lunedì 25 maggio 2015

Berlinguer, ti voglio bene! Senza se e senza ma.

Enrico Berlinguer e Roberto Benigni a Roma. 17 giugno 1983



Oggi sarebbe stato il novantatreesimo compleanno di Enrico Berlinguer, uno dei politici più amati dal Dopoguerra ad oggi, secondo forse soltanto a Sandro Pertini. La sua vita è finita a sessantadue anni, a causa di un ictus durante un comizio per il Partito Comunista, del quale è stato segretario per dodici anni, dal '72 all'84. Dalla sua Sardegna al Veneto, da Sassari a Padova il percorso è stato lungo, intenso, pieno di lotte, di scontri con le altre forze politiche ma anche con i propri compagni. Perché se una cosa a sinistra riesce bene è proprio quella di preferire l'immobilismo al compromesso, la scissione alla coesione nonostante. Ora come allora.

Ed ora, a distanza di trent'anni dalla sua morte anche Berlinguer sta subendo l'onta del revisionismo, della decontestualizzazione, della sottolineatura degli errori da lui commessi, diventando anche lui un ingranaggio della ben oliata macchina del fango promossa da coloro che pensano di essere gli eletti, i discendenti di Marx e Lenin, gli unici a poter portare avanti il discorso comunista in Italia. Ma non è di questo che voglio parlare, o meglio questo è solo il punto di partenza della mia esposizione che vuol partire da quegli errori messi in luce con estrema mancanza di rispetto e di cognizione di causa da parte di chi infanga Enrico e che vuole arrivare non solo a giustificarli ma a renderli i punti di forza della politica della maggioranza PCI sotto la guida di Berlinguer. 

Perché Berlinguer non era affatto stupido, e la sua non era affatto una politica emergenziale, a breve termine, indirizzata solo al servire per il presente risultando sterile nel futuro. Berlinguer puntava a quella famosa "Città futura" descritta da Gramsci nei suoi appunti, e sapeva che per arrivarci non era sufficiente soddisfare i lavoratori, assecondare le lotte studentesche, cavalcare l'onda dell'entusiasmo delle piazze. Perché Berlinguer sapeva che portare al benessere attraverso le conquiste dei diritti poteva essere un'arma a doppio taglio, sapeva che buona parte dell'elettorato votava PCI non tanto per coscienza politica ma per interesse, e per cui era necessario andare oltre, creare un forte legame tra il partito e l'elettorato, puntando possibilmente a renderlo più vasto, raccogliendo quei consensi che sarebbero sì stati difficili da strappare ma percorrendo la strada non tanto che portava alla pancia dell'elettore quanto a quella della testa. Perché si fa presto a dire che il PCI ha fallito per colpa della classe politica, per colpa anche di Berlinguer, ma forse si sopravvaluta la tenuta morale dell'elettorato che portò il PCI ad essere il primo partito in Italia ed il più forte partito comunista dell'Europa Occidentale: perché è vero, era gente impegnata, come non si è più vista in Italia negli ultimi trentacinque anni, ma bisogna chiedersi il perché di queste loro azioni, di questo loro impegno. Era un impegno strumentalizzato, dettato dalla fame, dalla sopravvivenza, dalla logica necessità di rispetto, di riconoscimento, di acquisizione di determinati diritti. Il problema è che una volta conquistati i diritti a loro cari si sono ritirati, sono tornati a casa, davanti alla TV, sul divano nuovo, e non si sono posti il problema di spiegare la loro storia ai figli, alle nuove generazioni, alla fatica; non hanno motivato le loro scelte politiche, se non dicendo che votavano così perché era l'unico modo per conquistare ciò che desideravano. Si contesta tanto l'elettorato berlusconiano della prima ora, quello di imprenditori e di ladroni vari, ma del resto non hanno agito tanto diversamente: han votato Berlusconi perché Berlusconi garantiva loro le libertà che nessun altro gli avrebbe concesso... o no!? 

Berlinguer agì quindi con lungimiranza, prendendo le distanze dai comportamenti dell'Unione Sovietica ma non dagli ideali dell'universo sovietico, e non si pose il problema di contrapporsi per partito preso alla DC perché all'interno della DC c'erano delle correnti che molto avrebbero potuto dare alla causa di sinistra: lo chiamano cattocomunisti gli ottusi di estrema sinistra l'atteggiamento tenuto da Berlinguer, ma in verità era unione di intenti, era solidarietà, era umanesimo volto a dar sostegno ad una battaglia che doveva continuare. Perché c'era il rischio di fare la fine della Grecia dei colonnelli, c'era il rischio di un colpo di Stato, di una guerra civile, di una invasione occidentale. E per cui si arrivò al compromesso storico tra PCI e DC, tra Berlinguer e Moro. e per capire quanto importante e fondamentale poteva essere il compromesso storico, se solo si fosse potuto realizzare, è sufficiente analizzare ciò che è successo nel momento in cui questa ipotesi stava diventando realtà. E' stato architettato il rapimento di Moro da parte delle Brigate Rosse, che poi il  9 maggio si è trasformato in assassinio, e casualmente stanno emergendo tutta una serie di prove che mostrano come quelle non fossero Brigate Rosse e come dietro tutto ciò che stava avvenendo, sia tra i Brigatisti rossi sia tra i fascisti erano presenti il Gladio e la CIA. Perché per l'appunto l'importanza di un evento e/o di una persona si evince anche e soprattutto dalla reazione che questo evento e/o questa persona suscita nei nemici. Ed i nemici hanno deciso di colpire Moro, in modo da non perdere definitivamente le possibilità di ribaltare una situazione che per loro era estremamente difficile, delegittimare totalmente agli occhi dell'opinione pubblica le Brigate Rosse (che, nonostante quel che si racconta ora, godevano di una simpatia non trascurabile tra la popolazione) e far passare per colpevoli tutti i comunisti. Berlinguer compreso. Avessero ucciso Enrico, probabilmente nemmeno un accorato invito a non armarsi come quello fatto da Togliatti dopo l'attentato che lo colpì avrebbe fermato i comunisti di allora. Del resto i servizi segreti vengono spesso chiamati "intelligence" mica per caso... 

Ma la cosa più grande di Berlinguer, che va oltre le critiche e non parte da esse, fu la sua capacità di arrivare alla gente come pochi altri, di far leva sulle emozioni della gente: perché il problema di molti politici di sinistra è sempre stato l'apparire burberi, freddi, estremamente pessimisti, pieni di rabbia e rancore di fronte allo sfacelo a loro contemporaneo, e le uniche emozioni che potevano far passare erano quelle di rivincita, di vendetta, di desiderio di lotta. Funzionali al massimo, e del resto i risultati pre-Berlinguer lo dimostrano, ma comunque mai mostravano un qualcosa che andasse oltre tutto ciò: non c'erano molti sorrisi, non c'era la passione, non c'era una forte luce nei loro occhi. Per fare un esempio non c'era l'intensità che era presente in Ernesto Che Guevara o nei suoi compagni cubani, da Fidel Castro a Camilo Cienfuegos. Berlinguer in questo è stato unico prendendo in considerazione il partito comunista italiano, ed è forse proprio questa la sua caratteristica che l'ha portato ad essere giusto un gradino sotto a Pertini nella classifica dei personaggi politici nostrani più amati. Perché come diceva Gaber "Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona"... ed io credo che fosse questo il motivo più importante per il quale essere allora comunisti.

Non per le lotte, non per il pane, non per i diritti. Ma perché si aveva una guida morale meravigliosa, capace di fare politica come pochi altri, appassionato, colto, intelligente... ed estremamente buono. A chi ora cerca di delegittimare tutto ciò che ha fatto, arrivando ad arrogarsi il diritto di negare il suo essere comunista, io voglio soltanto dire che forse non è stato il più grande rivoluzionario, ma se sono i rivoluzionari quelli che aspettate, in un contesto come quello italiano, allora potete continuare a decontestualizzare tutto, e probabilmente arriverete a sputare anche su Che Guevara, su Allende, su tutti quelli che, come Berlinguer, per malattia o uccisi, hanno lottato fino all'ultimo per il bene di tutti, anche a costo di perdere un giorno consensi. 

Questo articolo forse verrà tacciato come agiografico, ma a me non interessa. Se Berlinguer ha fallito la colpa è di chi ha smesso di votare PCI, vuoi perché non ne ha sentito più il bisogno o vuoi perché non c'era più Berlinguer... ma allora ditemi, erano veri comunisti quelli che dopo la morte di Berlinguer hanno riposto le bandiere? Erano comunisti quelli che una volta conquistato ciò che a loro interessava hanno smesso di lottare per i diritti di qualcun altro? 

Secondo me no... 

Berlinguer però lo era, e chi veramente l'ha amato ha continuato ad esserlo. Perché se è vero che Berlinguer era una brava persona, è anche vero che una brava persona piace a persone che sono brave quanto lei.






Stefano Tortelli

domenica 24 maggio 2015

L'amore a quattro zampe... e due angeliche ali




Quando scrissi le righe che più avanti riporterò c'erano molte differenze rispetto ad ora, era passato meno tempo, non c'era Thor ed il grande amore ed il ricordo che avevo di Duca era ancora intatto, intero e non era stato mai messo alla prova: prima di Thor era stato l'ultimo cane che ho avuto, con lui son cresciuto per tredici anni, l'ho sostanzialmente visto nascere e tredici anni dopo, con le lacrime agli occhi, l'ho seppellito, dandogli l'ultimo saluto, sentendo per l'ultima volta la sua pelle, il suo calore, il suo peso, che però stavolta non mi sbilanciava sulle gambe, quando a peso morto si appoggiava a me per poi cadere e prendersi le coccole... Era l'ultimo saluto, e dopo due anni e mezzo scrissi le righe che seguono, ripensando alla sera prima che morisse:

"Non dimenticherò mai il suo sguardo la notte prima che lasciasse questo mondo. 
Era lì, sdraiato sul pavimento della cucina, ansimante e consapevole che il momento di partire per quella sua ultima corsa era ormai prossimo: un ultimo alternarsi nel cielo della Luna e del Sole, ed il viaggio sarebbe cominciato. 
Mi fissava con quei suoi occhi scuri, enormi, pieni di tristezza, rassegnazione, ma anche di liberazione. I suoi occhi come i miei lasciavano fluire le lacrime dagli angoli delle orbite, e mi piaceva credere che anche lui stesse ripercorrendo nella mente i tredici anni vissuti insieme: le corse nel giardino, il suo rifugiarsi in camera mia durante i temporali, le tante guerre con la gatta ed i piatti di latte passati sottobanco… e tante, tante altre cose. 
Mi ha visto crescere, portare a casa prima amici e poi ragazze, tutti terrorizzati al primo approccio dalla sua irruenza, da quel suo gran vocione che tanto manca nelle silenziose notti di questa piccola frazione dispersa nel nulla. 
Sapeva farsi notare, sì con l’irruenza e con il riecheggiare del suo “parlare”, ma anche con la sua bellezza: il suo manto fatto di chiaro-scuri luccicava ai raggi del sole, il suo passo era degno della fierezza dei suoi antenati di montagna, il suo viso era perfettamente simmetrico, con quel piccolo neo sotto l’occhio destro, un po’ come le dive di Hollywood. Il più bell’esemplare della sua razza che io, insieme a tante altre persone, abbia mai visto. 
Nel nostro giocare siamo quasi sempre stati leali, nonostante a volte siamo arrivati a farci del male, eppure ci siamo sempre perdonati, ritrovati, come due amici che nonostante tutto continuano a volersi bene, ad affrontare ogni giorno insieme, perché consapevoli di non poter trovare miglior compagno di avventura. E penso a volte di poter rivivere certe cose con i suoi simili guardandoli giocare con chi ha la fortuna di averli accanto, eppure so che non potrà mai esserci un rapporto del genere, perché lui era speciale, lui dopo poche settimane dalla sua nascita già mi seguiva per il giardino, curioso, voglioso di assaporare il mondo, di scoprire cosa c’era oltre la casa di sua mamma. Ed è per questo che fra cinque ho scelto lui, per il suo assomigliarmi, per il suo desiderio di novità. 
E poi lui ancora è con me; perché se anche di notte non lo posso più sentire abbaiare a qualche gatto, lo posso vedere nei sogni, dove spesso scodinzolando viene a trovarmi per poter condividere ancora qualche momento insieme, in un universo parallelo dove le persone, gli animali, i luoghi e le cose che ci hanno segnato non muoiono mai."

Dopo un anno e mezzo, che tra l'altro è più o meno lo stesso periodo di tempo che mi vede ora in compagnia di Thor, il discorso non è cambiato, ed anzi si è rafforzato, e non per demeriti di Thor ma perché finalmente ho potuto mettere alla prova i ricordi, le emozioni, l'amore per Duca, che è rimasto imperturbato, intatto, limpido e luminoso, e questa presa di coscienza si è fatta via via più chiara mese dopo mese, che ha portato al migliorarsi del rapporto tra Thor e me, che all'inizio era conflittuale ma che da luglio in poi ha preso una bellissima piega e che nelle ultime settimane lo porta a dormire ai piedi del mio letto, o meglio a vegliare sui miei sogni. 

Il 21 maggio era il quarto anniversario della morte di Duca, e proprio quella notte Duca, per l'ennesima volta, ha voluto manifestarsi, è voluto venirmi a trovare in sogno, e l'ha fatto nel modo più bello, ripetendo ciò che tante volte ha fatto in vita: nel sogno ero a letto (e questo contribuì a farmelo sembrare reale), probabilmente era mattina, avevo in mano qualcosa da mangiare, Duca era accanto a me, seduto e scodinzolante, che mi guardava e pretendeva un boccone; io alzai ciò che avevo in mano, mi spostai sul letto, e lui salì, per prenderlo, per sì mangiare ciò che avevo in mano ma soprattutto per giocare, per farsi fare e fare le coccole. Un'altra volta ancora, come quando eravamo entrambi cuccioli, come quando io mi stavo affacciando all'età adulta e lui stava lentamente andando verso la vecchiaia. Come quell'ultima notte, quando mai avrei voluto andare a dormire lontano da lui, quando avrei preferito dormire con la mia testa sul suo corpo, fregandomene del fatto che fosse sporco e maleodorante a causa della malattia che lo stava distruggendo. 

Quando scrivo di Duca, quando parlo di Duca, non possono che brillarmi gli occhi, non può che chiudermisi la gola... ma nel brillare dei miei occhi c'è lui, e c'è con una limpidezza sempre più intensa, proprio perché questi miei stessi occhi hanno modo di vedere nella realtà un degno suo erede come Thor, per il quale il mio amore è forte, anche e soprattutto perché ha saputo aspettarmi, anche e soprattutto perché è conscio dell'eredità che ha raccolto. E nonostante questo non ha paura di mettersi in gioco, come non ho paura io di dimenticare... perché dimenticare è impossibile già di suo, dimenticare Duca è nemmeno immaginabile.

Una persona un giorno mi disse che il paradiso degli animali è oltre il ponte dell'arcobaleno, ed è lì che i padroni ed i loro compagni a quattro zampe si ritroveranno... forse è per questo che Duca aveva paura dei temporali, gli piaceva così tanto stare qui che nemmeno voleva vederlo, un arcobaleno. E, pur di essere sicuro di non scorgerlo neppure con la coda dell'occhio, si andava a rifugiare negli angoli più bui della casa, solitamente sotto, da mio zio... Ed ogni volta che vado nel corridoio che porta alla camera dove Duca si rintanava inconsciamente penso di poterlo vedere da un momento all'altro. Ed è proprio quando mi rendo conto che non può essere così mi rendo conto che lui c'è, che è rimasto. E non oltre il ponte dell'arcobaleno, ma qui, con me in me. 

Succede sempre. Ogni volta.




Stefano Tortelli

martedì 19 maggio 2015

Scintille, fulmini, legami, attrazioni: l'elettricità, madre dell'universo





Grecia Antica, secoli VI e V Avanti Cristo. Nasceva la filosofia antica, la madre di tutte le scienze, la radice dalla quale si sono poi districate le strade della matematica, della medicina, della psicologia, della biologia. Al suo fianco vi era l'arte della dialettica, che della filosofia si serviva per rafforzare i propri contenuti ma che alla filosofia era necessaria per dar forma ai concetti. Del resto la filosofia si dice sia nata nel preciso istante in cui l'uomo si è trovato a poter dedicare un minimo di tempo libero al pensiero, quando ormai era stanziale ed il linguaggio era andato oltre la sua funzione primaria, ovvero quella della comunicazione basilare e fondamentale, dando vita ad un lessico atto a descrivere l'astratto per spiegare il concreto. Non per nulla certe religioni sono considerate filosofie, e basta pensare a quelle orientali per trovare subito un nesso tra il nostro concetto filosofico e la loro visione religioso-spirituale del mondo. 

Ma torniamo alla Grecia Antica, al 600 a.C, al periodo in cui i primi filosofi cercavano di trovare il seme dell'universo, la base dalla quale dipendono tutte le cose, il principio dell'universo... l'archè. Nel loro tentativo di trovare una spiegazione concreta all'esistenza di tutto ciò che ci circonda si differirono dai religiosi, da coloro che invece cercavano in un ambito trascendentale la risposta alle stesse domande. E così i filosofi cominciarono a guardarsi attorno, a riflettere, a cercare la componente fondamentale di tutto ciò che era per loro tangibile, osservabile, percepibile dai sensi. Si arrivò così a trovare negli elementi la radice tetraedrica del cosmo intero: il fuoco, l'acqua, l'aria, la terra. Fu Empedocle per primo a definirli tali tutti e quattro, dato che in precedenza ci fu chi considerò come archè l'acqua, chi l'aria, e chi tutti gli elementi che compongono il reale mischiati però in un brodo primordiale (l'àpeiron). Per Empedocle, dunque, la cooperazione dei quattro elementi portò alla creazione dell'universo, delle stelle, dei pianeti, della vita, e molta della susseguente filosofia ha ripreso le sue posizione per portare avanti discorsi ancora più ampi e più dettagliati. 

Non si erano sbagliati più di tanto: fuoco, acqua, terra ed aria interagiscono e modellano il pianeta, forniscono alla vita i mezzi necessari per proliferare, creano e distruggono mantenendo comunque intatta l'energia che li muove e che è soggetta alla loro forza. C'è però un qualcosa che secondo me viene prima, che è davvero alla base di tutto quanto, e che gli antichi Greci non potevano assolutamente constatare poiché non potevano immaginare che cosa realmente fosse. O meglio, potevano immaginarlo ma mai avevano avuto esperienza diretta con questo elemento. Dico che potevano immaginarlo perché comunque il più grande ed inspiegabile evento naturale che ai loro occhi si poneva nella quotidianità era il fulmine, non per nulla poi attribuito alla rabbia del padre degli dei, Zeus, e se alla loro più grande divinità davano la paternità della saetta, probabilmente un occhio di riguardo verso l'elettricità ce l'avevano già allora. E l'origine, l'archè vero e proprio, secondo me non può che essere l'elettricità e tutto ciò che da essa deriva. Pensiamo al magnetismo, alla consistenza delle cose, a come gli atomi si combinino tra di loro. Pensiamo al pensiero, al nostro sistema nervoso, al suolo ruolo fondamentale che ha nella chimica e nella biologia. Perché alla base di ogni cosa che esiste nell'universo c'è un legame, promosso dall'elettricità, che fa sì che due o più oggetti si attraggano, si combinino, si mescolino dando vita a qualcosa di nuovo. E sono questi legami a far sì che tutto ciò che ci circonda sia tangibile, che abbia una forma ed un volume, e che quindi non sia penetrabile, come penetrabili non lo siamo noi. Come sono questi legami, alla loro reazione allo sfregamento con altri oggetti, a dar vita all'attrito, la forza che ci permette di muoverci, di toccare, di sentire sulla pelle il resto del mondo. Tutto ciò che è legato quindi alle forze, dalla centrifuga a quella di gravità passando per quella d'attrazione e quella centripeta, è figlio dell'elettricità, dei legami, di questa estrema forza di energia che è madre unica dell'universo. L'elettricità è il principio, l'origine, l'archè. 

Ma forse, sebbene 2600 anni fa non fosse stata presa direttamente in considerazione, il fatto già solo che Empedocle considerasse inscindibile la tetralogia degli elementi si può interpretare come un segnale della presupposizione di un legame tra questi, che l'elettricità rappresenta. Del resto, poi, a termini legati all'elettricità si è ricorsi per definire quelli che sono i più classici degli incontri ricchi di intensità, e di ciò che da questi incontri si viene a stabilire: perché si parla di colpo di fulmine, si parla di scintilla che scocca, si parla di attrazione tra le persone, di affinità (che null'altro è che la compatibilità "biochimica"). E si parla di energia trasmessa, data, creata, a volte distrutta e tolta, ed è un'energia elettrica: perché è l'energia che attiva i neuroni, che a loro volta attivano le ghiandole, ma anche il cervello, il pensiero, come attivano gli arti, le labbra, il corpo tutto. L'elettricità è la forza dell'amore, è la forza della vita, è la forza dell'universo. L'elettricità è amore, è vita, è l'universo tutto. 

Tutto questo discorso riguardante l'elettricità è figlio di tanti documentari riguardanti la fisica, gli studi del liceo, ma anche l'analisi del linguaggio, di cosa possa nascondersi dietro l'accezione "colpo di fulmine"... è figlio anche della mia esperienza empirica riguardante tutto ciò che sopra è riportato, perché alla fine il segreto di tutto è dare un senso alle proprie esperienze, a ciò che si è visto, sentito, percepito, detto, fatto, vissuto. I primi filosofi sostanzialmente agivano così, per il puro piacere di scoprirsi, scoprire e far scoprire. 

Perché anche scoprire, spostando questo termine in un altro campo semantico e cambiandone così il significato, è un atto che avviene soltanto se c'è elettricità nell'aria...





Stefano Tortelli


domenica 17 maggio 2015

Xenofobia: lo sfogo di ogni frustrazione di matrice sociale ed economica





Avevo argomentato, mesi addietro, riguardo la sterilità della suddivisione in materie sempre più circoscritte e settarie le materie umanistiche. Una sterilità che è difficilmente superabile senza un'adeguata attitudine mentale in grado di creare connessioni tra una disciplina e l'altra, un'epoca e quella successiva o precedente, una nazione e l'altra. E tutto ciò è logicamente voluto per rendere quasi inutile lo studio fine a se stesso, privilegiando quello atto a formare figure in grado di essere super performanti in un ristretto ambito, salvo poi fallire miseramente una volta spostate di qualche centimetro. Del resto gli individui sono visti come serbatoi dai quali principalmente attingere e nei quali dev'esserci lo stretto indispensabile. Perché se in un contenitore ci metti tante cose differenti, se inserisci la mano per pescare ciò che ti serve, è probabilisticamente difficile venire accontentati. Un po' come alla lotteria...

Questo schema è probabilmente alla base di questa nostra società, una società che, come non vuole darci la possibilità di conoscere il modo "universitario" il mondo, non desidera neppure che si sappia riconoscere i veri problemi, il vero male, i veri soprusi in atto in tutto il mondo. Scrivo queste righe oggi perché oggi è la Giornata mondiale contro l'omofobia, ma potrei scriverle ogni settimana, cambiando solo la causa scatenante di queste mie riflessioni. 

Definiamo innanzi tutto non tanto cosa sia l'omosessualità ma il perché questa sia motivo di discriminazione: gli omosessuali sono discriminati per un motivo semplice, lampante. Sono in minoranza, e sono diversi. Sono in minoranza e sono diversi come in minoranza e diversi sono gli stranieri, erano gli ebrei in Europa nel '900, erano i neri negli Stati Uniti. La paura del diverso, la xenofobia, è sempre stata la scintilla che ha dato il via ad ogni discriminazione per motivi religiosi, politici, sessuali. Ed oltre tutto c'è una componente aggiuntiva assolutamente da non sottovalutare in tutto questo quadro: oltre ad essere pochi e diversi, sono anche ritenuti più deboli, e quindi facilmente "estirpabili", ma anche ottimi capri espiatori per giustificare una qualsivoglia situazione contingente: "E' colpa degli immigrati se l'Italia va a rotoli"; "E' colpa degli ebrei se c'è la peste"; "E' colpa dell'omosessualità se esiste una crisi dei valori cattolici"... e così via, in ogni tempo ed in ogni spazio. E non facciamo l'errore di vedere il tutto come imposto dall'alto, come se l'idea che la colpa è di questa o quell'altra categoria di essere umani minoritaria ed in posizione di subordinazione sia figlia di decisioni sempre prese a tavolino. Perché se è pur vero che certi messaggi vengono amplificati da chi in quel momento ha la possibilità, ovvero il potere, di farlo, è anche vero che certa gente ha il potere perché qualcuno gliel'ha dato. La politica è questa: gente come Salvini, Giovanardi, La Russa parla al Paese intero perché parte del Paese ha voluto che arrivassero al punto in cui si trovano ora, e per arrivare a questo punto hanno dovuto raccogliere consensi, e per raccogliere consensi hanno portato avanti istanze sentite da parte della popolazione. 

Allo stesso tempo, però, fioccano le giornate contro questo tipo di manifestazione di odio pre-concettuale, che può essere espresso a partire dalla violenza verbale, passando per quella psicologica e arrivando a quella fisica: la giornata contro il razzismo, la giornata contro la violenza sulle donne ("categoria" sui generis, che comunque è sempre stata oggetto di vessazioni da parte della società), la giornata contro la fame nel mondo, la giornata contro... Il problema è che queste giornate sono, come l'insegnamento delle scienze umanistiche in modo estremamente settoriale, inutili, fini a se stesse. Sono delle ricorrenze futili e prive di qualsiasi significato, se non il semplice riconoscere l'esistenza di un problema, sottolineare l'impegno primario per debellare questa ingiustizia... e poi, il silenzio. Tanti proclami, tante manifestazioni colorate, e poi la solita indifferenza, perché comunque bisogna prepararsi il discorso e lo stato d'animo per affrontare una nuova giornata contro l'ennesimo sopruso. 

Anche perché dati alla mano il razzismo è sempre più una piaga sociale della nostra epoca, i femminicidi continuano ad animare le cronache dei telegiornali, i fascisti continuano a pestare omosessuali una domenica e l'altra pure, le minoranze religiose vengono costantemente additate come causa di una deriva dell'etica morale. Però si è tutti Pilato, in queste situazioni: discorso, commemorazione, cordoglio, sdegno, accenno di forte presa di posizione contro l'ennesima piaga sociale ed infine l'ennesima ammissione di impotenza giustificata con mille frasi di circostanza. 

Sarebbe invece molto semplice inculcare nella testa della gente una facile equazione mentale, che di fatto difende ogni categoria sopra citata e condanna ogni nuovo crimine creato ad hoc giusto per fare bella figura in Parlamento. "Ogni tipo di violenza perpetrata nei confronti di un altro individuo è reato penale, a prescindere da ogni motivazione che ha portato a compierlo". FINE. E non si scappa da qui: si insegnerebbe il rispetto per qualsiasi altra persona che ci circonda, che si trova sul nostro stesso suolo giuridico e che mette nella condizione me, italiano, eterossesuale, "cattolico" e maschio a rispettare le stesse leggi di qualsiasi persona che si discosta per una o più caratteristiche dalla mia descrizione. Non è facendo leggi a difesa degli omosessuali, inserendo il reato di femminicidio o la protezione di questo credo o di quella nazionalità che si risolvono le cose, ma anzi si va a creare un pensiero comune che vede paradossalmente l'italiano "standard" in una condizione di apparente discriminazione. E' questo uno dei tanti errori che le sinistre hanno fatto in passato, ovvero quello di affrontare di petto una situazione contingente particolarmente sentita dalla popolazione che ha a cuore la preservazione ed il rispetto di ogni tipo di differenza, dimenticandosi poi di mettere nella condizione la totalità dell'Italia di poter innanzi tutto rispettare se stesso e quindi chiunque ci circonda. E su queste battaglie sterili la sinistra ha perso più e più volte, e le destre si sono rafforzate, raccogliendo sempre più consenso tra gli ottusi ed i bigotti, tra i reazionari ed i xenofobi, sfruttando la loro forte opposizione ad ogni equiparazione tra "noi" ed i "loro" di turno per poi fare i propri porci comodi in sede economico-sociale. 

Spero che presto si arrivi alla presa di coscienza del fatto che più che una giornata di commemorazione o ricordo per questa o quella categoria oggetto di discriminazione sia necessario agire trecentosessantacinque giornate all'anno per la parità di diritti di ogni singolo individuo di questo Stato. Sia esso gay, nero, ebreo, donna... Questo sarà l'unico modo per raggiungere un reale progresso, un effettivo benessere diffuso ed una assoluta presa di coscienza che la diversità non è un fatto biologico ma puramente economico. Perché, sotto sotto, tutto ciò che è dettato, dal basso verso e l'alto e viceversa, in questa società, ha una matrice meramente finanziaria. 


La cosa che a me spaventa molto, che mi da ribrezzo, è il buio che avvolge il cervello, lo sguardo, il cuore di milioni di persone che abitano il mio stesso Paese, e queste tenebre si sono prese possesso sia di chi da sempre si è negato la luce sia di chi la luce l'hanno accolta soltanto finché è stata loro utile, per poi rinnegarla una volta cessata la sua funzione. Sì, ho paura del buio. 



Stefano Tortelli

giovedì 14 maggio 2015

"Giovanni e Nori. Storia d'Amore e Resistenza"... e di intrecci

Illustrazione estemporanea di Giulio Peranzoni durante "Sai com'è" dei Gang & Gaetano Liguori, alla fine dello spettacolo di Daniele Biacchessi "Giovanni e Nori. Storie d'Amore e Resistenza" 




12 maggio 2015. Alba, provincia di Cuneo. Sala Beppe Fenoglio. Alba-Fenoglio è uno di quei binomi che rimarranno nell'eternità delle memorie, della letteratura, della Resistenza. Perché Fenoglio prima di diventare un partigiano, uno scrittore, un narratore della lotta partigiana era un intellettuale, amante della filosofia, della lettura, della conoscenza. Ed era nato ad Alba, nel 1922, da una famiglia come tante, di classe sociale medio-bassa, che però desiderava dare ai propri figli una vita migliore insegnando loro la cultura sì del lavoro, ma anche della lotta sociale in nome del progresso comune. E questa è una storia comune, una radice propria di tanti giovani che, dopo il '43, si sono diretti verso le colline, con qualche vecchio fucile in spalla, poche cartucce nelle tasche ma una volontà, una passione ed un amore nel cuore più grandi di ogni fatica, di ogni sacrificio, di ogni paura. Fenoglio era ad Alba il 10 ottobre del 1944, quando "la presero in duemila", ed ad Alba era quando il 2 novembre "la persero in duecento". L'occupazione partigiana di Alba durò per meno di un mese, ma la sconfitta albese è una di quelle battaglie perse che non sono sinonimo di sconfitta in guerra. Perché a distanza di cinque mesi l'Italia sarebbe stata finalmente liberata, e Beppe, come altri intellettuali che hanno combattuto, ha raccontato nei suoi libri le sue esperienze, le sue lotte, gli intrecci continui tra amicizie, amori, fughe, avanzate. Il sapore del fango, l'umidità dei boschi alpini, la ricerca del cibo, l'assistenza dei tanti paesani che in quei giovani di grandi speranze ci credevano fermamente. Dopo la fine della guerra Fenoglio ebbe modo di conoscere Calvino, Vittorini, Natalia Ginzburg, grandi autori ma soprattutto grandi personaggi estremamente attivi durante la Resistenza. E nacquero così nuovi intrecci, reciproci aiuti, reciproche attenzioni, perché prima di qualsiasi altra cosa era fondamentale attestare ciò che in quegli anni successe: le generazioni future dovevano sapere, ricordare, tramandare ciò che era stato il Ventennio Fascista e cosa fu necessario per porre a questo nefasto periodo la parola fine. 

Sono degli intrecci, intrecci che sono alla base delle storie, da quelle più recenti alle più antiche della storia dell'uomo. Ed è una storia di intrecci quella che il 12 maggio 2015, ad Alba, nella Sala Beppe Fenoglio, è stata raccontata da Daniele Biacchessi: intrecci che, se osservati in modo superficiale, possono apparire casuali, ricchi di coincidenze, alquanto fortuiti. La verità è che ad avvicinare i fili delle vite dei personaggi che animano questa storia sono la Resistenza, l'amore per la propria patria, per i propri ideali; e l'amore nato tra i due protagonisti di questa "Storia d'amore e Resistenza" è stato partorito da un grembo fertile figlio anch'esso degli amori che hanno portato non solo i due fili ad incontrarsi ma ad intrecciarsi, perdersi, ritrovarsi per poi non lasciarsi più. Perché questa è la storia del compagno Giovanni Pesce e della compagna Onorina Brambilla: lui alessandrino, lei milanese. Pesce era emigrato con la famiglia in Francia durante i primi anni del Ventennio perché il padre, socialista, si trovò obbligato a lasciare l'Italia per dare un futuro alla propria famiglia. In Francia Pesce conobbe le miniere, le storie dei minatori, molti di loro come lui esuli, ed una volta maturo decise di partire per combattere la sua prima Resistenza, quella spagnola, con le Brigate internazionali e contro i Franchisti ed i nazi-fascisti. La perse la sua prima Resistenza, ed una volta tornato in Italia, poco dopo l'inizio della Seconda Guerra Mondiale, venne incarcerato a Ventotene perché antifascista. In prigione ebbe modo di arricchire ulteriormente la sua coscienza politico-sociale grazie ad uno strumento che ormai è fuori moda, ovvero il libro, ovvero il pensiero filosofico, ovvero la base di ogni grande azione dell'uomo. Dopo l'Armistizio raggiunse Torino e si unì ai GAP del capoluogo piemontese, e fu tra i più grandi partigiani che la città sabauda poté ammirare. E sicuramente ebbe paura più di una volta, sicuramente fu condizionato dall'incertezza di premere o meno un grilletto o di posizionare o meno un ordigno, ma la sua volontà, la sua voglia di libertà, la sua tenacia lo portarono ad agire sempre nel modo giusto. A Milano ci arrivò nel maggio del '44, dopo che, con il grande Dante Di Nanni, aveva sabotato un'antenna presieduta dai fascisti che disturbava le frequenze di Radio Londra. Di Dante Di Danni ho già parlato prima del 25 aprile, ma è fondamentale mettere in luce anche in questo caso un altro intreccio: quello che ha portato a combattere fianco a fianco due grandi partigiani, quello che ha fatto sì che la memoria del partigiano caduto potesse venir raccontata grazie al ricordo del partigiano sopravvissuto e che fino all'ultimo ha cercato di salvare la vita al proprio compagno. 

A Milano Pesce riorganizzò il gap locale, prese contatti con gli altri partigiani, cominciò a pianificare la resistenza. E conobbe Onorina, "Nori", una compagna che sarebbe diventata la SUA compagna. Nori fu però arrestata e portata nei campi di concentramento di Bolzano, Pesce rimase fino al giorno della Liberazione a Milano, continuando a combattere, con il cuore mosso non solo più dall'amore per la libertà ma anche dall'amore per la donna amata. Il 25 aprile 1945 Milano festeggiò la Liberazione, e pochi giorni dopo anche Nori poté raggiungere la città: perché i nazisti abbandonarono Bolzano, liberarono i detenuti, e per Nori, come se non fosse successo nulla nei venti anni precedenti, fu semplicissimo raggiungere il capoluogo longobardo: stazione di Bolzano, treno, Milano, tram, sede del GAP. Giovanni. 

Giovanni e Nori si sposarono due mesi dopo, e sebbene deposero i loro fucili mai smisero di maneggiare le armi della lotta sociale, della memoria, dell'impegno. Entrambi si impegnarono anima e corpo per l'ideale comunista, ma finalmente potevano farlo sempre insieme, fianco a fianco, fino alla fine dei loro giorni. 

Questa è la storia di Giovanni e Nori, questa è la storia che ci è stata raccontata da Daniele Biacchessi ad Alba. E limitarmi a citare soltanto la penna e poi voce che ci ha accompagnato lungo i fili delle vite di Giovanni Pesce ed Onorina Brambilla sarebbe uno sbaglio, perché porterebbe alla non citazione di un altro intreccio. Quello tra la letteratura e la lettura, rappresentate da Daniele Biacchessi, la musica dei Gang e di Gaetano Liguori e le illustrazioni di Giulio Peranzoni: un'opera multimediale quella andata in scena alla Sala Beppe Fenoglio, che ha coinvolto, commosso, scosso, e spero risvegliato in chi ancora ce l'aveva sopito il senso della propria esistenza, della propria voglia di essere, esistere, resistere. 

E, giusto per sottolineare una volta in più l'importanza degli intrecci, intrecci che sostanzialmente condizionano estremamente il processo del filo che ognuno di noi rappresenta, è importante sottolineare come le canzoni eseguite dai Gang siano esemplari per sì raccontare la Resistenza, ma anche per mostrare in quanti alla Resistenza hanno dedicato le loro note e le loro parole. Perché oltre a La pianura dei sette fratelli, brano immancabile quando si parla di Lotta partigiana e scritto dai Gang stessi, sono state cantate Dante di Nanni degli Stormy Six, Su in collina di Guccini, Sai com'è (testo scritto da Lolli) ed Eurialo e Niso di Bubola. 

La vita di ognuno di noi è il prodotto di milioni di intrecci, e la morale di questa storia risiede nel ricordare le storie di ieri, le memorie, gli avvenimenti che hanno fatto sì che ad un certo punto del nostro filo sia presente un nodo: uno dei tanti, forse, ma fondamentale per spiegare il motivo, insieme a tutti gli altri nodi, per il quale noi, adesso, in questo preciso istante, siamo quelli che siamo. 

Grazie a Daniele Biacchessi, ai Gang, a Giulio Peranzoni, a Gateano Liguori per il meraviglioso spettacolo, per avermi commosso nuovamente con le storie della Lotta partigiana che tanto amo leggere e raccontare ma che, mostrate così, hanno tutto un altro sapore. Grazie ad Alba che si è dimostrata sempre attenta al suo passato, alla memoria di uno dei suoi migliori figli e di ciò che lui, Beppe, ha rappresentato per Alba e per l'Italia intera. 

E grazie a voi, grandi uomini e donne che soprattutto tra il '43 ed il '45, ma anche prima e dopo, avete fatto sì che in Italia si possa ancora provare a pensare, a raccontare, a ricordare, a sperare, a vivere. 

Non posso che chiudere questo mio post con la canzone che raccoglie tutta la storia, che la sintetizza e ne mostra la morale più profonda, più intensa, più vera. Giovanni e Nori. Storia d'amore e resistenza, non poteva che concludersi con l'esaltazione di queste due sfumature di rosso, che da sempre e per sempre determineranno il percorso del mio filo e ne detteranno i futuri intrecci. 





Stefano Tortelli

lunedì 11 maggio 2015

I Vent'anni dell'Orso, la mia seconda casa





Esiste sempre un luogo, o meglio un locale, al quale leghi parte della tua vita, della tua storia, e che quindi, implicitamente, contribuisce alla tua formazione, alla tua crescita, determinando in più modi l'essenza del tuo Io. Basta pensare al fatto che quando abitualmente si frequenta un locale inevitabilmente si ha modo di entrare in contatto con chi, come te, lo vive soventemente: la clientela, i baristi, chi va a suonarci. E per cui si viene a creare una vera e propria cerchia di conoscenze, che gravita attorno a questo posto, che contribuisce al rendere allo stesso tempo il posto in questione migliore o peggiore. 

Da circa otto anni L'Orso di Vigone è per me questo luogo: è il ritrovo, è la base dalla quale partire con gli amici per altri posti, altri paesi, a volte altre regioni; ma spesso oltre che essere il ritrovo è anche e soprattutto la meta delle mie serate, delle serate con i miei amici più cari, che con il passare dei mesi diventano sempre più numerosi proprio perché lì, nel dehor o ai tavolini fuori dall'entrata, ci siamo conosciuti, abbiamo cominciato a scherzare insieme, a bere insieme, e poi a parlare di cose più serie. Ne è un esempio lampante il molto citato (nelle pagine di questo blog) Ivan, che se non fosse stato per l'Orso probabilmente non avrei mai conosciuto, ed il discorso riguardante Ivan vale anche per Valentina, Beppone, Sara, Bruno, Annalisa e via dicendo. Ed anche l'Orso è arrivato un po' per caso nella mia vita: erano le prime sere che si usciva anche in settimana, nonostante la scuola, ed ovviamente anziché andare fino a Saluzzo si preferiva restare nei paraggi, anche perché ancora si era senza macchina ed a turno il padre mio o del Biondo doveva venirci a prendere. L'Orso era uno dei due locali che frequentavamo in quel periodo, e quando chiuse l'altro ovviamente si fecero più frequenti le nostre serate all'Orso. Quando poi finalmente si ebbe per le mani quella tessera rosa che è sinonimo di indipendenza, l'Orso divenne una costante delle nostre settimane. Anche perché già avevamo alcuni amici di Vigone e dintorni, e per cui trovarsi lì era la cosa migliore, perché oltre tutto si riusciva ad unire il bello dell'essere con CHI si voleva essere ed il bello dell'essere DOVE si voleva essere. Eravamo ancora tutto sommato dei giovincelli, ma a forza di passare lì buona parte delle nostre serate ci ritrovammo ad avere la possibilità di interagire con gente più grande, e così più generazioni si erano trovate a venire a contatto, a scambiarsi le esperienze, a darsi consigli, a confrontarsi. Perché spesso ad un tavolo ci si ritrova con alcuni che hanno qualche anno in meno di noi ed altri che ne hanno anche venti in più, e per cui, dato che spesso si parla di musica, sentirsi raccontare il tour degli Iron Maiden del 1986 o il concerto dei Pink Floyd del 1994 è qualcosa di meraviglioso. Perché comunque l'Orso, forse non tanto per scelta ma perché così è andata, è frequentato da persone che hanno tante cose da dire, da raccontare, da condividere, e bene o male un po' tutti noi ci siamo arricchiti ed abbiamo arricchito chi ci ha ascoltato, e soprattutto abbiamo reso l'Orso un bel posto dove chiacchierare, scherzare, a volte cantare, altre suonare. 

Ma in verità la gran parte del merito dell'Orso e del suo successo in questi suoi vent'anni, che sabato sera si sono solennemente ed alcolicamente celebrati, sta in chi l'Orso l'ha fatto nascere, sta nella voglia di renderlo ogni giorno più accogliente, più piacevole, mettendo spesso nella condizione molti di noi a chiedersi perché si dovrebbe andare da qualche altra parte quando c'è l'Orso? Perché l'Orso è come una seconda casa, è quel posto in cui a qualsiasi ora del giorno o della sera sai che puoi fare quel bel discorso, come quelli che spesso mi capita di fare con Angelo, ma allo stesso tempo puoi parlare dei buoni vecchi Litfiba con Domenico ed Alessio, di calcio, e di mille sciocchezze ma anche tantissime cose interessanti. E poi si beve bene, spesso e volentieri, si bevono i migliori mojito della zona che nulla hanno da invidiare a quelli di alcuni locali di Torino, si mangia bene, e per cui cosa manca all'Orso per essere considerato una seconda casa?

Nulla, anche perché, almeno per quanto mi riguarda, anche quando si parla di politica mi trovo spesso d'accordo con chi l'Orso lo gestisce e buona parte delle persone che lo frequentano, rendendolo quindi un perfetto luogo in cui dar vita a dei Simposi, più alcolici che mangerecci, che talvolta durano per ore intere, anche dopo l'orario di chiusura. Perché ormai ci si conosce quasi tutti, ed anche quando pensi di rimanere da solo al tavolo spunta sempre un volto amico a farti compagnia... e se proprio questo non succede, dietro al bancone c'è sempre un buon amico, oltre che un ottimo barista, con cui fare due chiacchiere e sentirti, ancora, nuovamente, a casa.

Tra l'altro, l'altra sera, ripensando ad alcuni bar che nelle canzoni, nella letteratura e nei film vanno a rappresentare il tipico luogo in cui ci si trova e si passa parecchio tempo insieme, non ho potuto non paragonare l'Orso a quello dei quattro pensionati seduti al tavolino della Vecchia Città di De André, o al bar di Guccini nel film Radiofreccia, o ancora a quel famoso "Stessa storia, stesso posto, stesso bar" degli 883. E quando, soprattutto nelle canzoni, i contorni immaginari dei luoghi descritti vanno a coincidere con quelli reali dei luoghi che frequenti, allora non vi è alcun dubbio che quel posto, ormai, è parte integrante della tua storia, della tua vita, del tuo Io.

Grazie all'Orso, grazie a Domenico, ad Angelo, ad Alessio, a Massimo, a Ricu, grazie alle cameriere, da Saieda a Federica, grazie a chi lo frequenta. Grazie, ed auguroni, sperando che tra trent'anni ci si ritrovi a festeggiare il cinquantenario! Magari Claudio, Biondo, Simo ed io non saremo pensionati, ma saremo comunque mezzi avvelenati... come i pensionati di De André!!! 




Stefano Tortelli



70 anni di ipocrisie, di mezze verità, di irriconoscenza





Il 9 maggio dovrebbe essere una data importante nel calendario politico-storico di tutto il mondo, una data che in sé racchiude un significato ben preciso, una conquista fondamentale per l'uomo, una sonora sconfitta per il più grande pericolo che l'umanità ha dovuto affrontare nel corso della sua storia. Il 9 maggio 1945 Berlino fu conquistata dall'Armata Rossa Sovietica, ponendo fine una volta per tutte alla terribile egemonia nazista che per un decennio aveva messo sotto scacco il pianeta intero, e soprattutto l'Europa. Perché il 9 maggio Keltel, generale tedesco, firmò la capitolazione della Germania, arrendendosi agli Occidentali ed ai Sovietici, veri conquistatori della Germania Nazista. 

Logicamente qualcuno potrà chiedersi perché considero l'Unione Sovietica l'autentica artefice della disfatta di Hitler, e la risposta è celata in ciò che successe poche settimane prima dell'inizio della guerra: il 3 settembre del '39 le truppe naziste dichiararono guerra alla Polonia, portando quindi da una parte i Sovietici ad invadere il territorio polacco e gli Alleati (Francia, Regno Unito e Stati Uniti d'America) ad aprire le ostilità nei confronti della Germania. In partenza tra Russi e Tedeschi vigeva un patto di non belligeranza, il famoso trattato Molotov-Von Ribbentrop, firmato pochi giorni prima dell'inizio del conflitto. Si può quindi parlare in un certo senso di neutralità reciproca, ma la verità è che Hitler decise di muovere i primi passi del più grande conflitto mondiale mai verificatosi proprio in Polonia per anticipare le eventuali mosse di Stalin per garantire la totale difesa del Blocco Socialista. Quando quindi le prime armate tedesche varcarono i confini della Polonia, i Russi non poterono che entrare in guerra anche loro, proprio per non ritrovarsi in poco tempo minacciati direttamente, sul proprio territorio, dalla potenza tedesca. In tutto questo ci si può chiedere cosa possa centrare la povera Polonia, ma un po' la geografia ed un po' gli assetti politici di quel momento ne possono spiegare il passivo coinvolgimento. Hitler non era stupido, e di questo bisogna dargliene atto: non fosse stato un folle, uno psicopatico, con un progetto tanto ambizioso quanto inutile, forse sarebbe stato uno dei più grandi strateghi e condottieri della storia dell'uomo. Non si può però negare che fosse a suo modo geniale, soprattutto nel sapersi districare tra due blocchi così potenti come quello Occidentale e quello Sovietico: di fatto, nei primi anni della sua ascesa, tutto l'Occidente capitalista vedeva in Hitler più che una minaccia una risorsa, perché oltre ad essere un razzista, un fascista ed un dittatore, era soprattutto un anti-comunista, ed ai potenti dell'Occidente questo era più che sufficiente per avere nei suoi confronti una malcelata simpatia. Tant'è che Hitler poté fare il buono ed il cattivo tempo per diversi anni, anche perché fu abile a sembrare, almeno per il primo periodo, non tanto lui il capo dell'alleanza fascista europea, ma un semplice fido scudiero di Mussolini, distraendo così l'opinione pubblica, confondendo le acque, rimanendo per diverso tempo nelle retrovie. Quando ebbe modo di affacciarsi totalmente sul panorama internazionale era ormai troppo tardi: conquistò l'Austria, promulgò le leggi razziali, disponeva ormai dell'esercito più grande e meglio organizzato del mondo. Ed in lui erano riversate tutte le speranze dell'Occidente: "Dai che finalmente abbiamo la nostra speranza di sconfiggere il comunismo". 

Nel '39, nei primi giorni di agosto, le linee telegrafiche tra Mosca e Londra erano decisamente movimentate: Stalin incaricò Molotov di prendere i contatti con i diplomatici inglesi per dar vita ad una morsa anti-nazista invincibile, in grado non solo di sconfiggere Hitler ma di metterlo nella condizione di non poter neppure cominciare la guerra. Perché Hitler era sì un pazzo, ma non uno sprovveduto. Solo che l'unica cosa che gli Alleati erano disposti a fare era ascoltare Molotov, ma assolutamente non avevano alcuna intenzione di allearsi con la Russia. Fu questa una mossa saggia? Direi proprio di no, e non è che lo dico per partito preso, ma perché sono le decine di milioni di morti che si sarebbero potute risparmiare a parlare per me. E lo è anche la storia, che ci mostra come nel '45 sia successa più o meno la cosa che sin dall'inizio speravano di mettere in atto i Sovietici: accerchiamento, invasione e sconfitta del nazismo per mano dei Capitalisti e dei Sovietici. 

I sei anni che hanno visto muoversi milioni di soldati in Europa ci raccontano che Hitler, dopo aver occupato la parte occidentale della Polonia (mentre l'Armata Rossa prese possesso della zona orientale), si vide recapitare la dichiarazione di guerra degli Alleati (che intervennero più per il fatto che l'Orso russo si era svegliato che per altro), e così prima conquistò anche la Francia e poi occupò gran parte dell'Europa con i suoi generali. Dopodiché, sistemato il nemico occidentale, si dedicò alla campagna di Russia, che cominciò nel 1941 e finì con la gloriosa vittoria dell'Unione Sovietica nel 1943, e che sostanzialmente diede il colpo di grazia al Fascismo ed al Nazismo. Da lì in poi, i Tedeschi cominciarono a perdere territori, altre migliaia di uomini e soprattutto l'appoggio della popolazione tedesca: perché con undici milioni di soldati in meno (sui diciassette che erano stati impiegati sul Fronte Orientale) il controllo dell'intera area di influenza nazista non poteva che essere meno efficace. Soltanto gli errori strategici degli Stati Uniti e del Regno Unito rallentarono la ritirata tedesca dai territori occupati (come ad esempio accadde nel Sud Italia, quando a forza di tentennamenti nella risalita dello Stivale si è dato modo ai nazifascisti di risistemarsi lungo la Penisola, portando ad uno spreco di vite italiane, americane e tedesche inutile...sì, anche tedesche, perché bisogna ricordare SEMPRE che chi muore in battaglia è un soldato, non Stalin, non Hitler, non Mussolini, non Roosvelt). E per cui ecco il D-Day, ecco la Liberazione della Francia e dell'Italia, ecco le "gloriose" battaglie tra tedeschi ed Alleati, con questi ultimi quasi sempre vincitori, fino a raggiungere la tanto agognata Berlino. Ma come sciacalli (e del resto tali si sono confermati con il Giappone) hanno sparato, anzi bombardato, sulla Croce (uncinata) Rossa, ormai ferita a morte ed in attesa del colpo di grazia. 

Non è mai il boia ad essere il colpevole della morte di un condannato alla pena capitale, ma chi ha fatto in modo che questa pena capitale dovesse venir eseguita. Così la "colpevole"  della sconfitta del Nazismo è stata l'Unione Sovietica, e, a dirla tutta, è stata anche lei a dare il colpo di grazia all'egemonia tedesca. Se poi si vuole credere alla storia che ci viene insegnata è un altro discorso. Io non racconto la storia, io racconto le verità, e le verità sono queste: documentate, riportate, disponibili. E se non bastasse tutto ciò, è sufficiente guardare i successivi settant'anni per comprendere come la storia sia sempre stata la stessa: a turno diversi Stati sono stati incaricati di mettere nella condizione la Russia di inciampare, di barcollare, salvo poi essere i primi ad intervenire contro lo Stato stesso dopo che aveva fallito la sua missione primaria. E' successo con Al Qaeda, è successo con Saddam Hussein, e succederà ancora. E del resto se può essere considerato di parte il mio discorso quando si parla dei fallimenti del capitalismo nella guerra al socialismo nell'Europa orientale, è innegabile il ruolo svolto dagli Stati Uniti a Cuba, in Cile, in Argentina per soffocare la voglia di socialismo dei Sudamericani. 

Sabato si sono svolti i festeggiamenti del settantesimo anniversario della Seconda Guerra Patriottica (la prima fu quella contro Napoleone) del Popolo Russo, anche conosciuta come Giornata della Vittoria. A San Pietroburgo ed in tante altre città russe (e non solo) centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per festeggiare e per ricordare i trenta milioni di morti, tra soldati e civili, che hanno perso la vita durante l'invasione nazista del loro Paese, della loro Terra, della loro Madre. C'erano delegazioni politiche di buona parte del mondo, soprattutto a San Pietroburgo, ma mancavano quelle degli altri "vincitori" della seconda guerra mondiale, mancavano quelle degli italiani, mancavano quelle dei Paesi capitalisti. Non c'erano quindi i grandi potenti del mondo, ma in quelle piazze era rappresentata gran parte del mondo: la maggioranza degli abitanti della Terra era rappresentata durante i festeggiamenti, e perciò bisogna presupporre che per la maggior parte della popolazione terrestre questa ricorrenza è importante. Ma come dissi in un post riguardante il riconoscimento della Palestina, per ora la maggioranza assoluta conta poco... proprio agli occhi di chi si considera democratico.

Ma arriverà il giorno in cui innanzi tutto questo evento verrà preso ad esempio in altre Nazioni (sarebbe bello se festeggiamenti simili si tenessero in Italia in quella che in un certo senso è la trasposizione italiana del 9 maggio, ovvero il 25 aprile), ed anche il giorno in cui la maggioranza assoluta conterà davvero qualcosa. 

Nel frattempo, rendo onore ad un Popolo da secoli si distingue per la sua grandezza, la sua forza ed il suo senso di appartenenza, e che non solo si difende ma auspica di migliorare anche il resto del mondo. Tantissimi auguri, fratelli Russi, e lunga vita alla vostra Patria. 


Ps: vorrei sottolineare che non credo siano tutti comunisti coloro che nelle piazze russe sabato hanno sfilato per ricordare il sacrificio dei loro nonni. Erano semplicemente Russi, consapevoli dell'importanza della memoria, della storia, della difesa della realtà. A differenza di noi italiani, che ce ne freghiamo altamente del 25 aprile... ma questa è un'altra storia...



Stefano Tortelli

giovedì 7 maggio 2015

Post numero 100: dedicato alle mie radici. A mia mamma ed a mio papà.






Questo è un post estremamente speciale, un post decisamente significativo, un post che potrebbe trattare di molti argomenti disparati se non fosse che rappresenta di per sé un traguardo importante, già di per sé insperato ma che mai avrei pensato di raggiungere in soli cinque mesi. E' il post numero cento, è il post delle tre cifre, è il post al quale, in senso metaforico, mi volto indietro e guardo il percorso già fatto. Come tutto è cominciato, il perché, il quando, il chi mi ha dato la spinta. Era il due dicembre quando aprii questo blog, e sotto le pressioni di Ivan qualche giorno dopo ho aperto anche la pagina Facebook ad esso dedicato. Poi è arrivata la pubblicazione dell'articolo su Finardi da Finardi stesso sulla sua pagina, i complimenti di molte persone che non conoscevo, e che proprio per questo ritengo estremamente sinceri, disinteressati, autentici. La stessa cosa è successa con quello dei Gang, poi è cominciata la collaborazione con Libera.tv, e sarebbe dovuta cominciare anche con ResetItalia non fosse stato per un problema di accesso al sito. Ma ci sono cose estremamente più importanti di queste, che sostanzialmente risiedono non tanto nella ragione dello scrivere, e tanto meno nel ciò che scrivo. Perché voltandomi indietro, di fronte a questo cento, sono andato anche più a ritroso, oltre al punto in cui la strada cominciava. E forse è ancora meglio definire il tutto come un fiume: dopo questi cento chilometri di corso d'acqua mi son girato, con le spalle rivolte verso la foce, ad osservare non solo la fonte, ma dentro la fonte. 

Nella fonte, nelle viscere più profonde che la animano, all'interno dell'immensa montagna che la ospita, ci sono due persone, c'è un amore, c'è la vita, il senso più profondo della vita. Perché alla base di tutto ci sono i miei genitori, mio padre e mia madre, le persone che mi hanno dato la vita, le persone che per prime hanno creduto in me, stimolandomi, spronandomi, a volte, forse, anche inconsapevolmente. Perché se è vero che idealmente io ora sono quel fiume, all'inizio di tutta la storia ero un animale che si abbeverava alla fonte, dissetava la propria gola con quella fresca e dolce acqua, così pura, così limpida, così meravigliosa. Mi rendo conto di non aver citato molto spesso Luciana e Marco, preferendo magari dedicare qualche riga in più alle professoresse di italiano, a mia nonna, agli amici, alle relazioni che mi hanno, nel bene e nel male, portato ad essere la persona che sono, con i miei pregi e con i miei difetti, ed anche con le mie contraddizioni. Ma tutta la sostanza, e soprattutto buona parte della forma, le devo a quella donna e quell'uomo che nell'amore mi hanno concepito, nell'amore mi hanno fatto nascere, e con amore mi hanno cresciuto, preferendo ai giudizi i consigli, premettendo sempre che le eventuali difficoltà, le eventuali rinunce, gli eventuali rimproveri, erano, innanzi tutto, atti d'amore, e non di odio. E, cosa più importante di tutte, per lo meno in questa prima parte della loro descrizione, è stato il loro darmi la possibilità di sbagliare, di sbagliare di testa mia, mettendomi nella condizione di aver sì la libertà di fare, ma anche di essere consapevole del fatto che, come da solo agivo, da solo avrei sbagliato. Mi hanno fatto il dono più grande dell'universo, la responsabilità: nei confronti di me stesso, in primis, ma anche nei confronti del mondo che mi circonda. 

In queste ultime due settimane ho avuto molte occasioni per parlare di me, della mia storia, del mio trascorso, perché in questo lasso di tempo, che sono sicuro si dilaterà con il passare dei giorni, ho potuto passare diverse ore con una persona estremamente curiosa, molto intelligente, e che soprattutto non mi conosceva minimamente e che non ha avuto alcun pregiudizio durante il suo percorso di avvicinamento. Così, più che sottolineare ciò che faccio, ciò che anima le mie giornate, il più dei discorsi hanno avuto come oggetto ciò che ho fatto, ciò che mi ha caratterizzato in passato. Del resto ognuno di noi è, nel presente, perché figlio di ciò che in passato ha fatto, e sarà, un giorno, in base a quel che oggi fa: le esperienze, il buono ed il cattivo, le influenze esterne, le varie prese di coscienza nei diversi momenti della vita. Ed andando sempre più a ritroso, a volte saltando a piè pari alcuni periodi per riuscire ad arrivare ai punti focali (visto che quando si sta bene il tempo sembra avere sempre una marcia in più...), non ho potuto evitare di citare la base, il sostegno primario, gli esempi fondamentali, l'ispirazione essenziale. I miei genitori, Marco e Luciana, sono due persone che hanno avuto un percorso estremamente diverso prima di conoscersi, che però, allo stesso tempo, li ha portati ad essere sufficientemente simili per essere compatibili al punto tale da stare insieme da trentacinque anni ed amarsi come se fosse ancora il primo giorno. E forse è proprio nell'amore che hanno trovato continue motivazioni per preservare la loro essenza: perché loro sono tra le poche persone che ancora ragionano attraverso i "nonostante", che quando si dicono "Ti amo" non pensano più di tanti ai mille motivi per cui si amano ma, consci del fatto che logicamente c'è sempre qualcosa di soggettivamente imperfetto nell'altra persona, sanno che il loro è un "Ti amo nonostante...". E non credo esista forma di amore più grande di questa, perché libera, perché incondizionata, perché non ha fondamenta deboli dettate da pochi perché ma eventualmente minime crepe causate dai nonostante, ma mai sufficienti per trasformare il "nonostante" in "non". 

Ed in un ambiente del genere è già di per sé semplice crescere, sentirsi a proprio agio, riuscire ad esprimersi. Ma soprattutto in questo contesto  è stato facile essere curiosi, anche perché davanti alla mia curiosità raramente non ho trovato una risposta pronta ed esauriente da parte dei miei. Perché mio padre è una di quelle persone che basta ascoltare dieci minuti per poi desiderare di passarci le ore insieme a parlare, anche di argomenti che magari in partenza non ti interessano ma che lui, non si sa come, sa rendere estremamente interessanti, coinvolgenti. Mio padre sarebbe potuto essere un grandissimo oratore, anche perché accanto alla serietà, all'intensità dei suoi discorsi ed alla capacità di farti pendere dalle sue labbra sa far ridere come poche altre persone al mondo, perché oltre ad essere a conoscenza di innumerevoli nozioni ha anche un'inventiva pazzesca, che è tangibile quando dal nulla ti crea (perché dire costruisce è in un certo senso riduttivo per lui) un oggetto, un disegno, una composizione floreale, ma è sorprendente ed ancor più efficace quando è intangibile, quando è dettata dalle sue parole, soprattutto nello scherzo, nella battuta, nel non-sense. Ed in tutta questa grandezza difficilmente si riesce a scorgere l'emotività, che però emerge quando, paradossalmente, riesce ad essere estremamente lucido, razionale. C'è chi, in certe situazioni, potrebbe pensare, parlando con lui, che alcune sue frasi, che possono sembrare sentenze, siano dettate da cinismo o spietatezza: in verità sono dettate dall'immenso amore che prova per ciò che lo circonda, e che come un novello Machiavelli punta a difendere, adottando qualsiasi mezzo necessario e disponibile. Perché lui è pragmatico, consapevole sia di quali siano i problemi sia di quali siano le soluzioni più adatte, e nella sua razionalità mantiene innanzi tutto una capacità di essere oggettivo disarmante: perché magari può sembrare cattivo, ma prima di qualsiasi considerazione soggettiva dettata da chi lo ascolta o lo osserva agire lui è GIUSTO. 

E mia madre, mia madre è colei che alimenta ogni mia speranza, è colei che mi spinge a crederci, è colei che sebbene attorno ci sia solo il buio riesce in qualche modo a trovare la luce, e se luce proprio non c'è è lei a crearla. Con i suoi occhi, con i suoi sorrisi, con i suoi abbracci, con la sua voglia di non arrendersi mai, nemmeno nel peggiore dei momenti. Lei è la classica persona che diventerebbe in poco tempo la migliore amica di chiunque, perché con lei si può parlare di tutto, con lei ci si può totalmente esporre perché nel suo vocabolario il verbo "giudicare" non esiste. E questo non significa che non sappia distinguere il bene dal male, ma fino a che ha argomenti disponibili cerca di trovare le motivazioni del bene e del male, scava nel profondo, va al di là delle barriere, non ponendosi limiti e non ponendo ad altri alcun limite. Mia madre, ora che non c'è più mia nonna, è probabilmente il perno della famiglia allargata: è moglie e confidente, è madre e confidente, è sorella e confidente, è cognata e confidente, è zia e confidente. Lei è, e trova sempre il modo di far sì che anche gli altri possano cercare di essere, di splendere, di dare. Lei è stata la prima a credere in me quando da piccolo cominciai a cantare, e pur di far sì che io potessi continuare ad allenare il mio talento ha passato ore con me a cantare. Lei è stata la prima a credere in me quando, appena imparato a scrivere ed ad articolare le frasi, cominciai a scrivere le mie prime storielle, avventure in modi lontani o fantastici. Lei ha nutrito ogni giorno la mia sete di conoscenza, leggendomi libri, aiutandomi poi a leggerli ed infine spiegandomeli quando non li capivo. Lei ha instillato in me la maggior parte delle mie passioni, dalla musica alla poesia, e lei mi ha insegnato ad accogliere le emozioni, dalle più belle alle più brutte, dandomi la possibilità di comprendere che non è importante che emozione si stia vivendo, ma che l'importante è viverle, sentirle, fino in fondo. E, cosa più importante di tutte, mi ha insegnato a ricercare la bellezza, non tanto dove è facile trovarla ma in quelle situazioni in cui, per gli occhi di qualcun altro, di bellezza non vi è nemmeno l'ombra. Perché lei, in tutto ciò che ha fatto, non si è mai fermata alla risposta che poteva derivare dalla domanda "Ho indovinato nel scegliere questa strada oppure ho sbagliato?": perché per lei, la cosa più importante, è sempre stato fare del bene, volere il bene, dare il bene, a più persone possibili. Perché se c'è una persona davvero BUONA al mondo, questa è mia madre.

Ed ecco, crescere con la Buona ed il Giusto è stato il più grande regalo che questo mondo potesse farmi, è stata la situazione ideale in cui formarmi, è stata la fonte migliore che il fiume che rappresento potesse avere. Un'acqua sì buona, ma anche sana, consapevole che, per poter scorrere, bisognava scavare nella montagna, emergere, ed aiutato dalle forze esterne aprirmi una via nella valle. Per poter sì far giungere il più lontano possibile la mia buona acqua, ma anche non fermarmi davanti agli ostacoli che si ponevano tra me ed i miei obiettivi, ovvero tutto ciò che di sbagliato avrebbe potuto limitarmi: e così mi sono infiltrato nella montagna, ho visto la luce del sole, ho lentamente creato il mio letto, abbattuto alberi, a volte curvandomi per evitare dei limiti troppo difficili da superare, ma mantenendomi sempre coerente e fedele alla mia missione. 

Prima di raggiungere il mare spero passino ancora tanti post, tanti giorni, tante esperienze, e spero che buona parte di questo tempo che manca al raggiungimento della foce io possa farlo con la fonte ancora viva e rigogliosa. Perché spesso ho parlato di eroi in questo blog, ma i più grandi di tutti, quelli che realmente si vorrebbe potessero essere immortali, sono proprio loro: Marco il Giusto e Luciana la Buona. Grazie, davvero, per questo meraviglioso percorso che mi avete invogliato a intraprendere e che tanto mi sta dando, in nome della bontà, in nome del giusto. In nome dell'amore.







Stefano Tortelli

martedì 5 maggio 2015

Red Hot Chili Peppers: il primo amore non si scorda mai





I miei primi quattordici anni di vita si potrebbero facilmente riassumere in tre fasi musicali, fortemente influenzate dai consigli musicali di mia cugina e da ciò che ai tempi passavano TMC2, All Music ed MTV. Già, quand'ero piccolo MTV ancora trasmetteva video musicali, aveva classifiche su classifiche, contenitori tematici, trasmissioni inerenti alla musica. Mi ricordo che quando avevo 12-13 anni c'era una trasmissione che si chiamava Select, era in programmazione alle cinque di pomeriggio, durante la quale si poteva scegliere il video da far trasmettere tra i cinquanta precedentemente selezionati, e mai me ne perdevo una puntata, se non quando dovevo andare a karate. E sempre MTV ed All Music aprivano le mie giornate: appena sveglio, mentre mi preparavo per andare a scuola, accendevo la tv ed ascoltavo i pezzi che passavano. I primi anni della mia vita erano stati caratterizzati dalla forte presenza degli 883, tanto che ancora ora mi ricordo la maggior parte dei loro testi, le scalette degli album, e se Max Pezzali ripasserà a Torino probabilmente andrò nuovamente ad ascoltarlo. Perché hanno segnato un'epoca, hanno accompagnato molti momenti della mia infanzia, sono loro le prime parole che ho cantato a tre anni, e se ora canto è perché gli 883, per primi, mi hanno fatto innamorare delle canzoni e del cantare le canzoni. 

Dopo è arrivato Eminem: quando uscì The Eminem Show conoscevo il rapper americano soltanto per qualche video dei suoi lavori precedenti (canzoni come The Real Slim Shady, My name is o Stan), ma al primo ascolto di Without me fu subito amore. Non capivo nulla del testo, ma quel semplicissimo passaggio ripetitivo che fa da sostegno all'intera canzone era ipnotico, faceva gesticolare e muovere la testa a ritmo: era come se io fossi un cobra ed Eminem l'incantatore di serpenti in grado di farmi fare quello che voleva con la sua musica. Lo ascoltai tantissimo, tant'è che il disco di The Eminem Show diventò pressoché inutilizzabile a causa dei migliaia di passaggi che fece nello stereo e nel lettore cd portatile. Quando uscì la videocassetta del film 8mile i miei genitori me la regalarono e la vidi almeno una decina di volta, e quando successivamente uscì il dvd, anni dopo, con un settimanale, non potei fare a meno di comprarlo. Cominciai poi a comprare i primi giornali dedicati alla musica: era il periodo d'oro della rete televisiva All Music, tanto che iniziarono a stamparne una rivista, ed a fianco di Topolino e di alcuni libri per ragazzi diventò una mia lettura abituale, così come TuttoMusica.

TuttoMusica entrò per la prima volta in casa per caso, ed è doveroso citarlo in questo post perché il motivo per il quale entrò in casa rappresenta la svolta del mio interesse nel campo musicale. Nel 2002 era uscito By the way dei Red Hot Chili Peppers, ed entro la fine dell'anno erano stati pubblicati i primi due singoli con i relativi video: l'omonimo By the way e The zephyr song. Le ascoltavo, mi piacevano, ma ancora non mi avevano preso totalmente. Ma poi ecco la rivoluzione: un pomeriggio come tanti presentarono su MTV il nuovo singolo dei Red hot, Can't stop. Da lì fu amore, un amore totale, un amore che non avevo provato né per gli 883 né per Eminem. Perché il motivo per cui guardavo MTV ed All Music da quel momento era cambiato: non le guardavo per ascoltare musica e vedere video qualsiasi, le guardavo con la speranza di vedere QUEL video, di sentire QUELLA canzone. Una mattina ero in auto con i miei ,stavamo andando a Torino, mi sembra per una visita in ospedale, ed alla radio passò Can't stop: ero così felice di sentirla anche in via etere che mi ero quasi commosso. E qualche giorno dopo mio padre arrivò da lavoro con in mano un numero di Tuttomusica, quello dell'Aprile 2003, dedicato quasi interamente alle canzoni riguardanti la pace, perché era appena cominciata la seconda guerra in Iraq: a guardarne la copertina, che è attaccata ad un'anta dell'armadio, mi viene da sorridere, perché oltre ad una foto con diversi artisti italiani che si erano prodigati con messaggi e canzoni contro la guerra (e molti di questi artisti sarebbero poi diventati cardini della mia cultura musicale, da Morgan a Pelù, passando per i Modena City Ramblers e la Bandabardò), era anche riportata una frase di una canzone che assolutamente non conoscevo ma che poi mi avrebbe fatto commuovere parecchie volte pochi anni dopo:  Goodbye blue sky dei Pink Floyd. Ma non è tutto qui, anche perché altrimenti non avrebbe alcun senso citare tutto ciò: in allegato alla rivista c'era un cd che, dopo aver approfondito la conoscenza dei Red Hot, sarebbe diventato il mio preferito della band californiana. Era Mother's milk!! E così ebbi finalmente il piacere di ascoltare i Red Hot in qualsiasi momento del giorno, sebbene quell'album non fosse semplice da capire, da apprezzare totalmente, perché lo reputavo ancora troppo duro, violento, per le mie giovani orecchie. Intanto, anche mia cugina era venuta a conoscenza del mio amore incondizionato verso Kiedis e soci, perciò mi scaricò alcune loro canzoni, quelle fondamentali, e ne scaricò anche alcuni video, regalandomi poi per il compleanno il cd. E così avevo tutto ciò che mi serviva per conoscerli a pieno, per approfondirli. E con il tipico "inglese da canzone" cominciai a provare a cantare alcuni loro pezzi, ed in questo caso a venirmi poi in soccorso fu mia madre, che nelle pause a lavoro stampò alcuni testi che ancora custodisco in uno dei miei raccoglitori. 

Grazie ai Red hot aprii le porte del mondo del rock, ed in rapida successione cominciai ad ascoltare i Guns n' Roses (il cui Greatest hits fu il primo cd che acquistai con i miei soldi), i Nirvana, gli AC/DC, i Led Zeppelin, i Metallica, i Queen, i Pink Floyd. Grazie ai Red hot imparai,dopo il primo ascolto di una canzone , a tentare subito di ripercorrerne la linea vocale, a volte con risultati sorprendenti, altre fallendo miseramente, a seconda delle mie ancora grezze capacità e della mia voce ancora non totalmente formata (che però mi permetteva di cantare Bohemian rapsody dei Queen, cosa che ormai non posso più fare). E per questo motivo sento di dovere tanto a questo gruppo, anche il piacere dell'attesa dell'uscita del primo album che sarebbe uscito dopo averli conosciuti: era il 2006, da quattro anni non pubblicavano nulla di inedito (tranne il Greatest hits e il Live in Hyde Park) e ricordo che all'annuncio dell'uscita del nuovo album feci i salti di gioia, segnai sul calendario la data di uscita ed il giorno della pubblicazione mi fermai dopo scuola a Saluzzo, appostandomi davanti al negozio di musica in attesa che riaprisse. Mi portai dietro il lettore cd, in modo da ascoltarlo subito, perché avevo già atteso tanto e non potevo assolutamente far passare ancora mezz'ora, non era accettabile, assolutamente. E così feci il viaggio di ritorno a casa ascoltando il primo dei due cd, entrai in casa e me li gustai dalla prima all'ultima nota (quasi dimenticandomi di nascondere anche il regalo per mia madre per la festa della mamma, ovvero il disco di Bruce Springsteen): ero diventato un loro fan a tutti gli effetti. Ma per suggellare definitivamente questo amore dovetti aspettare ancora cinque anni: nel 2011 venne annunciata la pubblicazione del nuovo album, il primo della seconda era senza Frusciante, ed anche le date del tour. Italia: Roma e Torino. Guardai i prezzi, chiesi agli amici se qualcuno era interessato, ma costava parecchio, i biglietti andarono a ruba e per cui pensai che mi sarei dovuto limitare ad andare al Palaolimpico, sì, ma restando fuori. Poi però ci fu la svolta: una ragazza su Facebook, che sapeva che abito vicino a Torino e che amo i Red Hot, mi scrisse dicendomi che non poteva venire a sentirli e che aveva tre biglietti. In preda alla felicità cercai comunque di mantenere la calma: ero dai miei zii in quel periodo, e dovetti cercare di contenermi per non far sentire le mie urla di felicità per tutti i nove piani del condominio. Presi il telefono, chiamai Ivan ed il Biondo, tenendo un attimo in attesa quell'anima pia che risponde al nome di Arianna: "Ho la possibilità di avere tre biglietti per i Red hot al prezzo d'acquisto, che fate, venite?" "Boia faus, e ce lo chiedi? Certo che sì". Bene, dopo tre minuti scrissi ad Arianna, mi feci dare i suoi dati per mandarle i soldi ed io le mandai il mio indirizzo. Avevo i biglietti! Al concerto andai poi con i miei due fedeli compagni e colei che allora era la mia ragazza, anche lei sfegatata fan dei Peperoncini, e quel concerto fu memorabile. Tra i tanti bei ricordi che mi legano a quel concerto ce n'è uno che mi emoziona sempre in modo particolare: era già passato metà concerto quando, all'improvviso, inizia un arpeggio inconfondibile. Era Under the bridge, il Biondo da circa un quarto d'ora mi aveva raggiunto, e quando si accorse che stava per cominciare quella canzone mi guardò e mi disse: "E' la tua , Ste!!! E' la tua!!!!" Ci abbracciammo e la cantammo dall'inizio alla fine, tutta, in memoria dei tanti viaggi in pullman contraddistinti dal mio cantarla. 

Questo è il potere della musica, un potere che ho avuto modo di sperimentare con tanti altri artisti, di tanti generi diversi, dal cantautorato (ed ovviamente chi poteva esserci con me a sentire Guccini se non il Biondo?) al metal, dal folk al black, ma che mi è stato svelato, in tutte le sue forme, da loro: Anthony Kiedis, Flea, John Frusciante, Chad Smith. A volte mi sento quasi in colpa a non sentirli più così spesso come facevo in precedenza, ma poi, a conti fatti, almeno duecento passaggi all'anno per le mie orecchie li fanno sempre.

E dato che tutto è partito da questa canzone e da questo video, non potrei chiudere il post con una canzone diversa. E non è che non posso, più che altro non voglio!




Stefano Tortelli

lunedì 4 maggio 2015

Undercover: Reinterpretazioni d'autore

Metallica - Garage, inc. (1998)






Chiunque abbia imparato a suonare o abbia avuto il talento di cantare ha mosso i suoi primi passi con il microfono o lo strumento in mano eseguendo brani non originali, già scritti, già, suonati, già cantati. Come in qualsiasi arte bisogna cominciare partendo da qualcosa che già esiste, per poi eventualmente discostarsene, dando vita a qualcosa di proprio, dandogli poi il proprio marchio di fabbrica, inconfondibile, subito riconoscibile. Una propria firma, che sia nel modo di suonare, di cantare, di scrivere, di dipingere. Ciò vale per tutti, da chi stenta a sbarcare il lunario, oppresso dalle leggi di mercato e dal poco rispetto che c'è nei confronti delle band emergenti ed in generale nei confronti dei giovani musicisti, a chi ha fatto fior di milioni, riempiendo le arene e gli stadi di mezzo mondo, vendendo milioni di dischi, facendo emozionare milioni di fan. 

Eppure verso le cover c'è sempre un astio enorme, come se rappresentassero una mancanza di rispetto, un voler essere come l'artista che in origine ha scritto il brano, come se fossero solo delle esecuzioni, dei compitini, che nulla trasmettono se non la capacità o meno di poter fare un dato pezzo. A parte che il riuscire, ad esempio, a rifare una canzone dei Queen, tanto per citare un gruppo, è cosa da pochi, perché è necessario un cantante che abbia già solo il coraggio di cimentarsi in un compito così arduo, ma poi credo che sia molto superficiale ed estremamente irrispettoso verso chi fa le cover sostenere che sia semplicemente un riproporre qualcosa che è stato fatto da altri. Innanzi tutto bisogna, secondo me, considerare le cover come degli omaggi che vengono tributati da chi ripropone il brano a chi l'ha inciso per primo: un atto d'amore, di riconoscimento, di affetto, di stima. Certo, forse questo non vale per chi ha la classica scaletta rock anni '70-'80 con i soliti venti pezzi triti e ritriti ma giusti per far divertire per due ore la gente e non sbattersi più di tanto ad impararli e suonarli, ma, almeno per come vivo io il fare cover e come lo vedo in chi ci mette l'anima, il discorso precedente è probabilmente il caposaldo di chiunque scelga di eseguire un certo pezzo. Inoltre non bisogna sottovalutare la capacità di metterci qualcosa di proprio, di arricchirlo, di modificarlo, rendendolo, sebbene in piccola parte, qualcosa di personale: a volte bastano le emozioni che accompagnano il momento in cui lo si suona o lo si canta per renderlo diverso, per sentirlo proprio, eseguirlo e farlo ascoltare facendolo quasi considerare a chi lo riceve qualcosa che poteva benissimo essere autentico, inedito. 

Queste considerazioni spesso mi accompagnano quando vado a sentire un gruppo cover, oppure ascolto un album di qualche artista che ha deciso di tributare i propri idoli, o semplicemente una singola reinterpretazione, o traduzione, che null'altro fine ha se non essere proposta, a volte quasi per compiacere se stessi che l'ascoltatore. Anche perché ormai troppo spesso si reputa come un qualsivoglia prodotto ogni canzone che viene registrata, come se l'unico suo scopo fosse quella di far avere soldi a chi l'ha incisa, martoriando sostanzialmente ciò che è la vera funzione dell'arte, ovvero l'esprimersi creando, e creare lo si può fare anche rimodellando a proprio piacimento qualcosa che già esiste. Quando ancora, ad esempio, erano in voga i 45 giri, band come i Metallica o gli Iron Maiden registravano delle cover da inserire come B-Side, talvolta registrate live o comunque in modo molto approssimativo: facevano da contorno, non avevano alcuna pretesa, se non quella di essere attraverso la cover, essere in modo diverso rispetto all'A-Side, al singolo, alla propria creazione totalmente inedita. E vorrei soffermarmi sui Metallica, perché in questa particolare forma d'arte sono senza dubbio dei maestri: in un periodo non propriamente felice della loro lunga carriera hanno deciso di riprendere tutto il vecchio materiale cover pubblicato come b-side negli anni passati, registrarlo nuovamente, aggiustandolo e migliorandolo, ed inserendo alcune nuove cover appositamente scelte per la pubblicazione di un doppio album, il Garage, inc. Ebbene, delle ventisette canzoni che qui sono contenute non ce n'è una che non sia migliore dell'originale, non ce n'è una che si possa considerare come un riempitivo, non ce n'è una in cui non si percepisce la loro inconfondibile impronta, la passione che ci hanno messo a farla, il piacere nel tributare una volta i Motorhead, un'altra i Queen, un'altra ancora i Lynyrd Skynyrd. 

E queste sono un po' le cose che avevo voluto sottolineare quando scrissi riguardo il mio amico Ivan ed il suo progetto dedicato a Bruce Springsteen, sono le cose che dico di me quando mi ritrovo a cantare i miei idoli. E probabilmente sono le stesse cose che passano per la testa a chi reinterpreta in un tributo De André. E De André, in tutta la sua genialità, si è anche lui ritrovato a reinterpretare, previa traduzione, canzoni di altri: Cohen, Brassens, Dylan, il tutto grazie anche all'aiuto di quella meravigliosa donna che rispondeva al nome di Fernanda Pivano (ed alla quale prossimamente dedicherò un post del blog). La traduzione di un brano porta ovviamente ad una sua reinterpretazione, ad un aggiustamento della sua metrica, e la grandezza qui sta nel riuscire a rendere quasi intatto il messaggio originale, senza stravolgerlo, senza sgonfiarlo, ma nemmeno arricchendolo, sempre che non si voglia semplicemente adottare la musica (un po' come capitava a volte negli anni '60, quando i gruppi beat italiani portavano in Italia i successi anglo-americani cambiandone totalmente il testo). Ma in ogni caso ci va coraggio, che si sia degli artisti affermati o dei ragazzi a cui semplicemente piace emozionarsi ed emozionare cantando e suonando qualcosa che sentono come proprio anche se proprio non è. 

Quando ancora usavo Spotify avevo creato una playlist con centinaia di cover, e spesso passavo le ore a sentire l'originale e poi la reinterpretazione dell'artista di turno, con lo scopo non tanto di paragonarle dal punto di vista tecnico, ma cercando di carpire le emozioni di chi stava riproponendo il brano e analizzando anche le mie, di emozioni. E' difficile scegliere una canzone in particolare da considerare la portabandiera della mia tesi, ma visto che questa è forse una delle prime cover che io abbia mai sentito, eseguite tra l'altro da un altro grande gruppo che ha segnato parte della mia vita, opterò per questa. In questo caso, stiamo parlando di Sympathy for the devil dei Guns n' Roses che, in origine, era dei Rolling Stones: è sempre stato difficile capire quale fosse la più bella, e per cui mi son dovuto trovare nella "spiacevole" situazione di amarle tutte e due. Certo, il fatto che la versione dei Guns sia stata registrata per il film "Intervista col vampiro" la rende una chicca ed un collegamento ipertestuale meraviglioso, ma quella degli Stones è la mia canzone preferita del gruppo di Jagger, per cui....



Stefano Tortelli