martedì 10 febbraio 2015

Ogni maledetto 10 febbraio. La strumentalizzazione delle foibe

Monumento in memoria delle vittime delle foibe



"Ma è sempre soltanto la stessa vecchia storia..." cantano i Modena City Ramblers nella loro Morte di un poeta. Ogni anno, già a partire dal Giorno della memoria e facendosi sempre più diffuso ed invasivo con il passare dei giorni, si leva diffuso il coro di coloro che ricordano gli eccidi delle foibe. Tengo a precisare che questa mia introduzione tutto vuol essere tranne che una giustificazione a priori dell'eccidio (che potrebbe emergere non tanto da ciò che ho scritto ma dal tono che si può evincere), soprattutto perché non può essere considerato un atto convenzionale in regime di guerra ma un vero e proprio crimine di guerra, perpetrato oltre tutto principalmente nei confronti di civili e non di militari.

Credo che innanzi tutto si debba spiegare oggettivamente, avvalendosi anche dei numeri, di ciò che le foibe sono state. Con il termine foibe si considerano gli eccidi che i partigiani jugoslavi ed i servizi segreti jugoslavi attuarono nella Venezia Giulia e nella Dalmazia a cavallo tra la fine della seconda guerra mondiale ed i primi mesi del dopoguerra. In circa cinque anni si stima siano morti circa 11000 italiani durante quella che era una vera e propria deportazione. Buona parte morirono lungo il percorso tra l'Italia e la Jugoslavia, ed i corpi di costoro vennero gettati nelle insenature presenti nella roccia carsica che caratterizza queste zone delle Alpi (tecnicamente le insenature in questione sono definite foibe), mentre altri morirono nei campi di concentramento voluti da Tito (leader della Jugoslavia). Fin qui può sembrare una cronaca fredda e distaccata di un crimine di guerra avvenuto nei confronti degli italiani, per il quale la Jugoslavia ha chiesto scusa, come scusa han chiesto i comunisti italiani (idealmente alleati del governo di Tito, baluardo occidentale del blocco sovietico). 

La problematica relativa alla questione delle foibe è l'uso strumentale che la destra italiana ne vuole fare. Perché questi simpatici signori, ereditari dei valori fascisti che l'Italia ha dolorosamente conosciuto, subito e dei quali faticosamente si era riuscita a liberare, hanno voluto mettere questo eccidio come contrappeso alla lotta partigiana, ai vari stermini che tra il '43 ed il '45 hanno avuto come teatro l'Italia intera e dei quali gli esecutori erano i fascisti italiani o i nazisti tedeschi. Questa diatriba sta andando avanti da diversi anni, ed il riconoscimento (dovuto) da parte delle istituzioni di una giornata della commemorazione (il 10 febbraio) dell'eccidio che ha colpito gli italiani di Venezia-Giulia e Dalmazia ha ancor di più avallato le tesi della destra, che porta avanti l'assunto: "Se il 25 aprile è la festa di liberazione, e quindi la celebrazione della resistenza, il 10 febbraio è la festa dell'orgoglio nazionalistico". Inoltre, strumentalizzando le foibe, si vuole declassare l'importanza che ha avuto la lotta partigiana in Italia ed il contributo che ha versato, in impegno ed in caduti, per la liberazione dell'Italia dalla presenza nazi-fascista. 

Ciò che non viene però messo in luce è un meccanismo che, per quanto non rappresenti una giustificazione a ciò che gli jugoslavi hanno commesso, fa sì che le foibe e gli eccidi perpetrati nei confronti dei partigiani non possano essere messi sullo stesso piano di analisi. In campo sociologico esiste una teoria che mette in luce come, in particolari situazioni, l'ambito situazionale prevarichi sulla libertà d'azione e di pensiero dell'individuo. Sono state svolte molte ricerche riguardo questo tema tramite degli esperimenti, e si è anche provato ad utilizzare questa teoria per giustificare alcuni comportamenti abominevoli (vi ricordate la prigione di Abu Grahib, quella nella quale i militari statunitensi torturavano con l'elettricità i detenuti, abusando poi sessualmente di loro?) che hanno caratterizzato le azioni di alcuni individui in determinati contesti. Si può giustificare il comportamento dei militari USA nella prigione di Abu Grahib? Ovviamente no, tant'è che la teoria non venne presa in considerazione come attenuante al loro comportamento, ma, anche qui, sarebbe assurdo parlare di due situazioni che si trovano sullo stesso piano (in questo caso le foibe ed Abu Grahib). Il perché è lampante: ad Abu Grahib chi ha commesso queste atrocità era personale arruolato, addestrato, che si trovava lì in quanto aggressore e primo artefice della guerra in atto. Le foibe sono attribuili invece ad individui che tutto erano meno che addestrati alla vita militare, al compito di carcerieri, e che quindi sono stati sommersi dalla situazione estremamente atipica nella quale si erano trovate ad agire. Inoltre bisogna mettere in luce il fatto che loro per anni avevano subito la dominazione italo-tedesca, ne avevano viste di tutti i colori, avevano combattuto e si erano liberati dalla dittatura reazionaria in nome di un'idea che era agli antipodi, e per cui si può considerare una sorta di rappresaglia, di vendetta, ciò che i partigiani jugoslavi misero in atto tra il '43 ed il '47. Se l'uccisione di migliaia di partigiani in tutta Italia è l'attuazione di una repressione unilaterale ad un tentativo di autodeterminazione, l'uccisione di migliaia di italiani nel nord-est è considerabile come una conseguenza di una repressione, invasione e vessazione reiterata per diversi anni. 

Sono conscio che questo discorso possa non piacere a molti, perché di fatto sembra quasi che io dica che gli "infoibati" se la siano andata a cercare mentre i partigiani sono vittime di un potere preesistente ed estremamente repressivo. La verità invece è che, se si vuole essere espliciti, a cercarsela sono stati i partigiani, ma il loro essersela andata a cercare è stato il cardine della liberazione dell'Italia: loro erano mossi da ideali di libertà ed uguaglianza che non potevano coesistere con un potere reazionario ed autoritario. Gli italiani vittime degli jugoslavi invece sono stati travolti dagli eventi, come lo sono stati i civili di tutto il mondo durante la Seconda Guerra Mondiale (tanto quanto tutti i civili italiani che sono morti durante i bombardamenti alleati, che sommati tra loro superano di certo le vittime delle foibe). 

Da ciò si evince come il discorso sia puramente ideologico. I fascisti, la destra, usano questi 11000 italiani come pretesto per confutare la bontà dell'azione partigiana italiana cercando di far valere l'equivalenza tra partigiano italiano e partigiano jugoslavo.

Facebook, l'opinione pubblica e buona parte dei mass media confermano che le istanze della destra sono considerate valide. Vale però l'assioma che la nostra NON è una democrazia, che l'uomo comune, il qualunquista, NON ha cultura ed intelligenza sufficiente, e che la diffusione dei valori di destra e delle rispettive istanze sia inversamente proporzionale alla cultura media del popolo in cui la destra in questione agisce. 

Traete voi le vostre conclusioni. Io dico che i morti sono morti, tanto i nostri partigiani quanto le vittime delle foibe, e che l'autocritica risiede dalla mia parte, sempre pronta, a volte fin troppo, a fare mea culpa di fronte agli errori del passato. 

Italia d'oro? Nah, Italia di bronzo... come le facce dei reazionari.



Stefano Tortelli

Tutto l'universo obbedisce all'amore. Matematica e grammatica incluse

Mirat Urazayev - Yin Yang

E' assodato come, proverbialmente, la matematica non sia un'opinione. La matematica è considerata scienza esatta, è considerata la nemesi del parere, della libertà di interpretazione, dell'arbitrarietà, dell'autodeterminazione. La matematica è fredda, imperativa e glaciale, ed il rapporto che si può avere con essa è dicotomico: o la ami o la odi, o la accetti o la rinneghi. Non c'è via di scampo, la sua autorità non si può mettere in discussione, la sua dittatura è inattaccabile.

E' assodato anche come l'amore sia in grado di sconvolgere ogni sistema preesistente e precostituito, soverchiandolo, ribaltandolo, creando un punto di discontinuità tra ciò che eravamo prima e dopo il suo nascere, il suo instillarsi dentro di noi fino a diventare un fiume in piena in grado di trasportarci in un attimo dalla sorgente alla valle, al mare, all'oceano, per poi evaporare e raggiungere il cielo e ricadere sulla terra, in un ciclo continuo di emozioni ed esperienze che ci coinvolge totalmente. Non si sceglie di amare, è l'amore che sceglie di albergare in noi e di portarci a provare sentimenti estremamente intensi, in grado di renderci vivi, in grado di risvegliarci, in grado di farci splendere di una luce nuova. E, come la matematica, l'amore se decide di imporsi su di te tu non puoi scappare (e solo un pazzo potrebbe scappare di fronte all'amore), non puoi resistere al suo volere, non puoi rifiutarti di obbedirgli. 

Due forme di coercizione, la matematica e l'amore... una delle due però è più forte dell'altra. Una delle due deve cedere alla legge dell'altra, che disintegra quella perdente, che la rende falsa, che la rende un dato soggettivo e non più oggettivo. 

Battiato sostiene che tutto l'universo obbedisce all'amore. Ecco, la matematica non fa eccezione, del resto anch'essa fa parte dell'universo. E' pura logica: se l'insieme A obbedisce al fattore X, il sottoinsieme A1 obbedisce al suddetto fattore. Già, perché in amore le leggi matematiche vanno tranquillamente a farsi benedire, vengono stravolte anch'esse, come le anime che l'amore decide di beatificare impossessandosene. 1 + 1 in amore non fa più 2. 1 + 1 in amore fa 1: l'incontrarsi di due individui nel nome dell'amore porta alla nascita di un qualcosa di nuovo, di un singolo nuovo elemento, porta alla nascita della coppia, un'entità composta da due parti che fanno all'amore, che lo costruiscono, che si uniscono, che anche fisicamente diventano un tutt'uno nella più bella espressione dell'amore. E nella moltiplicazione, l'1x1 può dare 0, può dare 1, può dare 3, può dare l'infinito. Perché il prodotto di una coppia, in senso biologico, può essere assente ma anche numeroso, ma in un senso più generico da l'infinito. Perché l'amore non solo è riproduzione tra i due fattori, ma è riproduzione dell'amore stesso, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Ed anche se è latente questo si riproduce, ritrovandolo ovunque. Perché l'amore è anche egocentrico, vuole mostrarsi continuamente a chi vuole o deve sfuggirgli, impossessandosi di immagini, odori, ricordi, suoni. 

L'amore straccia ogni altra regola, ogni altra imposizione, ogni altra scelta istituzionale. Come quelle della matematica, anche quelle proprie della grammatica italiana. L'amore è l'unica realtà che fa sì che la sua espressione, data dalla somma di due parti, che nella sua realizzazione più comune sono un maschio ed una femmina, sia un'entità femminile. Un uomo ed una donna, sotto il segno dell'amore, diventano una coppia. L'amore è femmina, perché femmina è la natura di tutto ciò che di meraviglioso l'amore suscita (l'emozione, la sensazione, la passione, la gioia, la meraviglia), perché femmina è la sua dea, e perché é nella femmina che l'amore, nella sua massima espressione fisica, vede l'unione dei due corpi, la somma delle parti nel tutto femminile, e nel tutto femminile la moltiplicazione. 

L'amore è femmina. E non poteva essere altrimenti.


Sebbene io abbia citato Battiato non vi è canzone che più possa rispecchiare la mia idea dell'amore del brano principale della colonna sonora di Hedwig and the angry inch, che attinge a piene mani dal mito sull'origine dell'amore di Platone contenuto nel Simposio. E, con un po' di anticipo, auguro buon S.Valentino a tutti coloro che sono capaci d'amare, a tutti quelli che l'amore lo accolgono, a tutti quelli che l'amore sanno donarlo. Che siate soli o meno non è importante, poiché è la festa dell'amore, di chi ama. Di chi quindi, attraverso l'amore, è. 


 


Stefano Tortelli

domenica 8 febbraio 2015

Fino all'ultima nota di vita - Andrea Parodi






Stasera ho deciso di farmi del male, influenzato anche da uno dei miei contatti di Facebook che ha deciso di votare questa serata ad Andrea Parodi, voce storica dei Tazenda e dell'orgoglio sardo. 

Fabrizio De André, parlando con Andrea della Sardegna, terra che l'aveva adottato e che per Parodi era la casa natia, sostenne che non erano stati loro a scegliere quella grande isola come propria terra, ma la Sardegna a scegliere di esserlo, di manifestarsi in ogni momento, di far sentire la propria presenza come se, oltre ad averla sotto ai piedi, la si avesse totalmente attorno, sentendola respirare, avvicinarsi accarezzandoli. Ed è un discorso che si può mutuare, che si può applicare a certe voci, a certe personalità della musica. La domanda che si suol usare per scoprire i gusti musicali di una persona è: "Che musica ascolti?"; ma forse ci sopravvalutiamo, forse releghiamo ad una dimensione razionale, e quindi delle scelte, quella che invece è una realtà propria dell'inconscio, delle emozioni, dell'irrazionale. E' la musica che si fa ascoltare, e sono certi artisti che decidono di far sì che si sia in grado di rimanerne affascinati. Questo lo si può notare quando di un artista ci si innamora dopo tanto, tanto tempo che già lo si conosce. Cosa è cambiato rispetto a prima? Cosa ha fatto sì che se fino ad un dato momento è stato per noi inascoltabile, o al più siamo stati nei suoi confronti indifferenti, tutto ad un tratto ci ha totalmente travolti, legando la nostra esistenza a doppio filo con quelle note, quelle parole, quelle voci? 

I Tazenda li incontrai per la prima volta con Bertoli nella sua famosissima Spunta la luna dal monte, e sì, non mi dispiaceva come canzone, ma non è che mi colpì particolarmente (lo stesso discorso lo posso fare per Ivan Graziani, che se prima quasi lo consideravo insopportabile, tutto ad un tratto è diventato uno dei cantautori a cui più sono legato): innanzi tutto non capivo cosa cantassero, ma anche il modo in cui cantavano la parte in sardo non mi lasciava nulla di particolare. Ecco, forse ho toccato il nocciolo della questione con quel verbo "lasciare", che va in un certo senso a confermare la mia ipotesi sul decidere chi è passivo e chi attivo nella musica. E' la musica, di fatto, che lascia a noi qualcosa, non siamo noi che lasciamo qualcosa a lei. E' Lei che si concede a noi, è Lei che ci dona delle emozioni: che sia perché la stiamo ascoltando, che sia perché la stiamo creando, che sia perché la stiamo dedicando, che sia perché la stiamo suonando o cantando. E probabilmente è Lei a decidere quando farlo.

Andrea Parodi ha dedicato la sua vita alla musica ed alla sua terra, ed implicitamente ha dedicato la sua vita a tutti quelli che si sono innamorati della sua persona, della sua arte e dell'uso che ha fatto di quest'ultima. Come disse nell'introduzione alla sua versione di Hotel Supramonte (in occasione di un Tributo a De André tenutosi a Cagliari) la sua arte è stata fortemente influenzata dalla Sardegna, e non l'ha fatto solamente nell'utilizzo della lingua sarda per dar un senso alla sua meravigliosa voce, ma anche cantandone le tradizioni, la lotta, la cultura, le canzoni tradizionali.

L'ha fatto giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Dal 1978, anno in cui è entrato a far parte della band Coro degli Angeli fino al 2006, anno della sua morte ha, prima in Sardegna e poi nell'Italia intera ed in Europa, fatto conoscere un popolo, una terra, una realtà troppo poco considerata e rispettata, massacrata da un cancro che risponde al nome di "profitto ad ogni costo", al nome di "capitalismo sfrenato", al nome di "fanculo le tradizioni, è il soldo che comanda". E quanto possono essere nella storia di una società millenaria come quella sarda sessant'anni, se paragonata alla vita di un uomo? Un anno!? 

Il cancro è una brutta bestia, e chi ha avuto parenti morti di questa malattia ben lo sa. Si nasconde subdolamente in un corpo apparentemente sano, sembra possa essere un disturbo da nulla, causato magari dalla nostra disattenzione, ma poi all'improvviso si manifesta, e se è maligno, se colpisce un organo complicato da curare non c'è cura che tenga. Qualche mese, massimo un anno e ti porta via, distruggendoti, sconvolgendo il tuo fisico, il tuo aspetto, e se manca una certa forza interiore anche la mente, la lucidità. Andrea è stato, anche in questo, come la sua terra. Fino all'ultimo, nonostante un cancro estremamente distruttivo che l'ha di fatto debilitato totalmente, facendolo sembrare un anziano quando invece era ancora nello splendore degli anni, lui è rimasto lucido, lui ha cercato di combattere, lui ha sperato di poter andare avanti. 

Quando per la prima volta vidi questo video piansi tutte le lacrime che avevo per tanto tempo tenuto dentro di me, e benché non rappresentò l'unico elemento responsabile di quell'enorme commozione in quel periodo, di certo fu la mano che aprì il rubinetto arrugginito dei miei occhi. Il concerto dedicato a De André che prima avevo citato è datato 2005, lui aveva ancora i suoi lunghissimi capelli appena tendenti al grigio ed una folta barba, stava per cantare la canzone che ha legato Faber alla Sardegna, e la stava per cantare per ricordare Faber stesso, che ai tempi ci aveva lasciato già da sei anni a causa di un tumore. L'ultimo concerto di Andrea Parodi invece è di un anno dopo: autunno 2006, un viso prosciugato e glabro, un corpo chiaramente sofferente, una testa sulla quale si intravedono pochi capelli che cercano di ricrescere dopo la chemioterapia. Quel che non cambia è la voce, quel che non cambia è l'utilizzo che ne fa: perché se il 20 luglio 2005 lui stava cantando omaggiando il passato, il 22 settembre del 2006 canta per il futuro, canta per la sua compagna di vita, canta per il sangue del suo sangue, canta per la sua terra e per il suo popolo. Dona la sua voce per l'ultima volta a chi e ciò che più ama. 

Salutando il pubblico, ben sapendo che la Morte sarebbe andato a trovarlo per portarlo altrove, non disse addio, ma arrivederci. E con sua moglie Valentina accanto a lui su quel palco che già aveva a lui donato quattro figli, urlò quello che per me è il più bell'inno alla vita che io abbia mai sentito: "Arrivederci!! Magari con un prossimo figlio"...

Il 17 ottobre dello stesso anno, nemmeno un mese dopo la sua ultima esibizione, Andrea è andato via, ma in quella sua ultima interpretazione di No potho reposare è rimasto, di fatto, immortale, poiché in quelle ultime parole cantate ha riassunto la sua vita, ha riassunto il suo essere Sardo, il suo essere musicista. Lui ha dato fino all'ultimo, ha emozionato fino all'ultimo, ha amato fino all'ultimo. Ha vissuto, fino all'ultimo. Ed ha lasciato tantissimo a tutti noi.

Grazie Andrea, ci sarebbe estremamente bisogno di milioni di Uomini come te...





Stefano Tortelli


sabato 7 febbraio 2015

L'umilmente presuntuoso



Qualche giorno fa mi sono iscritto ad un gruppo di scrittori che, ogni tre/quattro giorni, propone un tema riguardo il quale scrivere dai 100 ai 400 caratteri. Una bellissima idea, anche perché, essendo i temi espressi con una singola parola, è curioso osservare come altre persone le interpretino, le descrivano, le sentano. Sono per lo più emozioni, idee, stati d'animo, ed essendo di per sé qualcosa di soggettivo, difficilmente definibile scientificamente, le accezioni che possono venire date sono pressoché illimitate. Da quando sono nel gruppo sono state proposti due temi: la presunzione e l'illusione, e mi sono sorpreso nel trovare in entrambi i casi tanti scritti simili, non tanto nella forma quanto nel contenuto. L'illusione spesso viene associata alla delusione, quando invece io credo sia un qualcosa di meraviglioso, qualcosa per cui combattere. O meglio, è il mezzo che porta a combattere per far sì che il fine si concretizzi disintegrando l'illusione. Tant'è che le mie poche parole riguardo ad essa sono le seguenti: 
"L'illusione è quel qualcosa che una volta raggiunto cessa di essere tale. E' come voler descrivere il silenzio a parole, il buio con i colori.
E le illusioni vanno usate, sono mezzi per raggiungere un fine che le disintegrerà. 
L'illusione null'altro è che l'anticamera della realtà."

La presunzione, invece, è stata massacrata, avvicinandola alla saccenza, all'auto-celebrazione, all'egoismo (nella sua peggiore accezione), all'ignoranza, all'estrema vanità. E quando si parla di presunzione io mi sento sempre tirato in ballo, c'è poco da fare. Il mio primo rapporto con la presunzione l'ho avuto in seconda elementare, quando la mia passione nei confronti della scuola è stata massacrata: "Stefano, smettila di fare il presuntuoso, è inutile che alzi la mano, è inutile che vuoi dimostrarmi che sai ciò che gli altri non sanno". Mi ha segnato quel rimbrotto fattomi dalla maestra di italiano, mi ha segnato nel profondo, perché per tanto tempo ho taciuto anche quando sapevo, perché quasi mi sentivo in colpa a prendere un buon voto. Stavo dimostrando che sapevo più degli altri e QUESTO NON SI FA. Come si fa, dico io, come si fa a distruggere il desiderio di conoscenza e di condivisione di quest'ultima con gli altri? L'assurdo è che poi, quando c'era bisogno, mi venivano affiancati i compagni di classe che erano estremamente indietro nel programma per aiutarli a capire, per migliorare... Ma tant'è...

Con il passare degli anni le cose non sono cambiate, ed anzi, in certi contesti, mi hanno creato non pochi imbarazzi, fino ad arrivare ad essere io per primo ad avvertire il mio interlocutore. Mi ricordo cosa scrissi alla mia ultima ragazza quando ci sentimmo una delle prime volte e stavamo parlando di musica: "Giulia, se ad un certo punto ti sembra che salgo in cattedra e che faccio il professorone di musica e la cosa ti da fastidio avvertimi. E' l'ultima cosa che voglio sembrare, ma spesso succede che passo per tale". Lei mi rispose dicendomi che era l'ultima cosa della quale dovevo preoccuparmi perché nel campo musicale sapeva lei per prima di non avere la mia cultura e che anzi apprezzava che i nostri discorsi potessero essere accompagnati da nuove canzoni, nuovi artisti... come se venisse a crearsi qualcosa di totalmente nuovo. Non per nulla, poi, divenne la mia ragazza. Si fece prendere per mano ed accompagnare lungo strade che lei non conosceva, ed io mi feci prendere per mano ed accompagnare lungo strade per me ancora inesplorate e che lei, invece, già aveva percorso. In altre situazioni invece mi son sentito tarpare le ali, quando magari utilizzavo parole desuete o comunque tutt'altro che di uso comune, oppure citavo artisti ai più sconosciuti, o anche solo mi esprimevo con congiuntivi, condizionali e i vari tipi di passato anziché limitarmi al presente, all'imperfetto ed al passato prossimo. "Ma quanto te la tiri?" "Ma parla come mangi" "Certo che sei proprio egocentrico". A questo punto io mi chiedo cosa serva sapere quando poi l'unico scopo della conoscenza dev'essere portare a casa la pagnotta, anziché allargare i confini del suo utilizzo rendendola fruibile anche agli altri. Ma la frase che più mi infastidisce, in queste situazioni, è "Ma come fai a sapere queste cose?", che sebbene possa essere un complimento, una lusinga, nasconde comunque un rendermi eccezionale, cosa che non credo proprio di essere. Tant'è che spesso in mente la risposta che più mi verrebbe spontanea è un'altra domanda, ovvero "Perché tu queste cose non le sai?". Ed attenzione, non è una domanda retorica che prevede risposte come "Perché sono stupida/o", "Perché non ci arrivo", "Perché non sono intelligente quanto lo sei tu", ma una domanda che in sé racchiude la seguente frase: "Guarda che tu sei come me, e se solo tu volessi quel che so io lo potresti sapere anche tu". Anche perché intelligenza e conoscenza sono due cose che ben poco hanno a che fare: la conoscenza ce la si costruisce, l'intelligenza è un talento, che può sì trarre nuova linfa dalla conoscenza e che permette di interconnettere le nozioni che si sono apprese o acquisite, ma che non può da sola riempire lacune riguardo tematiche che non si conoscono. Io non sono intelligente perché conosco valanghe di artisti e di canzoni a memoria, e nemmeno perché so citarti Hemingway, Hesse, Platone o Socrate, e tu (ipotetico) non sei stupido perché non conosci gli integrali o le leggi della fisica. Tutt'al più l'intelligenza la si può misurare quando si riescono ad assemblare le proprie conoscenze per dar vita ad un pensiero che le incastri alla perfezione, sfruttando al contempo storia, musica, filosofia, letteratura, matematica, fisica, geografia, etc... 

Io so di sapere, io so di essere intelligente, ma io credo, anzi presumo, che tutti possono, se solo lo volessero, conoscere una miriade di cose che al momento ignorano. Anche perché ora i mezzi ci sono: il web è gratuito, i libri non sono più un lusso come non lo è la musica, e nemmeno studiare è così proibitivo come poteva esserlo una volta. Temo però che il vero problema sia questo: se i libri costassero di più, se la musica costasse di più, molti sarebbero stimolati ad apprendere il più cose possibili perché il loro sfoggio di conoscenza sarebbe quasi paragonabile all'avere una fuoriserie in garage, perché si realizzerebbe il legame tra denaro e conoscenza, cioè "Io so perché posso permettermelo". Una vera ricchezza usata come sfoggio di opulenza... 

La presunzione poi, se usata come definizione richiede, può costantemente mettere nella condizione colui che presume di avvalorare le sue presunzioni, rendendole verità, rendendole concetti inattaccabili, rendendole di fatto realtà. La presunzione e l'egocentrismo sono elementi imprescindibili per il proprio sviluppo, per l'esaltare nei fatti le proprie qualità e le proprie capacità.

Non fossi stato presuntuoso non mi sarei mai messo a corteggiare una ragazza, non mi sarei mai posto il problema di aprire questo blog, non mi sarei mai osato di cantare in un gruppo né tanto meno salire su un palco e sostenere un concerto, non avrei mai pensato di poter andare ad insegnare in una scuola, a ragazzi con difficoltà nell'apprendere la lingua e con i quali docenti con molta più esperienza di me hanno avuto enormi problemi. Non fossi stato presuntuoso non avrei nemmeno dato un esame all'università, e paradossalmente è proprio qui che l'assenza di presunzione si è palesata, fermandomi più di una volta sul ciglio dell'aula, negandomi dunque la possibilità di mostrare a me stesso che facevo bene a non essere presuntuoso. 

Presunzione, povera compagna di vita, mi hai lasciato sempre nei momenti di maggiore bisogno. Ora, dato che siamo in periodo di esami, non tradirmi, fammi credere in me stesso ancora qualche volta, poi per un po' potrei anche lasciarti in pace, almeno nel campo universitario. 

Davvero, se la gente fosse un po' più presuntuosa, se la gente si stringesse attorno a chi sa apprendere da chi vuole condividere anziché tacciarlo per saccente, se la gente si preoccupasse di raggiungere una determinata conoscenza anziché stizzirsi se qualcuno ne sa di più, forse il mondo sarebbe estremamente più bello, e la stessa gente non si lamenterebbe più della mancanza di politici validi, di grandi artisti, di ottimi insegnanti. Perché ci sarebbero, e sarebbero molto meglio di quelli passati, perché è un fatto che l'evoluzione, in ogni campo, che si è venuta a verificare negli ultimi decenni, non può che essere di grande aiuto all'umanità intera.

Peccato che all'evoluzione si è delegata la maggior parte della nostra capacità di elevazione ed autodeterminazione, rendendoci ancora più vuoti di chi una volta non aveva niente ma che, anche solo vivendo la propria vita, era un'enciclopedia vivente.




Stefano Tortelli

venerdì 6 febbraio 2015

Canzone della sera #5 - L'isola che non c'è

Le pleiadi
Le nevicate ed i temporali mi sono sempre piaciuti, sin da quando ero bambino. Vedere come, nel caso della neve, grazie ad un evento atmosferico l'intero paesaggio che gli occhi ormai conoscono a memoria cambi radicalmente è qualcosa di estremamente affascinante, soprattutto quando si vive in campagna: perché come per magia gli alberi fioriscono, come d'incanto svaniscono i confini tra i campi arati, quelli lasciati a maggese e quelli abbandonati, e, non so perché, mi da anche una sensazione di viaggio nel tempo, forse a causa dei frequenti black-out che si verificano nella mia zona quando la neve supera i venti centimetri. Mentre i temporali hanno sempre rappresentato dei break estremamente graditi nell'afa estiva della pianura padana, regalando anche uno spettacolo di luci e suoni paragonabile ai grandi concerti rock degli stadi di tutto il mondo, per non parlare dell'impareggiabilità della particolare luminosità che si viene a creare quando i nuvoloni neri lasciano passare sparuti raggi di sole allergici alla frontiera plumbea.

L'unico limite di questi due eventi atmosferici è che di notte impediscono agli occhi di ammirare il cielo stellato che solo le notti limpide permettono di osservare. E le stelle, da sempre, sono le custodi dei sogni, dei desideri, delle speranze, e non per nulla ogni religione le considera le case del proprio dio o dei propri dei, mentre i poeti ed i musicisti hanno loro dedicato miliardi di parole e note, usandole spesso come metafore per un qualcosa o un qualcuno, astratto o concreto. 

Ho letto poco fa su Facebook un aforisma di Albert Schweitzer: "L'ideale per noi è quello che è una stella per il marinaio. Non può essere raggiunto, ma rimane una guida.". Il pensiero non può che essere condiviso, di questi tempi, visto che al momento tutto posso pensare tranne che il raggiungimento dei miei ideali sia attuabile, almeno per quanto riguarda la dimensione macrosociale, nella quale qualsiasi nostro comportamento, mosso da un'ideale, non può che inevitabilmente creare delle contraddizioni tra ciò che si pensa e ciò che si fa. Un ambientalista che sceglie di essere vegetariano, per quanto sia rispettabile la sua scelta, cade inevitabilmente in una fitta rete di controsensi, come qualsiasi pacifista che utilizza mezzi privati o pubblici a benzina per recarsi ad una manifestazione, come un comunista che si usa di uno spazio offerto da Google o Facebook per esprimere le proprie idee. E' un gran casino, la purezza è impossibile, il seguire alla lettera i propri ideali ha dei legittimi impedimenti. Ma questa non deve essere una scusa per rinnegarli e interrompere la propria strada verso il loro conseguimento, il loro attuamento, la loro realizzazione. 

Lo stesso aforisma mi ha riportato alla mente una canzone che per me è sempre stata importante ma che forse, proprio grazie a queste parole, ora è completamente compresa. Noi idealisti siamo un po' tutti dei Peter Pan, e con tutti i limiti che può comportare l'essere degli adulti bambini continuiamo a cercare la nostra isola che non c'è, continuiamo ad immaginarla, sperando che qualcuno si unisca a noi nel crederla possibile (non per nulla considero L'isola che non c'è di Bennato la Imagine italiana). Ed in quell'isola che non c'è vediamo quel mondo parallelo, simile a quello di alcuni nostri sogni, dove sono presenti molti di quegli elementi, di quelle persone, di quelle situazioni che qui mancano e che, nell'attesa che il nostro lottare con passione ed amore possa renderle presenti anche qui, lì convivono, con estrema serenità, con vero amore, con imparagonabile passione.

Chissà che un giorno, quando saremo in tanti ad affacciarci dalla finestra a guardare le stelle, queste possano piovere sulla Terra realizzando i nostri desideri. Del resto è questa la speranza di ogni persona che osserva una stella cadente solcare il cielo...



Stefano Tortelli

Verdi pascoli - Fratello pellerossa, fratellastro colono





Leggo da più parti, soprattutto sui Social Network, miriadi di post che puntualmente, tra la fine di gennaio e l'inizio di febbraio, riportano gli stermini perpetrati nei secoli dei secoli (amen) in pronta risposta a chi ricorda il massacro degli Ebrei da parte dei Nazisti. Faccio veramente fatica a comprendere questi gesti, a dar loro una connotazione. Sono raffazzonate apologie alle politiche di Hitler, portando avanti il puerile discorso "Ma anche loro han fatto questo"? E' un modo per sminuire l'importanza dell'evento che più ha caratterizzato la seconda guerra mondiale, poiché è solo una delle tante persecuzioni? E' un camuffato odio per gli Ebrei, ma mosso da altre motivazioni rispetto a quelle del nazional-socialismo? O è anche un approfittare del periodo del giorno della memoria per far finta di ricordare tutto e tutti e poi, per il resto dell'anno, pensare solo al presente?

E' stucchevole questa battaglia a colpi di post e condivisioni, e visto l'andazzo generale, principalmente su Facebook, non mi meraviglierei che fosse anche giostrato in un'ottica commerciale, giusto per procacciarsi nuovi mi piace a pagine qualunquiste che si travestono da portatrici di verità. E come la maggior parte delle persone cade nei tranelli dei mass media manovrati dal Potere, anche sui social gli utenti si fanno influenzare dalle pagine che hanno schiere di "seguaci", pronti a diffondere non tanto il contenuto quanto il nome della suddetta pagina. Ma tutto questo, alla coscienza ed alla coscienza delle persone, porta realmente a poco, ed anzi porta ad un ulteriore anestetizzarsi dell'interesse nei confronti di qualsivoglia questione.

Negli ultimi giorni ho parlato dello sterminio degli Ebrei, degli atti terroristici dell'agosto 1945 perpetrati in Giappone dagli Stati Uniti e dell'epurazione totale dei Catari nell'Occitania, ora ho intenzione di aggiungere un'altra triste storia di ieri: quella degli Indiani d'America.

A volte mi chiedo cosa possa aver pensato il primo Indiano d'America (Nativi Americani è forse il termine più appropriato, ma universalmente i nativi del Nord America sono conosciuti come Indiani o Pellerossa, e per cui utilizzerò questi due termini, anche per circoscrivere il mio raggio d'azione) quando i primi inglesi ed i primi americani si sono insediati nelle loro terre. A differenza delle popolazioni del Sudamerica, le tribù Pellerossa erano per lo più nomadi, gli unici monumenti che hanno costruito sono delle cripte, e quindi se è vero che non avevano delle città da difendere, è vero anche che l'intero Nord America era la loro terra. Perché seguivano le mandrie dei bisonti durante le loro transumanze, si contendevano i territori di caccia con le altre tribù e con gli animali feroci, seguivano il ciclo delle stagioni sia con le attività temporali sia con quelle religiose. Recenti studi sostengono che il primo vero contatto tra gli europei ed il nuovo continente ed i suoi abitanti sia da pre-datare di qualche secolo, al tempo dei Vichinghi, che una volta raggiunta la Groenlandia percorsero a piedi l'intera landa, attraversarono l'attuale Canada e raggiunsero i territori dove ora sorge la città d New York. Vennero però scacciati, i Vichinghi, anche perché la loro indole non era tanto diversa da quella dei Pellerossa: non intendevano espandersi, non intendevano soggiogare altre popolazioni, si limitavano al massimo ad alcuni saccheggi ed al rapire più autoctoni possibili, di certo non era nei loro piani creare una nuova Vikingland altrove. Secoli dopo, però, nei territori occupati da una trentina di diverse tribù indiane giunsero un altro tipo di europei: più subdoli, più assetati di potere, più desiderosi di ricchezze. Ma soprattutto più evoluti militarmente, economicamente e politicamente. 

All'inizio la convivenza non era stata particolarmente violenta, poiché gli Europei si stanziarono principalmente sulle coste orientali dell'America settentrionale, creando avamposti qua e là in attesa di nuovi pionieri che potessero continuare ad esplorare il territorio. Del resto non dev'essere semplice avanzare per migliaia di chilometri nel cuore di nuove regioni, mai esplorate e ricche di pericoli, perciò il procedere dei colonizzatori fu tutto sommato lento e quasi svogliato. Ad accelerare i processi di colonizzazione contribuirono sicuramente le cadute degli imperi precolombiani del Sud America, poiché se dapprima le guerre le nazioni europee se le facevano tra loro e sui loro territori, da quel momento venivano fatte in parallelo: se gli Spangoli ed i Portoghesi si erano impossessati delle terre dal Messico in giù, gli Inglesi, i Francesi e gli Olandesi non potevano di certo stare lì a guardare, dato che le ricchezze che gli iberici avevano conquistato tra lo Yucatan e le Ande facilmente sarebbero state convertite in nuove armi e nuove flotte commerciali da muovere contro le vecchie monarchie europee. E perciò, se il Sud America parlava un latino spagnoleggiante, il nord doveva per forza essere francofono ed anglo-germanofono. Ecco, la politica avanzata dell'Europa, eccolo, il proto-capitalismo con connotazioni coloniali. Durante le esplorazioni del Nord America grandi miniere d'oro fecero luccicare gli occhi dei bianchi, e si sa che potere abbia l'oro sull'uomo: gli occhi luccicano, ma lui luccica di più, così tanto da acciecare la coscienza ed alimentare sogni di gloria e ricchezza. Bastò parlarne nel Vecchio continente per far giungere migliaia e migliaia di uomini pronti a tutto pur di arricchirsi ed arricchire il proprio Stato d'origine, che ben presto sarebbe stato tradito in un'ottica autarchica finemente camuffata da indipendenza. E così, prima vi furono le guerre tra francesi ed inglesi, poi tra gli inglesi d'America e gli inglesi d'Europa: perché le prime colonie cominciarono ad organizzarsi, a desiderare un'autosufficienza, a volersi liberare del giogo inglese. E così cominciarono a sorgere i primi Stati, che tutti insieme, appassionatamente, combatterono per la propria indipendenza dalla Corona britannica. Gli Stati Uniti d'America nacquero così dal sangue, versato su una terra che non era madre di nessuno dei due contendenti ma che si ritrovò, tutto ad un tratto, dei figliastri adottati nei peggiori orfanotrofi d'Europa. 

C'era comunque ancora tanto spazio, e sebbene vi fossero state alcune scaramucce tra alcune tribù ed i nuovi americani, tutto per qualche anno procedette liscio. In verità i primi conflitti riportati sono però datati 1775, anno in cui cominciò la Guerra d'Indipendenza Americana, ma i fatti più gravi avvennero nel XIX secolo. Considerate che all'inizio della Guerra d'Indipendenza, le colonie erano tredici e che queste sarebbero state i primi tredici Stati Uniti d'America. Ecco, ogni nuova stella sulla bandiera statunitense può idealmente rappresentare la fine di una tribù pellerossa. Come scrivevo prima le tribù native erano circa una trentina, gli Stati Uniti erano tredici, e quindi, alle cinquanta stelle non ci si arriva per poco. 

Il discorso appena fatto è puramente simbolico, ma non si discosta poi tanto dalla realtà storica. Più gli Stati Uniti si ingrandivano, più i pellerossa si ritrovavano costretti a spostarsi, a combattere, a morire per la loro terra, per la loro cultura, per la loro libertà, vennero calpestati, imprigionati, schiavizzati, torturati, violentati. Venne dato fuoco alle loro tende, abbattuti i loro totem, sterminate le mandrie di bestiame che rappresentavano la loro principale fonte di cibo. E tutto ciò venne fatto grazie ad armi estremamente più potenti, grazie ai cavalli, ed anche grazie alle malattie che i coloni portarono da casa.

Dal 1775 al 1890, da est ad ovest, una dopo l'altra caddero le tribù indiane, uno dopo l'altro morirono valorosamente i loro capi, uomini valorosi fedeli alle proprie tradizioni ed alla loro madre, massacrati da questi figliastri estremamente diversi da loro. Sand Creek, Woundeed Knee, Little Big Horn. Nuvola Rossa, Toro Seduto, Piccolo Corvo. Luoghi e nomi che sono i simboli di un popolo, di una cultura e di una libertà che non c'è più.

Dalla loro nascita, quindi, gli Stati Uniti null'altro hanno fatto che recar danno ovunque siano andati, aggiungendo milioni e milioni di scheletri nel loro armadio. Scheletri di Nativi americani, di africani deportati e fatti schiavi, di messicani, di europei, di giapponesi, di vietnamiti, di coreani, di arabi. Una mattanza che dura da due secoli e della quale faremmo tutti volentieri a meno, ma della quale invece loro si vantano con tanto di film propagandistici in cui gli indiani prima impersonano i nazisti e poi i comunisti, e di una storia in cui i loro eroi sono i generali che compirono quei massacri.

Per fortuna, sebbene sia una piccola consolazione, nel resto del mondo ancora vengono ricordati i Sioux, gli Apache, i Navajo, ancora si ricordano i nomi dei loro condottieri, ancora si racconta la storia delle loro culture, ancora si ricorda con orrore i luoghi dei massacri. 

Se c'è una giustizia divina, i Verdi pascoli, ora, gli indiani se li stanno godendo nell'aldilà, senza più nemici, senza questo figliastro che si è fatto adottare dalla madre America e che ora ne sta stuprando il nome ed il corpo.


Stefano Tortelli

giovedì 5 febbraio 2015

Firme storiche per nuovi venti




Sto cominciando a rendermi conto che questo blog sta diventando sempre più monotematico, sospinto alla deriva dai venti costanti dei miei ideali; ed anche quando non parlo esplicitamente di questione meramente politiche, la mia natura non può esimersi dal manifestarsi. Ne sono esempi innegabili i post dedicati alla musica, dove tra la miriade di artisti che ascolto mi sono ritrovato a scrivere di quelli che più hanno dedicato la loro arte alla nobiltà degli ideali, della lotta, della protesta, della glorificazione di un sistema sociale che sempre più si crede utopistico. 

E così pare perché è così che chi invece non vuole vederlo nascere intende farlo passare. Non parlandone, dandolo per morto, occultandone i tentativi di rinascita, di riassetto. Poi vedi la Grecia e la Spagna e ti rendi conto che non è così, però ovviamente, fallito l'occultamento comincia la repressione. Ovviamente non armata, non ci si può mica permettere di far passare la democrazia occidentale come bavaglio alle altre espressioni: no, lo si fa con le restrizioni economiche, lo si fa minando la stabilità interna del Paese, lo si fa condizionando il sentimento comune, non tanto di chi è contrario a prescindere ma di chi vorrebbe assistere alla nascita di una realtà simile anche all'interno dei propri confini. Per fare un esempio, ho letto più critiche a Tsipras da parte dei "comunisti" italiani che da parte degli esponenti di altri schieramenti politici. Pazzesco, no?

Per altre realtà la cosa è ancora diversa. Il 22 gennaio, in Israele, è stato firmato l'accordo tra il partito Hadash ed i partiti arabi per dar vita ad una corrente unitaria che ha lo scopo di interrompere l'egemonia del potere sionista e filo-occidentale nella Terra Promessa, laddove, in seguito alla proclamazione di Israele come Stato Ebraico, chi non è fedele alla Stella di David è considerato un cittadino di serie B: islamici, cristiani, induisti, atei, tutti di serie B. Con la creazione invece di una coalizione che ha l'interesse di battersi per la società israeliana e non distruggerla (un conto è essere israeliani, un conto è essere israeliti e sionisti), si punta a dar vita ad una realtà democratica, libera dall'imperialismo e dal colonialismo e da ogni matrice religiosa. Tant'è che Hadash è l'acronimo che sta a significare, in ebraico, "Fronte democratico per la Pace e l'Uguaglianza". Pace ed uguaglianza, due parole estremamente invise al potere occidentale ed alle sue creazioni sparse per il pianeta, che logicamente ha fatto in modo di tacere su questi fatti, focalizzando l'attenzione su ciò che succede a Gaza, sui così definiti "terroristi palestinesi", su una guerra lontana che sì, smuove le coscienze europee, ma che è comunque distante anni luce dalla nostra realtà, mettendoci nella condizione di non agire, di non pensarci, di schierarci da una parte e dall'altra ma stando comunque sopra, ad osservare. 

Quest'alleanza "islamicomunista" può sembrare strana, come strano sembrava il compromesso storico tra il PCI e la DC in Italia, ma se questo può significare la destabilizzazione ed il successivo crollo delle potenze di destra capitaliste, ben venga. Troppo spesso ci si dimentica che nel nostro Comitato di Liberazione Nazionale, durante la seconda guerra mondiale, collaborarono democristiani, lealisti, comunisti, anarchici, con lo scopo di porre la parola fine alla dittatura fascista ed allo Stato fantoccio dell'RSI. Che poi non è che ce ne si dimentica, è che non vogliono che ce ne ricordiamo...

Spero vivamente che questo asse tra i comunisti e gli arabi israeliani possa durare, possa mettere in pratica i suoi intenti, possa creare un'opposizione concreta dalle strade ai palazzi del potere, così da porre fine ad una guerra che, di sto passo, può diventare centenaria, continuando a mietere vittime sia ebree sia islamiche, ma ovviamente tra i poveri, i bambini, i bisognosi. 

Ce la potete fare. Se lo volete, ce la potete fare. Anche perché la Palestina, la vostra madre patria, è la stessa. E voi sì che la amate, voi si che la volete proteggere, voi sì che volete renderla un luogo sicuro. 




Stefano Tortelli