lunedì 11 maggio 2015

I Vent'anni dell'Orso, la mia seconda casa





Esiste sempre un luogo, o meglio un locale, al quale leghi parte della tua vita, della tua storia, e che quindi, implicitamente, contribuisce alla tua formazione, alla tua crescita, determinando in più modi l'essenza del tuo Io. Basta pensare al fatto che quando abitualmente si frequenta un locale inevitabilmente si ha modo di entrare in contatto con chi, come te, lo vive soventemente: la clientela, i baristi, chi va a suonarci. E per cui si viene a creare una vera e propria cerchia di conoscenze, che gravita attorno a questo posto, che contribuisce al rendere allo stesso tempo il posto in questione migliore o peggiore. 

Da circa otto anni L'Orso di Vigone è per me questo luogo: è il ritrovo, è la base dalla quale partire con gli amici per altri posti, altri paesi, a volte altre regioni; ma spesso oltre che essere il ritrovo è anche e soprattutto la meta delle mie serate, delle serate con i miei amici più cari, che con il passare dei mesi diventano sempre più numerosi proprio perché lì, nel dehor o ai tavolini fuori dall'entrata, ci siamo conosciuti, abbiamo cominciato a scherzare insieme, a bere insieme, e poi a parlare di cose più serie. Ne è un esempio lampante il molto citato (nelle pagine di questo blog) Ivan, che se non fosse stato per l'Orso probabilmente non avrei mai conosciuto, ed il discorso riguardante Ivan vale anche per Valentina, Beppone, Sara, Bruno, Annalisa e via dicendo. Ed anche l'Orso è arrivato un po' per caso nella mia vita: erano le prime sere che si usciva anche in settimana, nonostante la scuola, ed ovviamente anziché andare fino a Saluzzo si preferiva restare nei paraggi, anche perché ancora si era senza macchina ed a turno il padre mio o del Biondo doveva venirci a prendere. L'Orso era uno dei due locali che frequentavamo in quel periodo, e quando chiuse l'altro ovviamente si fecero più frequenti le nostre serate all'Orso. Quando poi finalmente si ebbe per le mani quella tessera rosa che è sinonimo di indipendenza, l'Orso divenne una costante delle nostre settimane. Anche perché già avevamo alcuni amici di Vigone e dintorni, e per cui trovarsi lì era la cosa migliore, perché oltre tutto si riusciva ad unire il bello dell'essere con CHI si voleva essere ed il bello dell'essere DOVE si voleva essere. Eravamo ancora tutto sommato dei giovincelli, ma a forza di passare lì buona parte delle nostre serate ci ritrovammo ad avere la possibilità di interagire con gente più grande, e così più generazioni si erano trovate a venire a contatto, a scambiarsi le esperienze, a darsi consigli, a confrontarsi. Perché spesso ad un tavolo ci si ritrova con alcuni che hanno qualche anno in meno di noi ed altri che ne hanno anche venti in più, e per cui, dato che spesso si parla di musica, sentirsi raccontare il tour degli Iron Maiden del 1986 o il concerto dei Pink Floyd del 1994 è qualcosa di meraviglioso. Perché comunque l'Orso, forse non tanto per scelta ma perché così è andata, è frequentato da persone che hanno tante cose da dire, da raccontare, da condividere, e bene o male un po' tutti noi ci siamo arricchiti ed abbiamo arricchito chi ci ha ascoltato, e soprattutto abbiamo reso l'Orso un bel posto dove chiacchierare, scherzare, a volte cantare, altre suonare. 

Ma in verità la gran parte del merito dell'Orso e del suo successo in questi suoi vent'anni, che sabato sera si sono solennemente ed alcolicamente celebrati, sta in chi l'Orso l'ha fatto nascere, sta nella voglia di renderlo ogni giorno più accogliente, più piacevole, mettendo spesso nella condizione molti di noi a chiedersi perché si dovrebbe andare da qualche altra parte quando c'è l'Orso? Perché l'Orso è come una seconda casa, è quel posto in cui a qualsiasi ora del giorno o della sera sai che puoi fare quel bel discorso, come quelli che spesso mi capita di fare con Angelo, ma allo stesso tempo puoi parlare dei buoni vecchi Litfiba con Domenico ed Alessio, di calcio, e di mille sciocchezze ma anche tantissime cose interessanti. E poi si beve bene, spesso e volentieri, si bevono i migliori mojito della zona che nulla hanno da invidiare a quelli di alcuni locali di Torino, si mangia bene, e per cui cosa manca all'Orso per essere considerato una seconda casa?

Nulla, anche perché, almeno per quanto mi riguarda, anche quando si parla di politica mi trovo spesso d'accordo con chi l'Orso lo gestisce e buona parte delle persone che lo frequentano, rendendolo quindi un perfetto luogo in cui dar vita a dei Simposi, più alcolici che mangerecci, che talvolta durano per ore intere, anche dopo l'orario di chiusura. Perché ormai ci si conosce quasi tutti, ed anche quando pensi di rimanere da solo al tavolo spunta sempre un volto amico a farti compagnia... e se proprio questo non succede, dietro al bancone c'è sempre un buon amico, oltre che un ottimo barista, con cui fare due chiacchiere e sentirti, ancora, nuovamente, a casa.

Tra l'altro, l'altra sera, ripensando ad alcuni bar che nelle canzoni, nella letteratura e nei film vanno a rappresentare il tipico luogo in cui ci si trova e si passa parecchio tempo insieme, non ho potuto non paragonare l'Orso a quello dei quattro pensionati seduti al tavolino della Vecchia Città di De André, o al bar di Guccini nel film Radiofreccia, o ancora a quel famoso "Stessa storia, stesso posto, stesso bar" degli 883. E quando, soprattutto nelle canzoni, i contorni immaginari dei luoghi descritti vanno a coincidere con quelli reali dei luoghi che frequenti, allora non vi è alcun dubbio che quel posto, ormai, è parte integrante della tua storia, della tua vita, del tuo Io.

Grazie all'Orso, grazie a Domenico, ad Angelo, ad Alessio, a Massimo, a Ricu, grazie alle cameriere, da Saieda a Federica, grazie a chi lo frequenta. Grazie, ed auguroni, sperando che tra trent'anni ci si ritrovi a festeggiare il cinquantenario! Magari Claudio, Biondo, Simo ed io non saremo pensionati, ma saremo comunque mezzi avvelenati... come i pensionati di De André!!! 




Stefano Tortelli



70 anni di ipocrisie, di mezze verità, di irriconoscenza





Il 9 maggio dovrebbe essere una data importante nel calendario politico-storico di tutto il mondo, una data che in sé racchiude un significato ben preciso, una conquista fondamentale per l'uomo, una sonora sconfitta per il più grande pericolo che l'umanità ha dovuto affrontare nel corso della sua storia. Il 9 maggio 1945 Berlino fu conquistata dall'Armata Rossa Sovietica, ponendo fine una volta per tutte alla terribile egemonia nazista che per un decennio aveva messo sotto scacco il pianeta intero, e soprattutto l'Europa. Perché il 9 maggio Keltel, generale tedesco, firmò la capitolazione della Germania, arrendendosi agli Occidentali ed ai Sovietici, veri conquistatori della Germania Nazista. 

Logicamente qualcuno potrà chiedersi perché considero l'Unione Sovietica l'autentica artefice della disfatta di Hitler, e la risposta è celata in ciò che successe poche settimane prima dell'inizio della guerra: il 3 settembre del '39 le truppe naziste dichiararono guerra alla Polonia, portando quindi da una parte i Sovietici ad invadere il territorio polacco e gli Alleati (Francia, Regno Unito e Stati Uniti d'America) ad aprire le ostilità nei confronti della Germania. In partenza tra Russi e Tedeschi vigeva un patto di non belligeranza, il famoso trattato Molotov-Von Ribbentrop, firmato pochi giorni prima dell'inizio del conflitto. Si può quindi parlare in un certo senso di neutralità reciproca, ma la verità è che Hitler decise di muovere i primi passi del più grande conflitto mondiale mai verificatosi proprio in Polonia per anticipare le eventuali mosse di Stalin per garantire la totale difesa del Blocco Socialista. Quando quindi le prime armate tedesche varcarono i confini della Polonia, i Russi non poterono che entrare in guerra anche loro, proprio per non ritrovarsi in poco tempo minacciati direttamente, sul proprio territorio, dalla potenza tedesca. In tutto questo ci si può chiedere cosa possa centrare la povera Polonia, ma un po' la geografia ed un po' gli assetti politici di quel momento ne possono spiegare il passivo coinvolgimento. Hitler non era stupido, e di questo bisogna dargliene atto: non fosse stato un folle, uno psicopatico, con un progetto tanto ambizioso quanto inutile, forse sarebbe stato uno dei più grandi strateghi e condottieri della storia dell'uomo. Non si può però negare che fosse a suo modo geniale, soprattutto nel sapersi districare tra due blocchi così potenti come quello Occidentale e quello Sovietico: di fatto, nei primi anni della sua ascesa, tutto l'Occidente capitalista vedeva in Hitler più che una minaccia una risorsa, perché oltre ad essere un razzista, un fascista ed un dittatore, era soprattutto un anti-comunista, ed ai potenti dell'Occidente questo era più che sufficiente per avere nei suoi confronti una malcelata simpatia. Tant'è che Hitler poté fare il buono ed il cattivo tempo per diversi anni, anche perché fu abile a sembrare, almeno per il primo periodo, non tanto lui il capo dell'alleanza fascista europea, ma un semplice fido scudiero di Mussolini, distraendo così l'opinione pubblica, confondendo le acque, rimanendo per diverso tempo nelle retrovie. Quando ebbe modo di affacciarsi totalmente sul panorama internazionale era ormai troppo tardi: conquistò l'Austria, promulgò le leggi razziali, disponeva ormai dell'esercito più grande e meglio organizzato del mondo. Ed in lui erano riversate tutte le speranze dell'Occidente: "Dai che finalmente abbiamo la nostra speranza di sconfiggere il comunismo". 

Nel '39, nei primi giorni di agosto, le linee telegrafiche tra Mosca e Londra erano decisamente movimentate: Stalin incaricò Molotov di prendere i contatti con i diplomatici inglesi per dar vita ad una morsa anti-nazista invincibile, in grado non solo di sconfiggere Hitler ma di metterlo nella condizione di non poter neppure cominciare la guerra. Perché Hitler era sì un pazzo, ma non uno sprovveduto. Solo che l'unica cosa che gli Alleati erano disposti a fare era ascoltare Molotov, ma assolutamente non avevano alcuna intenzione di allearsi con la Russia. Fu questa una mossa saggia? Direi proprio di no, e non è che lo dico per partito preso, ma perché sono le decine di milioni di morti che si sarebbero potute risparmiare a parlare per me. E lo è anche la storia, che ci mostra come nel '45 sia successa più o meno la cosa che sin dall'inizio speravano di mettere in atto i Sovietici: accerchiamento, invasione e sconfitta del nazismo per mano dei Capitalisti e dei Sovietici. 

I sei anni che hanno visto muoversi milioni di soldati in Europa ci raccontano che Hitler, dopo aver occupato la parte occidentale della Polonia (mentre l'Armata Rossa prese possesso della zona orientale), si vide recapitare la dichiarazione di guerra degli Alleati (che intervennero più per il fatto che l'Orso russo si era svegliato che per altro), e così prima conquistò anche la Francia e poi occupò gran parte dell'Europa con i suoi generali. Dopodiché, sistemato il nemico occidentale, si dedicò alla campagna di Russia, che cominciò nel 1941 e finì con la gloriosa vittoria dell'Unione Sovietica nel 1943, e che sostanzialmente diede il colpo di grazia al Fascismo ed al Nazismo. Da lì in poi, i Tedeschi cominciarono a perdere territori, altre migliaia di uomini e soprattutto l'appoggio della popolazione tedesca: perché con undici milioni di soldati in meno (sui diciassette che erano stati impiegati sul Fronte Orientale) il controllo dell'intera area di influenza nazista non poteva che essere meno efficace. Soltanto gli errori strategici degli Stati Uniti e del Regno Unito rallentarono la ritirata tedesca dai territori occupati (come ad esempio accadde nel Sud Italia, quando a forza di tentennamenti nella risalita dello Stivale si è dato modo ai nazifascisti di risistemarsi lungo la Penisola, portando ad uno spreco di vite italiane, americane e tedesche inutile...sì, anche tedesche, perché bisogna ricordare SEMPRE che chi muore in battaglia è un soldato, non Stalin, non Hitler, non Mussolini, non Roosvelt). E per cui ecco il D-Day, ecco la Liberazione della Francia e dell'Italia, ecco le "gloriose" battaglie tra tedeschi ed Alleati, con questi ultimi quasi sempre vincitori, fino a raggiungere la tanto agognata Berlino. Ma come sciacalli (e del resto tali si sono confermati con il Giappone) hanno sparato, anzi bombardato, sulla Croce (uncinata) Rossa, ormai ferita a morte ed in attesa del colpo di grazia. 

Non è mai il boia ad essere il colpevole della morte di un condannato alla pena capitale, ma chi ha fatto in modo che questa pena capitale dovesse venir eseguita. Così la "colpevole"  della sconfitta del Nazismo è stata l'Unione Sovietica, e, a dirla tutta, è stata anche lei a dare il colpo di grazia all'egemonia tedesca. Se poi si vuole credere alla storia che ci viene insegnata è un altro discorso. Io non racconto la storia, io racconto le verità, e le verità sono queste: documentate, riportate, disponibili. E se non bastasse tutto ciò, è sufficiente guardare i successivi settant'anni per comprendere come la storia sia sempre stata la stessa: a turno diversi Stati sono stati incaricati di mettere nella condizione la Russia di inciampare, di barcollare, salvo poi essere i primi ad intervenire contro lo Stato stesso dopo che aveva fallito la sua missione primaria. E' successo con Al Qaeda, è successo con Saddam Hussein, e succederà ancora. E del resto se può essere considerato di parte il mio discorso quando si parla dei fallimenti del capitalismo nella guerra al socialismo nell'Europa orientale, è innegabile il ruolo svolto dagli Stati Uniti a Cuba, in Cile, in Argentina per soffocare la voglia di socialismo dei Sudamericani. 

Sabato si sono svolti i festeggiamenti del settantesimo anniversario della Seconda Guerra Patriottica (la prima fu quella contro Napoleone) del Popolo Russo, anche conosciuta come Giornata della Vittoria. A San Pietroburgo ed in tante altre città russe (e non solo) centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per festeggiare e per ricordare i trenta milioni di morti, tra soldati e civili, che hanno perso la vita durante l'invasione nazista del loro Paese, della loro Terra, della loro Madre. C'erano delegazioni politiche di buona parte del mondo, soprattutto a San Pietroburgo, ma mancavano quelle degli altri "vincitori" della seconda guerra mondiale, mancavano quelle degli italiani, mancavano quelle dei Paesi capitalisti. Non c'erano quindi i grandi potenti del mondo, ma in quelle piazze era rappresentata gran parte del mondo: la maggioranza degli abitanti della Terra era rappresentata durante i festeggiamenti, e perciò bisogna presupporre che per la maggior parte della popolazione terrestre questa ricorrenza è importante. Ma come dissi in un post riguardante il riconoscimento della Palestina, per ora la maggioranza assoluta conta poco... proprio agli occhi di chi si considera democratico.

Ma arriverà il giorno in cui innanzi tutto questo evento verrà preso ad esempio in altre Nazioni (sarebbe bello se festeggiamenti simili si tenessero in Italia in quella che in un certo senso è la trasposizione italiana del 9 maggio, ovvero il 25 aprile), ed anche il giorno in cui la maggioranza assoluta conterà davvero qualcosa. 

Nel frattempo, rendo onore ad un Popolo da secoli si distingue per la sua grandezza, la sua forza ed il suo senso di appartenenza, e che non solo si difende ma auspica di migliorare anche il resto del mondo. Tantissimi auguri, fratelli Russi, e lunga vita alla vostra Patria. 


Ps: vorrei sottolineare che non credo siano tutti comunisti coloro che nelle piazze russe sabato hanno sfilato per ricordare il sacrificio dei loro nonni. Erano semplicemente Russi, consapevoli dell'importanza della memoria, della storia, della difesa della realtà. A differenza di noi italiani, che ce ne freghiamo altamente del 25 aprile... ma questa è un'altra storia...



Stefano Tortelli

giovedì 7 maggio 2015

Post numero 100: dedicato alle mie radici. A mia mamma ed a mio papà.






Questo è un post estremamente speciale, un post decisamente significativo, un post che potrebbe trattare di molti argomenti disparati se non fosse che rappresenta di per sé un traguardo importante, già di per sé insperato ma che mai avrei pensato di raggiungere in soli cinque mesi. E' il post numero cento, è il post delle tre cifre, è il post al quale, in senso metaforico, mi volto indietro e guardo il percorso già fatto. Come tutto è cominciato, il perché, il quando, il chi mi ha dato la spinta. Era il due dicembre quando aprii questo blog, e sotto le pressioni di Ivan qualche giorno dopo ho aperto anche la pagina Facebook ad esso dedicato. Poi è arrivata la pubblicazione dell'articolo su Finardi da Finardi stesso sulla sua pagina, i complimenti di molte persone che non conoscevo, e che proprio per questo ritengo estremamente sinceri, disinteressati, autentici. La stessa cosa è successa con quello dei Gang, poi è cominciata la collaborazione con Libera.tv, e sarebbe dovuta cominciare anche con ResetItalia non fosse stato per un problema di accesso al sito. Ma ci sono cose estremamente più importanti di queste, che sostanzialmente risiedono non tanto nella ragione dello scrivere, e tanto meno nel ciò che scrivo. Perché voltandomi indietro, di fronte a questo cento, sono andato anche più a ritroso, oltre al punto in cui la strada cominciava. E forse è ancora meglio definire il tutto come un fiume: dopo questi cento chilometri di corso d'acqua mi son girato, con le spalle rivolte verso la foce, ad osservare non solo la fonte, ma dentro la fonte. 

Nella fonte, nelle viscere più profonde che la animano, all'interno dell'immensa montagna che la ospita, ci sono due persone, c'è un amore, c'è la vita, il senso più profondo della vita. Perché alla base di tutto ci sono i miei genitori, mio padre e mia madre, le persone che mi hanno dato la vita, le persone che per prime hanno creduto in me, stimolandomi, spronandomi, a volte, forse, anche inconsapevolmente. Perché se è vero che idealmente io ora sono quel fiume, all'inizio di tutta la storia ero un animale che si abbeverava alla fonte, dissetava la propria gola con quella fresca e dolce acqua, così pura, così limpida, così meravigliosa. Mi rendo conto di non aver citato molto spesso Luciana e Marco, preferendo magari dedicare qualche riga in più alle professoresse di italiano, a mia nonna, agli amici, alle relazioni che mi hanno, nel bene e nel male, portato ad essere la persona che sono, con i miei pregi e con i miei difetti, ed anche con le mie contraddizioni. Ma tutta la sostanza, e soprattutto buona parte della forma, le devo a quella donna e quell'uomo che nell'amore mi hanno concepito, nell'amore mi hanno fatto nascere, e con amore mi hanno cresciuto, preferendo ai giudizi i consigli, premettendo sempre che le eventuali difficoltà, le eventuali rinunce, gli eventuali rimproveri, erano, innanzi tutto, atti d'amore, e non di odio. E, cosa più importante di tutte, per lo meno in questa prima parte della loro descrizione, è stato il loro darmi la possibilità di sbagliare, di sbagliare di testa mia, mettendomi nella condizione di aver sì la libertà di fare, ma anche di essere consapevole del fatto che, come da solo agivo, da solo avrei sbagliato. Mi hanno fatto il dono più grande dell'universo, la responsabilità: nei confronti di me stesso, in primis, ma anche nei confronti del mondo che mi circonda. 

In queste ultime due settimane ho avuto molte occasioni per parlare di me, della mia storia, del mio trascorso, perché in questo lasso di tempo, che sono sicuro si dilaterà con il passare dei giorni, ho potuto passare diverse ore con una persona estremamente curiosa, molto intelligente, e che soprattutto non mi conosceva minimamente e che non ha avuto alcun pregiudizio durante il suo percorso di avvicinamento. Così, più che sottolineare ciò che faccio, ciò che anima le mie giornate, il più dei discorsi hanno avuto come oggetto ciò che ho fatto, ciò che mi ha caratterizzato in passato. Del resto ognuno di noi è, nel presente, perché figlio di ciò che in passato ha fatto, e sarà, un giorno, in base a quel che oggi fa: le esperienze, il buono ed il cattivo, le influenze esterne, le varie prese di coscienza nei diversi momenti della vita. Ed andando sempre più a ritroso, a volte saltando a piè pari alcuni periodi per riuscire ad arrivare ai punti focali (visto che quando si sta bene il tempo sembra avere sempre una marcia in più...), non ho potuto evitare di citare la base, il sostegno primario, gli esempi fondamentali, l'ispirazione essenziale. I miei genitori, Marco e Luciana, sono due persone che hanno avuto un percorso estremamente diverso prima di conoscersi, che però, allo stesso tempo, li ha portati ad essere sufficientemente simili per essere compatibili al punto tale da stare insieme da trentacinque anni ed amarsi come se fosse ancora il primo giorno. E forse è proprio nell'amore che hanno trovato continue motivazioni per preservare la loro essenza: perché loro sono tra le poche persone che ancora ragionano attraverso i "nonostante", che quando si dicono "Ti amo" non pensano più di tanti ai mille motivi per cui si amano ma, consci del fatto che logicamente c'è sempre qualcosa di soggettivamente imperfetto nell'altra persona, sanno che il loro è un "Ti amo nonostante...". E non credo esista forma di amore più grande di questa, perché libera, perché incondizionata, perché non ha fondamenta deboli dettate da pochi perché ma eventualmente minime crepe causate dai nonostante, ma mai sufficienti per trasformare il "nonostante" in "non". 

Ed in un ambiente del genere è già di per sé semplice crescere, sentirsi a proprio agio, riuscire ad esprimersi. Ma soprattutto in questo contesto  è stato facile essere curiosi, anche perché davanti alla mia curiosità raramente non ho trovato una risposta pronta ed esauriente da parte dei miei. Perché mio padre è una di quelle persone che basta ascoltare dieci minuti per poi desiderare di passarci le ore insieme a parlare, anche di argomenti che magari in partenza non ti interessano ma che lui, non si sa come, sa rendere estremamente interessanti, coinvolgenti. Mio padre sarebbe potuto essere un grandissimo oratore, anche perché accanto alla serietà, all'intensità dei suoi discorsi ed alla capacità di farti pendere dalle sue labbra sa far ridere come poche altre persone al mondo, perché oltre ad essere a conoscenza di innumerevoli nozioni ha anche un'inventiva pazzesca, che è tangibile quando dal nulla ti crea (perché dire costruisce è in un certo senso riduttivo per lui) un oggetto, un disegno, una composizione floreale, ma è sorprendente ed ancor più efficace quando è intangibile, quando è dettata dalle sue parole, soprattutto nello scherzo, nella battuta, nel non-sense. Ed in tutta questa grandezza difficilmente si riesce a scorgere l'emotività, che però emerge quando, paradossalmente, riesce ad essere estremamente lucido, razionale. C'è chi, in certe situazioni, potrebbe pensare, parlando con lui, che alcune sue frasi, che possono sembrare sentenze, siano dettate da cinismo o spietatezza: in verità sono dettate dall'immenso amore che prova per ciò che lo circonda, e che come un novello Machiavelli punta a difendere, adottando qualsiasi mezzo necessario e disponibile. Perché lui è pragmatico, consapevole sia di quali siano i problemi sia di quali siano le soluzioni più adatte, e nella sua razionalità mantiene innanzi tutto una capacità di essere oggettivo disarmante: perché magari può sembrare cattivo, ma prima di qualsiasi considerazione soggettiva dettata da chi lo ascolta o lo osserva agire lui è GIUSTO. 

E mia madre, mia madre è colei che alimenta ogni mia speranza, è colei che mi spinge a crederci, è colei che sebbene attorno ci sia solo il buio riesce in qualche modo a trovare la luce, e se luce proprio non c'è è lei a crearla. Con i suoi occhi, con i suoi sorrisi, con i suoi abbracci, con la sua voglia di non arrendersi mai, nemmeno nel peggiore dei momenti. Lei è la classica persona che diventerebbe in poco tempo la migliore amica di chiunque, perché con lei si può parlare di tutto, con lei ci si può totalmente esporre perché nel suo vocabolario il verbo "giudicare" non esiste. E questo non significa che non sappia distinguere il bene dal male, ma fino a che ha argomenti disponibili cerca di trovare le motivazioni del bene e del male, scava nel profondo, va al di là delle barriere, non ponendosi limiti e non ponendo ad altri alcun limite. Mia madre, ora che non c'è più mia nonna, è probabilmente il perno della famiglia allargata: è moglie e confidente, è madre e confidente, è sorella e confidente, è cognata e confidente, è zia e confidente. Lei è, e trova sempre il modo di far sì che anche gli altri possano cercare di essere, di splendere, di dare. Lei è stata la prima a credere in me quando da piccolo cominciai a cantare, e pur di far sì che io potessi continuare ad allenare il mio talento ha passato ore con me a cantare. Lei è stata la prima a credere in me quando, appena imparato a scrivere ed ad articolare le frasi, cominciai a scrivere le mie prime storielle, avventure in modi lontani o fantastici. Lei ha nutrito ogni giorno la mia sete di conoscenza, leggendomi libri, aiutandomi poi a leggerli ed infine spiegandomeli quando non li capivo. Lei ha instillato in me la maggior parte delle mie passioni, dalla musica alla poesia, e lei mi ha insegnato ad accogliere le emozioni, dalle più belle alle più brutte, dandomi la possibilità di comprendere che non è importante che emozione si stia vivendo, ma che l'importante è viverle, sentirle, fino in fondo. E, cosa più importante di tutte, mi ha insegnato a ricercare la bellezza, non tanto dove è facile trovarla ma in quelle situazioni in cui, per gli occhi di qualcun altro, di bellezza non vi è nemmeno l'ombra. Perché lei, in tutto ciò che ha fatto, non si è mai fermata alla risposta che poteva derivare dalla domanda "Ho indovinato nel scegliere questa strada oppure ho sbagliato?": perché per lei, la cosa più importante, è sempre stato fare del bene, volere il bene, dare il bene, a più persone possibili. Perché se c'è una persona davvero BUONA al mondo, questa è mia madre.

Ed ecco, crescere con la Buona ed il Giusto è stato il più grande regalo che questo mondo potesse farmi, è stata la situazione ideale in cui formarmi, è stata la fonte migliore che il fiume che rappresento potesse avere. Un'acqua sì buona, ma anche sana, consapevole che, per poter scorrere, bisognava scavare nella montagna, emergere, ed aiutato dalle forze esterne aprirmi una via nella valle. Per poter sì far giungere il più lontano possibile la mia buona acqua, ma anche non fermarmi davanti agli ostacoli che si ponevano tra me ed i miei obiettivi, ovvero tutto ciò che di sbagliato avrebbe potuto limitarmi: e così mi sono infiltrato nella montagna, ho visto la luce del sole, ho lentamente creato il mio letto, abbattuto alberi, a volte curvandomi per evitare dei limiti troppo difficili da superare, ma mantenendomi sempre coerente e fedele alla mia missione. 

Prima di raggiungere il mare spero passino ancora tanti post, tanti giorni, tante esperienze, e spero che buona parte di questo tempo che manca al raggiungimento della foce io possa farlo con la fonte ancora viva e rigogliosa. Perché spesso ho parlato di eroi in questo blog, ma i più grandi di tutti, quelli che realmente si vorrebbe potessero essere immortali, sono proprio loro: Marco il Giusto e Luciana la Buona. Grazie, davvero, per questo meraviglioso percorso che mi avete invogliato a intraprendere e che tanto mi sta dando, in nome della bontà, in nome del giusto. In nome dell'amore.







Stefano Tortelli

martedì 5 maggio 2015

Red Hot Chili Peppers: il primo amore non si scorda mai





I miei primi quattordici anni di vita si potrebbero facilmente riassumere in tre fasi musicali, fortemente influenzate dai consigli musicali di mia cugina e da ciò che ai tempi passavano TMC2, All Music ed MTV. Già, quand'ero piccolo MTV ancora trasmetteva video musicali, aveva classifiche su classifiche, contenitori tematici, trasmissioni inerenti alla musica. Mi ricordo che quando avevo 12-13 anni c'era una trasmissione che si chiamava Select, era in programmazione alle cinque di pomeriggio, durante la quale si poteva scegliere il video da far trasmettere tra i cinquanta precedentemente selezionati, e mai me ne perdevo una puntata, se non quando dovevo andare a karate. E sempre MTV ed All Music aprivano le mie giornate: appena sveglio, mentre mi preparavo per andare a scuola, accendevo la tv ed ascoltavo i pezzi che passavano. I primi anni della mia vita erano stati caratterizzati dalla forte presenza degli 883, tanto che ancora ora mi ricordo la maggior parte dei loro testi, le scalette degli album, e se Max Pezzali ripasserà a Torino probabilmente andrò nuovamente ad ascoltarlo. Perché hanno segnato un'epoca, hanno accompagnato molti momenti della mia infanzia, sono loro le prime parole che ho cantato a tre anni, e se ora canto è perché gli 883, per primi, mi hanno fatto innamorare delle canzoni e del cantare le canzoni. 

Dopo è arrivato Eminem: quando uscì The Eminem Show conoscevo il rapper americano soltanto per qualche video dei suoi lavori precedenti (canzoni come The Real Slim Shady, My name is o Stan), ma al primo ascolto di Without me fu subito amore. Non capivo nulla del testo, ma quel semplicissimo passaggio ripetitivo che fa da sostegno all'intera canzone era ipnotico, faceva gesticolare e muovere la testa a ritmo: era come se io fossi un cobra ed Eminem l'incantatore di serpenti in grado di farmi fare quello che voleva con la sua musica. Lo ascoltai tantissimo, tant'è che il disco di The Eminem Show diventò pressoché inutilizzabile a causa dei migliaia di passaggi che fece nello stereo e nel lettore cd portatile. Quando uscì la videocassetta del film 8mile i miei genitori me la regalarono e la vidi almeno una decina di volta, e quando successivamente uscì il dvd, anni dopo, con un settimanale, non potei fare a meno di comprarlo. Cominciai poi a comprare i primi giornali dedicati alla musica: era il periodo d'oro della rete televisiva All Music, tanto che iniziarono a stamparne una rivista, ed a fianco di Topolino e di alcuni libri per ragazzi diventò una mia lettura abituale, così come TuttoMusica.

TuttoMusica entrò per la prima volta in casa per caso, ed è doveroso citarlo in questo post perché il motivo per il quale entrò in casa rappresenta la svolta del mio interesse nel campo musicale. Nel 2002 era uscito By the way dei Red Hot Chili Peppers, ed entro la fine dell'anno erano stati pubblicati i primi due singoli con i relativi video: l'omonimo By the way e The zephyr song. Le ascoltavo, mi piacevano, ma ancora non mi avevano preso totalmente. Ma poi ecco la rivoluzione: un pomeriggio come tanti presentarono su MTV il nuovo singolo dei Red hot, Can't stop. Da lì fu amore, un amore totale, un amore che non avevo provato né per gli 883 né per Eminem. Perché il motivo per cui guardavo MTV ed All Music da quel momento era cambiato: non le guardavo per ascoltare musica e vedere video qualsiasi, le guardavo con la speranza di vedere QUEL video, di sentire QUELLA canzone. Una mattina ero in auto con i miei ,stavamo andando a Torino, mi sembra per una visita in ospedale, ed alla radio passò Can't stop: ero così felice di sentirla anche in via etere che mi ero quasi commosso. E qualche giorno dopo mio padre arrivò da lavoro con in mano un numero di Tuttomusica, quello dell'Aprile 2003, dedicato quasi interamente alle canzoni riguardanti la pace, perché era appena cominciata la seconda guerra in Iraq: a guardarne la copertina, che è attaccata ad un'anta dell'armadio, mi viene da sorridere, perché oltre ad una foto con diversi artisti italiani che si erano prodigati con messaggi e canzoni contro la guerra (e molti di questi artisti sarebbero poi diventati cardini della mia cultura musicale, da Morgan a Pelù, passando per i Modena City Ramblers e la Bandabardò), era anche riportata una frase di una canzone che assolutamente non conoscevo ma che poi mi avrebbe fatto commuovere parecchie volte pochi anni dopo:  Goodbye blue sky dei Pink Floyd. Ma non è tutto qui, anche perché altrimenti non avrebbe alcun senso citare tutto ciò: in allegato alla rivista c'era un cd che, dopo aver approfondito la conoscenza dei Red Hot, sarebbe diventato il mio preferito della band californiana. Era Mother's milk!! E così ebbi finalmente il piacere di ascoltare i Red Hot in qualsiasi momento del giorno, sebbene quell'album non fosse semplice da capire, da apprezzare totalmente, perché lo reputavo ancora troppo duro, violento, per le mie giovani orecchie. Intanto, anche mia cugina era venuta a conoscenza del mio amore incondizionato verso Kiedis e soci, perciò mi scaricò alcune loro canzoni, quelle fondamentali, e ne scaricò anche alcuni video, regalandomi poi per il compleanno il cd. E così avevo tutto ciò che mi serviva per conoscerli a pieno, per approfondirli. E con il tipico "inglese da canzone" cominciai a provare a cantare alcuni loro pezzi, ed in questo caso a venirmi poi in soccorso fu mia madre, che nelle pause a lavoro stampò alcuni testi che ancora custodisco in uno dei miei raccoglitori. 

Grazie ai Red hot aprii le porte del mondo del rock, ed in rapida successione cominciai ad ascoltare i Guns n' Roses (il cui Greatest hits fu il primo cd che acquistai con i miei soldi), i Nirvana, gli AC/DC, i Led Zeppelin, i Metallica, i Queen, i Pink Floyd. Grazie ai Red hot imparai,dopo il primo ascolto di una canzone , a tentare subito di ripercorrerne la linea vocale, a volte con risultati sorprendenti, altre fallendo miseramente, a seconda delle mie ancora grezze capacità e della mia voce ancora non totalmente formata (che però mi permetteva di cantare Bohemian rapsody dei Queen, cosa che ormai non posso più fare). E per questo motivo sento di dovere tanto a questo gruppo, anche il piacere dell'attesa dell'uscita del primo album che sarebbe uscito dopo averli conosciuti: era il 2006, da quattro anni non pubblicavano nulla di inedito (tranne il Greatest hits e il Live in Hyde Park) e ricordo che all'annuncio dell'uscita del nuovo album feci i salti di gioia, segnai sul calendario la data di uscita ed il giorno della pubblicazione mi fermai dopo scuola a Saluzzo, appostandomi davanti al negozio di musica in attesa che riaprisse. Mi portai dietro il lettore cd, in modo da ascoltarlo subito, perché avevo già atteso tanto e non potevo assolutamente far passare ancora mezz'ora, non era accettabile, assolutamente. E così feci il viaggio di ritorno a casa ascoltando il primo dei due cd, entrai in casa e me li gustai dalla prima all'ultima nota (quasi dimenticandomi di nascondere anche il regalo per mia madre per la festa della mamma, ovvero il disco di Bruce Springsteen): ero diventato un loro fan a tutti gli effetti. Ma per suggellare definitivamente questo amore dovetti aspettare ancora cinque anni: nel 2011 venne annunciata la pubblicazione del nuovo album, il primo della seconda era senza Frusciante, ed anche le date del tour. Italia: Roma e Torino. Guardai i prezzi, chiesi agli amici se qualcuno era interessato, ma costava parecchio, i biglietti andarono a ruba e per cui pensai che mi sarei dovuto limitare ad andare al Palaolimpico, sì, ma restando fuori. Poi però ci fu la svolta: una ragazza su Facebook, che sapeva che abito vicino a Torino e che amo i Red Hot, mi scrisse dicendomi che non poteva venire a sentirli e che aveva tre biglietti. In preda alla felicità cercai comunque di mantenere la calma: ero dai miei zii in quel periodo, e dovetti cercare di contenermi per non far sentire le mie urla di felicità per tutti i nove piani del condominio. Presi il telefono, chiamai Ivan ed il Biondo, tenendo un attimo in attesa quell'anima pia che risponde al nome di Arianna: "Ho la possibilità di avere tre biglietti per i Red hot al prezzo d'acquisto, che fate, venite?" "Boia faus, e ce lo chiedi? Certo che sì". Bene, dopo tre minuti scrissi ad Arianna, mi feci dare i suoi dati per mandarle i soldi ed io le mandai il mio indirizzo. Avevo i biglietti! Al concerto andai poi con i miei due fedeli compagni e colei che allora era la mia ragazza, anche lei sfegatata fan dei Peperoncini, e quel concerto fu memorabile. Tra i tanti bei ricordi che mi legano a quel concerto ce n'è uno che mi emoziona sempre in modo particolare: era già passato metà concerto quando, all'improvviso, inizia un arpeggio inconfondibile. Era Under the bridge, il Biondo da circa un quarto d'ora mi aveva raggiunto, e quando si accorse che stava per cominciare quella canzone mi guardò e mi disse: "E' la tua , Ste!!! E' la tua!!!!" Ci abbracciammo e la cantammo dall'inizio alla fine, tutta, in memoria dei tanti viaggi in pullman contraddistinti dal mio cantarla. 

Questo è il potere della musica, un potere che ho avuto modo di sperimentare con tanti altri artisti, di tanti generi diversi, dal cantautorato (ed ovviamente chi poteva esserci con me a sentire Guccini se non il Biondo?) al metal, dal folk al black, ma che mi è stato svelato, in tutte le sue forme, da loro: Anthony Kiedis, Flea, John Frusciante, Chad Smith. A volte mi sento quasi in colpa a non sentirli più così spesso come facevo in precedenza, ma poi, a conti fatti, almeno duecento passaggi all'anno per le mie orecchie li fanno sempre.

E dato che tutto è partito da questa canzone e da questo video, non potrei chiudere il post con una canzone diversa. E non è che non posso, più che altro non voglio!




Stefano Tortelli

lunedì 4 maggio 2015

Undercover: Reinterpretazioni d'autore

Metallica - Garage, inc. (1998)






Chiunque abbia imparato a suonare o abbia avuto il talento di cantare ha mosso i suoi primi passi con il microfono o lo strumento in mano eseguendo brani non originali, già scritti, già, suonati, già cantati. Come in qualsiasi arte bisogna cominciare partendo da qualcosa che già esiste, per poi eventualmente discostarsene, dando vita a qualcosa di proprio, dandogli poi il proprio marchio di fabbrica, inconfondibile, subito riconoscibile. Una propria firma, che sia nel modo di suonare, di cantare, di scrivere, di dipingere. Ciò vale per tutti, da chi stenta a sbarcare il lunario, oppresso dalle leggi di mercato e dal poco rispetto che c'è nei confronti delle band emergenti ed in generale nei confronti dei giovani musicisti, a chi ha fatto fior di milioni, riempiendo le arene e gli stadi di mezzo mondo, vendendo milioni di dischi, facendo emozionare milioni di fan. 

Eppure verso le cover c'è sempre un astio enorme, come se rappresentassero una mancanza di rispetto, un voler essere come l'artista che in origine ha scritto il brano, come se fossero solo delle esecuzioni, dei compitini, che nulla trasmettono se non la capacità o meno di poter fare un dato pezzo. A parte che il riuscire, ad esempio, a rifare una canzone dei Queen, tanto per citare un gruppo, è cosa da pochi, perché è necessario un cantante che abbia già solo il coraggio di cimentarsi in un compito così arduo, ma poi credo che sia molto superficiale ed estremamente irrispettoso verso chi fa le cover sostenere che sia semplicemente un riproporre qualcosa che è stato fatto da altri. Innanzi tutto bisogna, secondo me, considerare le cover come degli omaggi che vengono tributati da chi ripropone il brano a chi l'ha inciso per primo: un atto d'amore, di riconoscimento, di affetto, di stima. Certo, forse questo non vale per chi ha la classica scaletta rock anni '70-'80 con i soliti venti pezzi triti e ritriti ma giusti per far divertire per due ore la gente e non sbattersi più di tanto ad impararli e suonarli, ma, almeno per come vivo io il fare cover e come lo vedo in chi ci mette l'anima, il discorso precedente è probabilmente il caposaldo di chiunque scelga di eseguire un certo pezzo. Inoltre non bisogna sottovalutare la capacità di metterci qualcosa di proprio, di arricchirlo, di modificarlo, rendendolo, sebbene in piccola parte, qualcosa di personale: a volte bastano le emozioni che accompagnano il momento in cui lo si suona o lo si canta per renderlo diverso, per sentirlo proprio, eseguirlo e farlo ascoltare facendolo quasi considerare a chi lo riceve qualcosa che poteva benissimo essere autentico, inedito. 

Queste considerazioni spesso mi accompagnano quando vado a sentire un gruppo cover, oppure ascolto un album di qualche artista che ha deciso di tributare i propri idoli, o semplicemente una singola reinterpretazione, o traduzione, che null'altro fine ha se non essere proposta, a volte quasi per compiacere se stessi che l'ascoltatore. Anche perché ormai troppo spesso si reputa come un qualsivoglia prodotto ogni canzone che viene registrata, come se l'unico suo scopo fosse quella di far avere soldi a chi l'ha incisa, martoriando sostanzialmente ciò che è la vera funzione dell'arte, ovvero l'esprimersi creando, e creare lo si può fare anche rimodellando a proprio piacimento qualcosa che già esiste. Quando ancora, ad esempio, erano in voga i 45 giri, band come i Metallica o gli Iron Maiden registravano delle cover da inserire come B-Side, talvolta registrate live o comunque in modo molto approssimativo: facevano da contorno, non avevano alcuna pretesa, se non quella di essere attraverso la cover, essere in modo diverso rispetto all'A-Side, al singolo, alla propria creazione totalmente inedita. E vorrei soffermarmi sui Metallica, perché in questa particolare forma d'arte sono senza dubbio dei maestri: in un periodo non propriamente felice della loro lunga carriera hanno deciso di riprendere tutto il vecchio materiale cover pubblicato come b-side negli anni passati, registrarlo nuovamente, aggiustandolo e migliorandolo, ed inserendo alcune nuove cover appositamente scelte per la pubblicazione di un doppio album, il Garage, inc. Ebbene, delle ventisette canzoni che qui sono contenute non ce n'è una che non sia migliore dell'originale, non ce n'è una che si possa considerare come un riempitivo, non ce n'è una in cui non si percepisce la loro inconfondibile impronta, la passione che ci hanno messo a farla, il piacere nel tributare una volta i Motorhead, un'altra i Queen, un'altra ancora i Lynyrd Skynyrd. 

E queste sono un po' le cose che avevo voluto sottolineare quando scrissi riguardo il mio amico Ivan ed il suo progetto dedicato a Bruce Springsteen, sono le cose che dico di me quando mi ritrovo a cantare i miei idoli. E probabilmente sono le stesse cose che passano per la testa a chi reinterpreta in un tributo De André. E De André, in tutta la sua genialità, si è anche lui ritrovato a reinterpretare, previa traduzione, canzoni di altri: Cohen, Brassens, Dylan, il tutto grazie anche all'aiuto di quella meravigliosa donna che rispondeva al nome di Fernanda Pivano (ed alla quale prossimamente dedicherò un post del blog). La traduzione di un brano porta ovviamente ad una sua reinterpretazione, ad un aggiustamento della sua metrica, e la grandezza qui sta nel riuscire a rendere quasi intatto il messaggio originale, senza stravolgerlo, senza sgonfiarlo, ma nemmeno arricchendolo, sempre che non si voglia semplicemente adottare la musica (un po' come capitava a volte negli anni '60, quando i gruppi beat italiani portavano in Italia i successi anglo-americani cambiandone totalmente il testo). Ma in ogni caso ci va coraggio, che si sia degli artisti affermati o dei ragazzi a cui semplicemente piace emozionarsi ed emozionare cantando e suonando qualcosa che sentono come proprio anche se proprio non è. 

Quando ancora usavo Spotify avevo creato una playlist con centinaia di cover, e spesso passavo le ore a sentire l'originale e poi la reinterpretazione dell'artista di turno, con lo scopo non tanto di paragonarle dal punto di vista tecnico, ma cercando di carpire le emozioni di chi stava riproponendo il brano e analizzando anche le mie, di emozioni. E' difficile scegliere una canzone in particolare da considerare la portabandiera della mia tesi, ma visto che questa è forse una delle prime cover che io abbia mai sentito, eseguite tra l'altro da un altro grande gruppo che ha segnato parte della mia vita, opterò per questa. In questo caso, stiamo parlando di Sympathy for the devil dei Guns n' Roses che, in origine, era dei Rolling Stones: è sempre stato difficile capire quale fosse la più bella, e per cui mi son dovuto trovare nella "spiacevole" situazione di amarle tutte e due. Certo, il fatto che la versione dei Guns sia stata registrata per il film "Intervista col vampiro" la rende una chicca ed un collegamento ipertestuale meraviglioso, ma quella degli Stones è la mia canzone preferita del gruppo di Jagger, per cui....



Stefano Tortelli

"I want to believe" - Antichi alieni, archeologia proibita ed altre storie





Sin dall'apertura del blog ho desiderato trattare l'argomento extra-terrestri, tema che negli ultimi anni ho approfondito moltissimo grazie ad alcune serie di documentari, sia recenti sia di qualche decennio fa. Innanzi tutto voglio consigliarvi un film-documentario, che si rifà totalmente all'omonimo libro di Erich Von Daniken "Gli extra-terrestri torneranno", del 1970, nel quale sono riportati i più importanti elementi che sostengono la tesi dell'intervento alieno nell'antichità per dar vita all'homo sapiens ed alle civiltà arcaiche. Essendo di quarantacinque anni fa è carente di alcune scoperte recenti che hanno reso ancor più solido il discorso di Von Daniken, ma a dare un ideale seguito al film è stata poi girata negli ultimi anni una serie intitolata, in italiano, "Enigmi alieni", i cui contenuti, sebbene talvolta possano apparire un po' forzati, non cadono mai nell'assurdo, nel sensazionalistico, nel patetico. Credo però che sia necessario in primis fare un piccolo discorso riguardante questo mio forte interesse verso la tematica, poiché dietro ad ogni passione e curiosità c'è sempre una storia, una premessa, un fatto che rende sensibili, affascinati (fino ad essere convinti) verso una teoria, un pensiero, un'idea, un oggetto, una persona. 

Ho cominciato a guardare la serie "Enigmi alieni" per caso: una sera non riuscivo a prendere sonno, così feci una piccola ricerca online per trovare alcuni documentari che potessero conciliare il sonno, e così capitai su una puntata della serie. Ovviamente accanto alla parola "documentario" scrissi "alieni" (o forse "ufo"), perché se è vero che verso tante questioni sono stato e sono scettico, mai lo sono stato nei confronti dell'esistenza della vita al di fuori del pianeta Terra. Da piccolo, paradossalmente, gli alieni erano ciò che più mi spaventava: più dei fantasmi, più dei mostri, più delle persone cattive. Gli alieni erano un mio incubo ricorrente, ed addirittura una notte sognai, all'età di cinque anni, che era in atto una sfida epica tra loro e noi per la conquista di una piccola luna che, casualmente, si trovava nel mio giardino: c'era un sacco di gente a casa e tutti erano a testa in su a guardare le navicelle spaziali, mentre io ero terrorizzato perché, oltre al fatto che eravamo minacciati e fosse ormai vicina la fine del pianeta, gli alieni avevano anche rapito mia zia!!! I sogni di una persona sono ovviamente dettati dalle emozioni e dalle sensazioni che questa prova da sveglia, sebbene, a volte, si nascondano dietro ad altre, agendo sotto copertura, e perciò al mio risveglio mi resi conto di quanto la possibile esistenza degli extraterrestri mi inquietasse. Con il passare degli anni la paura si è trasformata in curiosità, e così cominciai a guardare le ultime serie di X-Files in tv, i vari film che trattano l'argomento, fino a provare interesse verso gli avvistamenti, i cerchi nel grano e tutto il resto.

L'interesse e la curiosità si acuirono, trasformandosi in passione, dopo aver seguito il corso di storia delle religioni all'università: non si fece mai cenno alla possibile esistenza degli alieni, alla loro deificazione, alla possibilità che tutti i vari dei null'altro fossero che alieni scesi dal cielo; più che altro cominciai a ragionare sulla presenza in ogni cultura, e di conseguenza in ogni religione, di elementi simili, uguali. I draghi, presenti nelle mitologie europee ed asiatiche, ma anche in quelle africane ed americane; il forte rapporto con le stelle, che ha portato ogni civiltà a creare un proprio zodiaco; l'ascensione al cielo o l'arrivo di esseri dall'alto, eventi citati un po' ovunque in tutte le culture mondiali. Molti teorici della storia delle religioni (sociologi, teologi, psicologi ed antropologi, principalmente) hanno cercato di spiegare con teorie scientifiche l'esistenza di questa presenza a livello mondiali dei concetti base di ogni religione. Una divinità trascendentale, un contatto primordiale con essa, una sua collaborazione per dare il via alla civiltà, una sua continua ricerca, attraverso preghiere, apparizioni e pellegrinaggi. Ai tempi abbracciai queste tesi, spingendomi oltre e credendo quindi che certe creature, come i draghi, per l'appunto, o gli ibridi uomo-animale potessero essere in qualche modo esistiti realmente, perché altrimenti non ci sarebbe stato un motivo plausibile per cui in ogni angolo del pianeta, tra civiltà che mai erano venute a contatto tra loro, fosse presente un mito così simile. 

Ed ora veniamo ad oggi, un oggi che dura ormai da tre anni, da quel primo documentario. Trovo fondamentale innanzi tutto auto-citarmi, ripetendo ciò che dissi in un vecchio post riguardante la scienza: ora come ora, la scienza, si sta comportando come una nuova religione, perché è conservatrice, restia ai cambiamenti, fortemente avversa ad eventuali cambi di paradigma, di punto d'osservazione. Già, perché tante scoperte effettuate nel corso degli ultimi cent'anni sono state semplicemente sotterrate, nascoste, perché scomode alla scienza contemporanea. Perché ad esempio si dovrebbe pre-datare l'arrivo dell'uomo nel continente americano, si dovrebbe sostenere l'esistenza di un commercio tra l'Africa ed il Sud America già ai tempi degli Egizi, si dovrebbero rivalutare molte questioni legate all'evoluzione ed alla tecnologia dell'uomo. Ma, un po' come agiva l'Inquisizione dal 1200 al 1600, sebbene senza sporcarsi le mani la Religione Scientifica osteggia, isola e sbeffeggia chi porta avanti nuove tesi. Eppure tutta l'archeologia proibita è emersa utilizzando il paradigma scientifico in auge: ricerca sul campo, comparazione, contestualizzazioni... insomma, il metodo scientifico. Tutto ciò vale per tutti gli elementi sopra riportati, che nulla hanno a che fare con gli alieni, se non di rimbalzo, talvolta, come ho voluto sottolineare in apertura, forzato. Ma indubbiamente è vero che la civiltà più antica non è più quella sumera ma quella che popolava la Turchia nei pressi di Gobelki Tepe, attualmente il sito archeologico più vecchio del mondo, datato con il carbonio 14 a 12500 anni fa: 6000 anni prima delle attestazioni sumere, del poema di Gilgamesh, il testo nel quale viene riportata l'esistenza degli Annunaki, ovvero coloro che scesero dal cielo e ibridarono l'homo erectus con geni "trascendentali" per dar vita all'homo sapiens. Perché lo fecero? Lo fecero perché erano in cerca di oro, avevano la necessità di qualcuno che scavasse nelle miniere. Sebbene avessero soggiogato l'homo erectus questi era poco propenso ad obbedire, e quindi si decise di dar vita in laboratorio all'homo sapiens, più ligio alle regole ed anche in grado di auto-regolarsi. Da qui nascerebbe anche il recondito interesse verso l'oro in tutte le civiltà del mondo: di per sé l'oro non è chissà che raro, chissà che fondamentale per la creazione di utensili, era semplicemente un qualcosa in più, di non necessario, ma che ha sempre affascinato, ad ogni latitudine e longitudine del pianeta, l'uomo. Ma gli Annunaki sono presenti anche in altre culture? Sì: ci sono gli Elohim nella Bibbia, ci sono gli dei che secondo gli indigeni della Mesoamerica costruirono il complesso di templi di Puma Pumku, che eressero le mura di Machu Pichu, che dettarono le indicazioni per la costruzione delle piramidi Maya. Ci sono anche presso gli Egizi, che vedono come la casa degli dei la Cintura d'Orione, fedelmente riportata sulla terra con le tre piramidi della piana di Giza. L'archeologia ufficiale comincia ad accettare questa tesi, ma non riesce ancora a spiegarsi come possano esser state costruite, ed anche i segni d'erosione più attribuibili all'acqua che al vento (come per la Sfinge) sposterebbero indietro di millenni la data della loro costruzione. A quando? A 12500 anni fa, come Gobelki Tepe, come Puma Pumku, come il periodo in cui l'allineamento tra le tre stelle della cintura d'Orione combacia alla perfezione con le tre piramidi e la costellazione del Leone si trovava dritta di fronte alla Sfinge (che, prima di assumere sembianze umane, riportava il volto di un leone; solo successivamente, dopo la distruzione della testa del felino di pietra, si costruì il volto umano, che è sproporzionato rispetto al corpo). 12500 anni fa sembrerebbe il momento in cui tutto è iniziato: dopo la fine della glaciazione, presumibilmente nel momento in cui si dovrebbe far risalire il biblico (ma non solo biblico) diluvio universale, l'evento che in numerosissime religioni è riportato e identificato come il momento del nuovo inizio. 

E gli UFO? Gli ufo sono riportati in numerosi dipinti di ogni epoca, in incisioni nella pietra, nell'arte rupestre: dall'Italia ad Altamira, dal Sud America alle illustrazioni sui testi indù. E nei testi indù sono riportate le Vimana, enormi città volanti; in Giappone ci sono dei che arrivano sulla cavalcando draghi sbuffanti, nella Bibbia Enoch compie un viaggio spaziale durante il quale impara tantissime nozioni scientifiche e, quando torna sul pianeta, le riporta, raccontando anche come la Terra apparisse dall'alto. E sempre nella Bibbia si racconta di Giona, inghiottito sì da una balena, ma una balena con un corpo che sembrava metallico, artificiale. Non umano. E così, in un certo senso, si potrebbe attribuire natura extraterrestre anche all'arca di Noè. Mito, quello dell'arca, che si ritrova in altre religioni. Ciò che poi trovo curioso è come la provenienza di questi visitatori sia limitabile alle solite due o tre costellazioni: forse perché sono le più visibili, forse perché hanno affascinato più delle altre i nostri antenati, ma tant'è. Resta comunque il fatto che numerose scoperte avvenute recentemente erano questioni ben note agli antichi o a popolazioni esistenti che però non posseggono certe tecnologie. Ne è un caso esemplare la conoscenza di Sirio B e del suo comportamento da parte di una tribù sperduta dell'Africa Nera: Sirio B non è visibile ad occhio nudo e sono solo pochi anni che è stata scoperta dai super-tecnologici telescopi della Nasa, per cui c'è qualcosa che non torna. Come c'è qualcosa di particolare nel fatto che la teoria di una griglia magnetica portata avanti da Platone è stata effettivamente avvalorata dalle scoperte di alcuni scienziati che, partendo dai punti in cui sono presenti i più vecchi siti archeologici di tutto il mondo, hanno di fatto notato l'esistenza di una griglia tanto regolare quanto stupefacente. 

Cosa c'è sotto? Qual è la verità? Io mi limito a ripetere che credo all'esistenza degli alieni ed ad un loro intervento in epoca primordiale, e forse anche successivamente, per modificare la nostra essenza prima e la nostra conoscenza poi. E non fatico a dire che sebbene io non creda ad alcun Dio non mi sorprenderei se tra mille anni venissero definiti come alieni che hanno contribuito alla nostra nascita, alla nostra crescita ed alla nostra prosperità. E perché sarebbero stati considerati divinità è presto detto. Abbiamo una testimonianza storica ben disponibile come quella del primo incontro tra gli indigeni americani e gli europei. Questi ultimi erano visti e trattati come divinità, perché diversi, perché arrivati a bordo di navi da un luogo lontano, e vennero onorati con oro, beni preziosi, donne (ecco il sacrificio, altro perno fondamentale di ogni religione). Tralasciamo ciò che avvenne dopo, ma in ogni caso è storia la deificazione di qualcuno che arriva da "fuori", da "altrove", da "lontano". Ma l'esempio forse più eclatante, sebbene sia poco conosciuto, è quello del cosiddetto "culto del cargo". Durante la seconda guerra mondiale gli americani utilizzarono alcune isole della Melanesia come base per l'invasione del Giappone: ebbene, queste isole non erano disabitate, erano le terre di alcune tribù indigene, che vennero "comprate" con il dono di cibo, di utensili e di tecnologie. Quando gli americani, finita la guerra, abbandonarono le isole, i melanesiani cominciarono a creare feticci degli aerei, sperando di richiamare quegli dei scesi dal cielo, pregando, costruendo altri aerei di legno. Negli anni '40 è quindi nata una nuova religione, in modo spontaneo, ma nello stesso modo in cui nacquero quelle millenarie. 

Quando mi capita di parlare di queste cose mi rendo conto che sembro un fervente credente, e probabilmente lo sono. E, come direbbe Fox Mulder in X-Files, "voglio crederci". Ma non perché la reputo la migliore teoria tra le tante disponibili, ma perché, a conti fatti, non riesco ad immaginare un'altra strada percorribile, un'altra verità, se non questa. Avevano quindi forse ragione i creazionisti e non gli evoluzionisti? No, semplicemente esiste, secondo me, una compresenza di questi due elementi, ed è valida solo per gli umani. C'è stata un'evoluzione, regolare come per tutti gli altri esseri viventi di questo pianeta, ma ad un certo punto c'è stato un intervento esterno. Divino? No: è sì trascendentale, ma non divino né tanto meno umano. Semplicemente, è stato un intervento alieno. 


PS: forse in pochi lo sanno, ma il poster che è nell'ufficio di Mulder nella serie, riportante la celeberrima frase "I want to believe", è una foto scattata da Billy Meyer in Austria negli anni '70. Billy Meyer è uno dei più famosi contattisti del mondo, è stato interrogato e tutto il materiale che ha fornito è stato attentamente analizzato. Fino a prova contraria, tutto ciò che lui ha fatto sottoporre al metodo scientifico è autentico, non contraffatto... in parole povere, è tutto vero. 





Stefano Tortelli


domenica 3 maggio 2015

Torino, la mia città.




In partenza volevo scrivere una descrizione di Torino, un'esaltazione il più possibile oggettiva, dettata dalla sua maestosità, dalla sua storia, dalla sua enorme cultura, dal fatto che è stata una delle prime città in cui, dopo un primo periodo complicato negli anni '50-'60, si è verificato il primo incontro tra culture diverse massiccio, quello tra i torinesi ed i meridionali, che ha poi reso facilmente realizzabile quello tra gli italiani e gli stranieri. Perché Torino è forse una delle città più multiculturali italiane, una di quelle realtà in cui sì, gli stranieri si vedono perché ovviamente ci sono, ma non si percepiscono in modo negativo come spesso succede altrove, soprattutto in quelle zone d'Italia che più che essere state realtà soggette ad immigrazione sono state bacini dai quali altre città attingevano per compensare la necessità di operai, impiegati, lavoratori in generale. Penso ad esempio al Veneto, che in sociologia spesso viene definito il caso particolare del nord-Italia, una terra che ha visto partire tanti suoi figli verso Milano, Torino e Genova o verso l'Estero... ma ora è una delle prime a percepire come invasiva la presenza degli stranieri in Italia. Torino no, Torino ha da sempre accolto i figli di altre città e di altri Stati: ha avuto sì qualche difficoltà all'inizio, ma poi si è fatta perdonare. Come dicevo, stavo cercando di scriverne un elogio il più obiettivo possibile, ma non sono un cronista, faccio fatica ad esularmi dal discorso, lasciare da parte le emozioni, e per cui ho cancellato le trenta righe precedenti per lasciar spazio ad una descrizione puramente soggettiva. 

Sono nato a Torino, da Torino sono venuto via a quattro anni, spostandomi con i miei genitori in campagna, ma con i miei nonni ed i miei zii che abitavano lì, mia madre che lavorava per la Camera di commercio ed i tanti ricordi che legano mio padre e legavano mia nonna alla loro città natia, Torino non è mai mancata nella mia realtà quotidiana. Perché se un giorno andavo a trovare i miei nonni paterni, con i quali giravo Mirafiori, andando ai giardini, camminando tra i grandi capannoni ed i condomini, frequentando i mercati rionali, il giorno dopo andavo con mio padre a prendere mia madre a lavoro, il giorno dopo ancora mia nonna mi raccontava dei suoi ricordi legati alla città, e via dicendo. Torino c'era sempre, ed in partenza c'era e c'è sempre perché in parte scorre nel mio sangue. Mia nonna materna era torinese, aveva, sebbene in modo illegittimo, discendenza reale, e per cui anche nelle mie vene c'è un po' di nobiltà, un po' di sangue blu, che forse, in qualche modo, mi porta ad essere un fervente difensore della mia città natia. Già quando arrivò il momento di scegliere le superiori avevo fatto un pensierino a Torino, che però non assecondai alla luce del fatto che non solo nessun mio compagno di classe delle medie sarebbe venuto a scuola con me, ma perché sarei stato l'unico villafranchese ad andare a scuola a Torino. Questa cosa in parte un po' mi stupì, perché tutto sommato, sebbene Pinerolo, Saluzzo e Savigliano siano realtà più vicine a quella torinese in fatto di distanza spazio-temporale, è anche vero che Torino non è poi così distante. Capii solo successivamente le motivazioni di questa forte distanza tra la realtà di questo paese e quella del capoluogo: Torino non è distante solo chilometricamente parlando, ma lo è anche a livello di modo di pensare, di agire, di fare. Anche adesso, se non fosse per il lavoro o per l'università, molti miei coetanei a Torino non ci andrebbero (e vale in parte anche il discorso opposto: molti torinesi, in provincia, anche fosse Pinerolo, non ci andrebbero mai), perché probabilmente non la capiscono, probabilmente la vedono come qualcosa di estremamente diverso. Per molti Torino è caos, è traffico, è grigiore (salvo poi andare a Londra, tornare dal viaggio e dire: Wow, Londra è bellissima...), e pur di non andarci, pur di non rimanerci un'ora in più del dovuto, farebbero carte false.

Invece Torino è tutt'altro. Torino è meravigliosa, con un centro storico stupendo da frequentare in qualsiasi orario del giorno, mai caotico e ricco di stimoli, di edifici stupendi, di gesti quotidiani bellissimi. Torino è la città della Dora e del Po, che oltre ad essere raffigurate in Piazza CLN come il padre e la madre della città ospitano sulle loro rive dei luoghi in cui respirare, camminare, vivere totalmente. Penso al Parco del Valentino, alla zona al ridosso della collina, lungo Corso Casale, penso ai Murazzi. Torino è città di grande cultura, con bellissimi musei, con palazzi storici, con interi quartieri che sembrano rimasti fuori dal tempo per come hanno mantenuto la loro identità di borgo, più che di quartiere in senso odierno. Torino è uno stimolo continuo anche grazie alle moltitudini di realtà che offre a chi la frequenta, dando quindi numerose e differenti emozioni: ci si può quasi sentire padroni della città percorrendo a piedi trasversalmente, quasi in solitudine, Piazza San Carlo, e sia che ci si stia dirigendo verso Piazza Castello sia che si stia andando verso Porta Nuova la cornice e la vista offerta sono maestose, gloriose, ed in un certo senso glorificanti; ed allo stesso tempo, alle 7 di mattina, si può percorrere udendo solo l'eco dei propri passi e di pochi altri Via Po, quando la città è ancora sopita, e ci si arriva quasi a chiedere se il mondo per tutti gli altri avesse deciso di fermarsi; ed è sufficiente allontanarsi di una ventina di metri da Corso Massimo d'Azeglio per credere quasi di non avere una città a pochi passi di distanza quando all'improvviso ci si ritrova vicino al Po, in mezzo all'erba o seduti su una panchina. A volte, poi, in pieno autunno può capitare che la nebbia arrivi addirittura a dominare le vie del centro, ed il suo potere di attutire i suoni fa credere quasi di essere in un mondo sognato, magico, surreale. 

Di Torino poi sono per me affascinanti il suono dei tram, i grovigli dei fili sospesi che danno elettricità a quei possenti vagoni che raggiungono ogni zona della città, quel clima particolare che la irradia in inverno sotto natale, ma anche la particolare lucentezza che assume in primavera nelle giornate di sole, dove accanto ad un grande condominio puoi ammirare gli alberi in fiore. Perché un'altra cosa stupenda di Torino è la grande presenza di vegetazione, che a sua volta ospita piccoli animali, tanto che è più semplice vedere uno scoiattolo a Torino che dalle mie parti, vuoi un po' per la vicinanza a Stupinigi, vuoi anche che comunque Torino non è per loro nociva. E magari, dato che principalmente ho parlato del centro storico, si potrà pensare che il resto conta poco, ma non è così. Quartieri come Mirafiori sono stati costruiti in modo estremamente funzionale, ma anche rispettando le logiche ecologiche, e così è per Borgo San Paolo, che forse è meno verde ma molto suggestivo nel suo insieme, e così vale per Torino Nord e Porta Palazzo, che forse venissero meno bistrattate sarebbero anche meglio di quanto già non sono. 

Torino è la mia città, e nonostante io ne abbia viste tante altre sino ad ora, soprattutto nel centro-nord, non la scambierei con nessun altro centro urbano italiano. E non è tanto per il fatto che la conosco, perché so girarla, perché so viverla, ma perché nonostante tutte queste mie conoscenze che la riguardano sa sempre stupirmi: vuoi che sia per un nuovo angolo mai esplorato in precedenza e vicino al quale sono passato decine di volte, vuoi che sia per la cordialità di un commerciante, vuoi che sia per il sorriso di una sua abitante, sa sempre come sorprendermi, come catturarmi, come tenermi nel suo grembo, mettendomi nella condizione di voler presto ritornare appena vado via. 

Il mio rapporto nei confronti di Torino è uno di quei rapporti che probabilmente mai finiranno, anche se magari, per un motivo o per l'altro, mi dovessi ritrovare a migliaia di chilometri di distanza. Perché Torino c'è stata, c'è e sempre ci sarà. E se non attorno a me, dentro di me; ed a volte, anche questo, basta.