sebbene per poco tempo, sebbene per uno spazio limitato. E rivendicando anche quell'azione, cantando ancora una volta, un'altra volta ancora, e chissà quante altre volte: "Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti".

Questo è "Storia di un impiegato", un album che per decenni è stato censurato, nascosto ed anche raramente proposto nei live. Un disco anarchico, un disco che mette al centro la libertà decisionale di ogni singolo individuo, una libertà decisionale che, se incanalata nel verso giusto, non può che contribuire al bene di tutti. Perché lottare è una scelta, lottare è fare il bene, e facendo il bene si fa la cosa giusta. Altrimenti si può rimanere a guardare, si può assistere, si può vivere da spettatori non paganti, limitandosi a sopravvivere, a discolparsi, a pensare che tutto sommato va bene così... 

Sono ancora estremamente attuali queste canzoni di Fabrizio De André, e benché questo lo renda ancora vivo e presente, penso che non sia poi così felice di sapere che c'è ancora bisogno di ascoltare questo disco... significa che in quarant'anni non è cambiato niente, anzi... e significa che probabilmente queste canzoni non sono state poi così utili... fino ad ora...





Stefano Tortelli

lunedì 30 marzo 2015

"La buona novella" di Fabrizio De André

La prima copertina di La buona novella (1970)



Ieri era la Domenica delle Palme, giorno in cui comincia la settimana santa, i sette giorni più importanti del Nuovo Testamento, quelli in cui Gesù è finalmente giunto a Gerusalemme, pronto a predicare nella capitale di Israele. A Gerusalemme però troverà la morte, ucciso dai Romani per volere dei Farisei, tradito dal suo amico Giuda e rinnegato da Pietro, colui che da più tempo lo seguiva e che di lui prenderà, per primo, il testimone. Potrà sembrare paradossale, ma è proprio in questi pochi giorni che emerge secondo me la natura umana, terrena e temporale della figura di Gesù. Non i miracoli, non la discendenza diretta da Dio, non le sue parole apparentemente trascendentali sono il cardine delle sue ultime ore, ma elementi comuni nella vita di ognuno di noi. Il tradimento da parte di un amico, l'apprensione di chi ci ama per il nostro futuro, la disperazione di una madre e di una compagna di fronte alla morte del figlio e del partner, il disprezzo e l'odio di chi teme un individuo così speciale, così carismatico, così "potente". E la morte in sé, propria di ogni essere vivente, elemento imprescindibile di ogni realtà che può esser definita tale. Ciò che vive deve morire, poiché se non muore presumibilmente non ha mai vissuto. E' biologia, è scienza. 

Gesù come uomo, come uno di noi, come persona che nasce, vive, muore e lascia un ricordo immortale, tanto da risorgere ogni giorno nella mente di miliardi di persone. Ed è su questo che gioca Fabrizio De André, è la natura umana del Cristo che risalta ne "La buona novella", l'album che l'ha sostanzialmente consacrato nel panorama del cantautorato italiano. Parla di Gesù questo disco, ma parla di Gesù attraverso le bocche di chi gli ha dato vita, di chi l'ha cresciuto, di chi l'ha visto morire, di chi, con un solo sguardo, condividendo con lui il momento più tragico della propria esistenza, l'ha capito ed apprezzato, ammirato, tanto da rimanere lui stesso impresso, per sempre, nella mente del Cristo. Di fatto, Gesù non viene mai nominato in tutto l'album ma è presente in ogni singola canzone. Gesù ce lo immaginiamo come naturale conseguenza al matrimonio combinato tra Maria, ancora bambina, e Giuseppe, lo vediamo tra le mani di Giuseppe piene attorno ai fianchi di Maria prima che lei racconti il suo sogno, prima che lei, di fatto, confessi il suo tradimento, è nella dolcezza di Ave Maria, dove viene cantata la meraviglia della gravidanza, del parto, del passare dall'essere femmina all'essere madre. Un inno alle donne e, per inciso, la più bella canzone che mai sia stata scritta per l'altra metà del cielo. E c'è poi nel presagio di morte che viene scandito dal ritmo marziale che accompagna il dialogo tra Maria ed il falegname che sta ultimando le croci sulle quali moriranno Gesù, Tito e Dimaco, nella frenesia e nella tensione delle ultime ore, che nonostante glorifichino ciò che di grande quell'uomo aveva fatto ed i semi che aveva seminato per l'avvenire mettono in luce la naturale paura della morte, il suo rifiuto, la voglia di vivere ancora. Cosa c'è di più umano e naturale di tutto ciò? C'è il dolore di tre madri che devono sopravvivere ai rispettivi figli, che vedono il loro amore ed i loro sforzi agonizzare in croce. E c'è il porsi quesiti fino all'ultimo secondo di vita di un uomo, che dieci volte si chiede il senso di regole divine che, di fatto, non vengono rispettate in primis da chi queste leggi vuol fare rispettare. 

Non è Dio e non è la religione che trionfa, ma l'uomo, la sua capacità di autodeterminazione, la sua emotività, il suo errare ed il suo desiderare, il suo non voler sottostare non tanto a leggi divine ma leggi naturali. Ed a spiegare il corpus di questo disco sono la prima e l'ultima traccia, simili nella melodia ma totalmente opposte nel contenuto, nel testo, nel titolo. Da "Laudate dominum" a "Laudate hominem" il passo è breve, dal voler vedere lontano e trascendentale una figura come Gesù al sentirla realmente come un nostro fratello è sufficiente prendere coscienza della realtà storica del Cristo, immortale non tanto perché semidivina ma perché sulla Terra ha lasciato un ricordo indelebile, indimenticabile. 

De André ha raccontato vita e morte di Gesù, ha fatto risaltare la sua grandezza attraverso l'amore ed il dolore della madre, la stima di Tito, il fermento che ne ha caratterizzato la fine. E probabilmente non sarebbe stato tanto diverso come disco se al posto di Gesù ci fosse stato un altro grande personaggio della storia dell'uomo, ma umanizzando Gesù ha eliminato ogni scusa ad ogni uomo di non dover provare ad essere migliore solo perché non divino. Del resto questi sono alcuni dei cardini dell'anarchia: l'autodeterminazione, la libertà che finisce dove inizia quella di un altro individuo, il divincolarsi da schemi malati e precostruiti, che siano questi di natura religiosa o temporale. 

"Storia di un impiegato" sarà sì estremamente diretto e senza fronzoli, ma "La buona novella" è ancor più ricco di significato, è ancor più politico, è soprattutto è più attuale. Più reale. 

E come ogni anno, sotto Pasqua, eccomi ad ascoltare "La buona novella". Un rito ateo, un ossimoro. Ma, come la religione, quando viene messa in gioco l'emotività, c'è poco da sindacare. Resta solo da premere play.




Stefano Tortelli

lunedì 29 dicembre 2014

Le canzoni

Guccini a Barolo, prima d  firmare il suo ultimo libro ed il suo primo vinile ad un certo Stefano



Sto guardando alla TV un documentario su Francesco Guccini. La musica, oltre a film particolarmente a me cari, è una delle pochissime cose che possa far sì ch'io decida di accenderla, o meglio ad andare sul sito della Rai.
Per Guccini tutto è tranne che un peccato dare uno strappo al mio ostracismo nei confronti della televisione, perché ne vale decisamente lo sforzo, ne vale decisamente la pena. Avevo già visto questo documentario, ma come certi film, come certi libri, come certe canzoni ogni volta che lo guardo da nuove sensazioni, nuove ispirazioni, nuove idee. E la consueta commozione.
In un'ora e mezza è stata ripercorsa la carriera di quello che per me è uno zio, di quelli che sotto banco ti passano un pezzo di pane in più, di quelli che la sera ti prendono con sé ed in barba al coprifuoco ti tiene sveglio a raccontarti le sue storie, le mille avventure della sua gioventù, ma anche mondi lontani, eventi distanti, emozioni ancora da provare. 
Ed ascoltando questo zio ti ritrovi a materializzare nel cervello ciò che racconta: vedi il mondo post atomico in cui il Vecchio racconta al Bambino quello che è il nostro, di mondo, sempre più minacciato dagli abusi sull'ambiente; vedi il giovane e bel macchinista ferroviere lanciare la sua locomotiva contro l'ingiustizia ed il potere, in nome della giustizia proletaria; vedi la casa di quella amata donna lontana dove puoi respirare l'odore della salvia e del rosmarino, dove puoi parlare con i suoi amici come se amici foste sempre stati. 
Lui, lui più di tutti sa fare ciò. Non De André, non Bertoli, non Finardi. Nessuno. Ed è forse anche per questo che cantarlo, dare la giusta interpretazione, far dire a qualcuno: "Cavoli, stai cantando come se l'avessi scritta tu", è quasi impossibile. 
Per cantare Guccini bisogna vivere come Guccini, pensare come Guccini, guardare, sentire, respirare come Guccini. Non c'è storia, e credo che io stesso facilmente mi rifiuterò di cantarlo in futuro su un palco, a meno che non mi senta anche io in quei panni che lui è solito portare. 
Il documentario ora è finito, ma mentre si stava raccontando, e stavano raccontandolo, ho messo giù un po' di righe riguardanti in primis le sue canzoni, ma anche tutte quelle che appena le sento rievocano, ricreano, ripercorrono. Rivivono. 
Perché le canzoni hanno questo strano potere di far coesistere in circa quattro minuti tutto il passato, il presente e sprazzi di futuro.
E come le canzoni null'altro c'è.

Le canzoni sono come fotografie,
a volte di un proprio vissuto, a volte di realtà astratte.
Le canzoni sono come aprire una finestra su un mondo nuovo,
o sul proprio passato, sul passato dell'uomo.
Vedi te da piccolo, vedi il tuo mondo, vedi i grandi uomini che, come te, hanno camminato su questo pianeta.
Le canzoni sono come un viaggio, 
nelle terre di ieri e nei mondi lontani, nella propria patria e tra le proprie radici.
Ed accarezzi le bandiere di Stati a te estranei,
assapori frutti esotici, solchi mari lontani, baci donne mai conosciute.
Le canzoni sono come un sogno, 
cullato dal troppo alcool o scaldato dall'amore, o infine travagliato come la realtà.
E tutto convive in questi sogni,
chi c'era, chi c'è, chi ci sarà. La vecchia casa, quella nuova, quella di un domani.
Le canzoni sono delle ispirazioni, 
fanno guardare oltre, fanno sentire il nuovo, fanno provare emozioni finora lontane.
Sono esplorazioni, sono proiezioni.
sono un vestito, sono un arredo, sono un mezzo di trasporto, sono un cibo prelibato.
Le canzoni sono la vita,
la nostra, quella dell'autore, quella del soggetto del testo.
Le canzoni sono ogni giorno, le canzoni sono lo ieri, l'oggi, il domani.
Le canzoni sono canzoni.
Le canzoni sono tutto, ma nulla è una canzone.


Grazie Francesco, grazie davvero. Te l'ho detto cinque mesi fa ed ora te lo ripeto. Un giorno valicherò l'Appennino che divide la mia Garfagnana dalla tua Emilia, e verrò a trovarti. E se lì non ti troverò, farò un salto in Via Paolo Fabbri 43...


Stefano Tortelli