mercoledì 30 settembre 2015

Fabrizio De André - Roger Waters: poesia e musica al servizio della ribellione





In occasione del Premio Tenco del 1997, la grande Fernanda Pivano, premiando Fabrizio De André, disse, chiudendo il suo discorso, che se effettivamente c'è una correlazione tra l'opera di De André e quella di Bob Dylan, anziché sostenere che De André sia il Dylan italiano bisognerebbe dire che è Bob Dylan ad essere il Fabrizio americano. La Pivano ha sicuramente ecceduto in campanilismo in quell'occasione, del resto Bob Dylan è emerso prima di Fabrizio, e Fabrizio ha attinto a piene mani dallo stile di Bob per i suoi album degli anni '70, perciò, se proprio si vuol far valere questo paragone, è De André ad essere il Dylan italiano. E comunque non sono totalmente d'accordo, secondo me il nostro Bob Dylan è Guccini, De André è più il nostro Cohen, come, secondo me, Bertoli è il nostro Pete Seeger. 

C'è però, secondo me, un De André straniero, un artista che è "arrivato" dopo Faber e che, con il passare degli anni, ha palesato totalmente la sua vena cantautorale, prima con il suo gruppo e poi proseguendo da solo la sua strada. Ci ho messo molto tempo ad accorgermene, un po' meno ad accertarmene, ma il paragone, sia nei contenuti sia nello stile con il quale cerca di esporli (ovviamente al netto della differenza del genere musicale proposto), regge perfettamente, anche prendendo in considerazione l'estrazione sociale dei due soggetti in questione.
  

Sto, tanto per cambiare, parlando di Roger Waters. Tra la miriade di artisti che dall'estero sono giunti fino a noi attraverso le radio, i vinili ed i tour (per poi passare a Youtube, i cd ed i film al cinema, senza però far decadere i primi tre elementi) l'ex leader dei Pink Floyd è sicuramente quello che più può rappresentare una sorta di De André d'Oltremanica. Entrambi figli della borghesia degli anni '40, De André e Waters hanno in gioventù compiuto cammini simili, ed anche i loro primi album con i rispettivi stili (ovviamente parlando di Waters faccio riferimento alla prima produzione dei Pink Floyd) sono sia innovativi sia acerbi, con uno stile di scrittura abbastanza semplice, nel caso di Fabrizio probabilmente per riuscire a raggiungere nell'immediato gli ascoltatori e nel caso di Waters per conciliare il rock psichedelico ai testi, senza rischiare di perdere il significato ma rispettando una metrica un po' incasinata. Inoltre Waters, facendo parte di una band, doveva anche andare incontro alle esigenze degli altri componenti (e, tra l'altro, nei primissimi album dei Pink Floyd la penna principale era quella di Barrett e non la sua). Con il passare degli anni, però, gli stili dei due artisti sono cambiati e, spesso, assomigliati parecchio: l'utilizzo del concept album, la ricchezza di metafore e il linguaggio spesso criptico ma assolutamente efficace sono tutti elementi che li accomunano, e forse, proprio nei loro concept album più apprezzati e di successo (rispettivamente Storia di un impiegato e The Wall) la loro vicinanza diventa clamorosamente palese. Perché le strutture dei due album sono decisamente simili, i percorsi anche, ed anche a livello musicale, non tanto nei suoni ma nelle atmosfere che puntano a creare, ci sono grandi analogie. Penso all'ultima canzone di Storia di un impiegato, Nella mia ora di libertà, ed a Comfortably numb e le tracce seguenti: due misti di rassegnazione ma anche di speranza, di sconfitta ma anche di ricerca di riscossa, ed una chiusura che però sa anche di apertura, di un urlo silenzioso comune che fa sapere al mondo che "non finisce qui". Outside the wall è questo, come lo è l'ideale rivincita dei prigionieri nei confronti dei secondini durante l'ora di libertà. 

E' però secondo me ancora più vicino a Storia di un impiegato l'ultimo disco di Waters con i Pink Floyd: The Final Cut. Un album meraviglioso ma inviso ai fans dei Pink Floyd, che lo vedono come il simbolo della fine dell'amore tra Waters, Gilmour, Mason e Wright (che già era andato via prima delle registrazioni), ma che è forse il più alto punto della storia floydiana per quanto riguarda i testi. Inoltre in quest'album Waters fa emergere totalmente e spudoratamente il suo punto di vista politico, la sua voglia di non stare più al gioco, il suo desiderio di uscire dal muro ed urlare al mondo come la pensa. Ed oltre tutto lo urla nella maniera che meglio conosce: scrivendo dei testi estremamente efficaci, cantando in modo sublime (il miglior Waters al microfono di tutta la sua carriera) e collegandosi allo stile musicale di quel The Wall uscito cinque anni prima che aveva stravolto totalmente, facendolo ampiamente evolvere, il modo di comporre e suonare dei Pink Floyd. Brani come The post war dream, Your possible pasts, The Fletcher memorial home e The final cut hanno parecchi punti di contatto con La bomba in testa, Al ballo mascherato e Verranno a chiederti del nostro amore, tanto che ci si potrebbe quasi domandare se Waters conoscesse Storia di un impiegato. E soprattutto le similitudini tra The Fletcher memorial home e Al ballo mascherato e The final cut e Verranno a chiederti del nostro amore sono lampanti e disarmanti. Perché nel primo caso, se Waters si immagina di concentrare in una singola casa tutti i capitalisti ed i potenti della terra, far loro vivere una sorta di Grande fratello (nell'orwelliana accezione) che li mostri ancora in possesso del potere e poi attuare una soluzione finale, De André concentra in una festa tutte le figure che per due millenni hanno contraddistinto e rafforzato il potere per poi farle saltare in aria; nel secondo caso, invece, ci si trova di fronte a due storie d'amore finite proprio a causa della militanza contro il potere costituito, e ci si rivolge all'oggetto dell'amore perduto con frasi estremamente simili, in alcuni casi dubbiose (in Verranno a chiederti del nostro amore il protagonista si chiede come lei lo dipingerà davanti ai microfoni, mentre in The final cut l'ipotetico io chiede alla sua lei se venderà la loro storia ai giornali), e la presa di coscienza in un certo senso che il sentimento d'amore non cesserà di esistere (sebbene in De André questo avvenga in Nella mia ora di libertà).

Waters ha poi, dopo The Final Cut, continuato, nella sua carriera da solista, a percorrere la strada dei concept album e della critica sociale; De André ha fatto la stessa cosa a più riprese, talvolta con i concept album (L'Indiano, Rimini), talvolta con dischi che presentano tracklist con un filo conduttore meno palese (Vol.8, Le Nuvole ed Anime salve). E Waters, oltre tutto, ha continuato a portare in giro il suo manifesto più grande, quel The Wall che ha riproposto a Berlino in occasione della caduta del Muro, che ha portato più volte in giro negli stadi e nei palazzetti di tutto il mondo e che da ieri ora è al cinema con il film documentario che tratta sia la storia dell'ultimo tour di The Wall sia il pensiero politico-filosofico di Waters. De André ha invece probabilmente lasciato, nel peggiore dei modi, molto lavoro in sospeso, ma fino all'ultimo ha continuato a portare il suo messaggio in giro per l'Italia, consegnandoci poi come testamento tutta la sua produzione, estremamente attuale, bella ed utile. 

Per concludere, è necessaria anche una chiosa legata ad un ultimo elemento che li accomuna e che, però, non è oggettivo ma soggettivo. De André e Waters sono gli unici due artisti in grado di commuovermi, smuovermi ed emozionarmi con un'intensità disarmante, in grado di provocarmi lucciconi negli occhi sia per l'emozione legata a certi pezzi sia per lo stupore nell'ascoltare e riascoltare certe frasi che son diamanti di valore immenso ma anche, nel mondo di De André, un letame con il quale coltivare nuove idee, nuovi desideri di lotta, riscossa e ribellione. 

Sicuramente non vivrò mai un concerto così intenso e ricco di emozioni come quello di Roger Waters del 28 luglio 2013 a Roma, ma sono altrettanto sicuro che soltanto un altro artista avrebbe potuto eguagliarlo. Fabrizio De André.




giovedì 24 settembre 2015

Bruce Springsteen: Il Rock.




In un mondo sempre più ricco di apparenza e, di conseguenza, sempre più povero di sostanza, le mosche bianche, che si distinguono e riescono comunque ad emergere sono ormai poche. Questo vale in tutti gli ambiti: da quello lavorativo a quello politico, da quello amoroso a quello amicale, passando per lo sport, l'arte e la cultura. Ci vuole molto poco a creare dei prodotti ad hoc da propinare alla gente, come ci vuole poco a crearsi una maschera per apparire in modo estremamente diverso (e solitamente migliore) di fronte agli altri. 

Anche in un mondo genuino come quello della musica rock non mancano i prodotti studiati a tavolino, spinti dalle case discografiche e propinati alle nuove generazioni, le quali, nei testi, non riescono più a ritrovare i messaggi che una volta contraddistinguevano quello che era il rock: oltre alla musica in sé, anche i testi puntavano a rompere con il passato, con la musica della classe borghese. Si cercava di rispolverare le radici, si cercava di trasmettere dei messaggi nuovi, di protesta, di autodeterminazione, e soprattutto di speranza. Ma il problema non è relativo soltanto alle nuove rockstar, ma ha colpito anche quelle vecchie, alcune di queste storiche, che traviate dal denaro si sono perse un po' per strada, alcune anche rimettendoci la vita. Penso agli Hendrix, ai Morrison, ma anche ad Osbourne o ai Red Hot Chili Peppers: qualcuno è morto per droga, qualcun altro perché non ha saputo reggere alla pressione, qualcun altro è arrivato al punto di bruciarsi totalmente il cervello ed a salvarsi per un pelo. 

C'è invece chi da quarant'anni, facendo un percorso dal basso come gli artisti sopra citati, continua ad incarnare quello spirito rock meglio di chiunque altro. Da quarant'anni scrive d'amore, di morte, della vita di tutti i giorni, della sua patria, delle sue radici, dei problemi sociali, delle guerre e della pace. Da quarant'anni sale sui palchi di tutto il mondo per portare a migliaia e migliaia di persone il suo messaggio, armato di una voce graffiante e di una chitarra che spara note su note che arrivano dritte ai cuori. Da quarant'anni, salendo su quei palchi, si diverte, si emoziona suonando accanto ai suoi amici o a quelli che fino a qualche anno fa sembravano miti irraggiungibili. Da quarant'anni è coerente al suo essere nato operaio, figlio di uno Stato ricco di contraddizioni con le quali bisogna convivere, consci però che vanno eliminate, ed in un senso positivo anziché negativo. Da quarant'anni mostra a generazioni e generazioni di aspiranti rockstar qual è la via da seguire per essere sempre fedeli alle motivazioni con le quali per la prima volta ci si è trovati in un garage a suonare con gli amici o in camera, da soli, a scrivere canzoni accompagnandosi con una chitarra di seconda mano. 

E fortunatamente alcuni artisti, più giovani di lui, hanno seguito questa strada, eleggendolo a loro guru. Mi vengono in mente i Pearl Jam, giusto per fare un esempio, o i nostri Gang, ma sono sicuro che esempi simili ce ne siano tanti altri ancora. Restano forse la minoranza, ma se oggi si può ancora dire che il rock n' roll non è morto è grazie a lui ed a pochi altri. 

Quest'uomo è Bruce Springsteen, signore e signori. Quest'uomo è il Boss. Quest'uomo è il Rock. Perché del rock incarna ogni singolo elemento, del rock è uno degli esponenti più efficaci e continui, del rock è il principe indiscusso. Ed anche se ha sessantasei anni continua a far ballare migliaia e migliaia di persone per tre ore ai suoi concerti, continua a regalarci nuove perle e continua a stupirci, facendoci ancora chiedere come sia possibile che, dopo decenni di carriera, sappia ancora inventare, creare, e soprattutto donare. Certo, si è arricchito. Certo, ha fama e successo. Ma il rock, oltre ad essere uno strumento di protesta e di rottura, è anche un mezzo per l'emancipazione, l'autodeterminazione, il poter vivere grazie alla propria passione. E sono sicuro che chi lo conosce da quaranta/cinquant'anni può confermare che è rimasto lo stesso: un ragazzo innamorato della vita, innamorato della sua patria, innamorato della musica, e desideroso di vivere la prima, rendere migliore la seconda e sposare, giorno dopo giorno, la terza. 

Grazie Bruce, per tutto ciò che hai fatto finora, ma soprattutto per ciò che sei e per ciò che rappresenti. E per celebrarti non potrei scegliere altra canzone se non la tua più famosa... ma in una versione un po' particolare, quella che personalmente amo di più. Buon sessantaseiesimo compleanno, giovanotto!! 



martedì 22 settembre 2015

Col fuoco e col vento




Col fuoco e col vento


Stanno costruendo muri in tutto il mondo,
banconota su banconota, 
per proteggere i loro castelli di carta,
cercando di convincerci con falsi proclami
stampati a caratteri cubitali sulle pagine dei giornali.

Le loro maschere di cera compaiono nei nostri schermi,
le loro parole vuote riecheggiano nelle radio,
vogliono circondarci per farci sentire sicuri,
dicendo che il nemico è dall'altra parte
ed intanto affilano i loro denti assetati.

Siamo noi il loro pasto prelibato,
noi che siamo chiusi nella loro tana:
d'oro le mura, di diamanti il soffitto,
delle nostre paure le fondamenta.
E' pronta la cena, tutti a tavola.

Ma noi siamo tanti, le loro bocche sono poche
ed al di là delle mura si sente parlare la nostra stessa lingua.
Il nemico non è alle porte, il nemico ha le chiavi.
Si addormenterà, gliele prenderemo.
Ed aprendo la porta ci specchieremo nei visi dei liberatori.

Ed allora soffierà il vento che spazzerà via le falsità,
ed allora divamperà il fuoco che brucerà i muri a nove zeri,
ed allora crollerà il castello,
privato delle sue fondamenta.

Perché non avremo più paura.


Stefano Tortelli

martedì 18 agosto 2015

La seconda guerra mondiale in musica: "Un biglietto del tram" degli Stormy Six





Ieri sono tornato in Piemonte, tra i campi di granturco, dopo aver passato qualche giorno in Toscana tra i castagni. In Garfagnana, tra le colline delle Alpi Apuane, ritrovo le mie radici, forti e vive come quelle dei vecchi castagni che rigogliosi crescono nei boschi che circondano il piccolo borgo nel quale la mia famiglia paterna è nata e cresciuta, sebbene mia nonna e mio nonno si innamorarono a Torino per via di numerose coincidenze, ma questa è un'altra storia...

Casatico, frazione di Camporgiano, è all'incirca a metà strada tra Lucca ed Aulla: ad ovest la Lunigiana, a sud-est la Versilia. Al centro la Garfagnana. Ed a pochi chilometri, in una direzione o nell'altra, ci sono alcuni luoghi che sono diventati tristemente famosi ai tempi della Linea gotica, Stazzema e Vinca su tutti. Ma se la prima località è più o meno conosciuta da tutti, a causa del film di Spike Lee e delle celebrazioni che almeno fino a qualche anno fa hanno avuto una forte cassa di risonanza a livello mediatico (a ragion veduta, dato che vennero massacrate e violentate cinquecentosessanta persone, di cui 130 bambini, dalle SS che stavano ripiegando verso nord), Vinca è pressoché sconosciuta alla maggior parte delle persone. E c'è modo e modo per avere modo di conoscere una nuova storia: c'è chi sfoglia enciclopedie alternative, chi si affida a siti internet di settore, chi ai film.. io, nonostante abbia le mie radici a circa quaranta chilometri da Vinca, ho conosciuto i fatti del 24 agosto 1944 grazie all'album che meglio di tutti racconta la storia della seconda guerra mondiale: Un biglietto del tram degli Stormy Six. 

Un biglietto del tram è il classico album progressive italiano: un concept, che segue un filo conduttore il quale lega storie, luoghi, ma soprattutto testi e musiche. Nonostante manchi un tema musicale ricorrente nelle diverse tracce, il fatto che l'album in questione sia un concept è facilmente intuibile dai titoli delle canzoni: sono nomi di persone, di località e di realtà che hanno avuto una valenza enorme durante la seconda guerra mondiale, ed in particolare durante la resistenza europea al nazi-fascismo: Dante Di Nanni e Gianfranco Mattei, Stalingrado e Vinca, la fabbrica ed il tram che porta a Piazzale Loreto. Come ogni storia, Un biglietto del tram ha un inizio, uno svolgimento ed una fine. E l'inizio è ad appannaggio di due canzoni che in realtà danno vita ad una suite: questo perché si è voluto dare una continuità, un senso di unità, di correlazione, di un unico inizio benché collocato in due nazioni e due realtà ben diverse. Perché abbiamo nella prima parte il racconto dell'assedio spezzato di Stalingrado, la vittoria dell'Armata Rossa contro il contingente nazi-fascista inviato in Russia, l'inizio della fine dei regimi di estrema destra; mentre nella seconda parte è raccontato l'inizio della Resistenza: prima del governo Badoglio, prima dell'Armistizio, prima della corsa alle montagne e della nascita delle Brigate di Liberazione, la resistenza ha cominciato a fermentare nelle fabbriche, grazie agli scioperi di Torino, Milano, Genova e di tutte le grandi città italiane. Ed infatti gli ultimi versi di Stalingrado, prima dello strumentale atto a legare la prima canzone a La fabbrica, recitano "Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa, d'ora in poi troverà Stalingrado in ogni città". E le nostre prime Stalingrado furono proprio nelle grandi città industriali del nord-Italia, e famoso (e citato nella seconda canzone) è lo sciopero alla FIAT di Torino, quando centinaia di migliaia di lavoratori scioperarono e si rivoltarono alle camicie nere mandate a reprimere i manifestanti. "E come a Stalingrado i nazisti son crollati, alla preda rossa in sciopero i fascisti son crollati"...

A scombinare però i piani della Resistenza, dei liberatori della patria, fu l'invasione del Sud Italia degli anglo-americani. La loro descrizione lascia ben poco all'immaginazione: la vana speranza di liberazione dal nazi-fascismo, la falsa promessa di una rinascita dell'Italia intera è racchiusa in tavolette di cioccolato che hanno solo il sapore di libertà. Ma la verità è Anzio, è l'Abbazia di Montecassino, è la non volontà di interferire troppo con i partner economici italo-tedeschi frenando l'avanzata e permettendo ai nazisti di riprendere Roma... Perché ok liberare l'Italia, ma prima lasciamo che i nazi-fascisti facciano fuori un po' di comunisti, che non si sa mai...

Arriva l'8 settembre, lo scenario politico nazionale cambia totalmente, ma ciò che è allucinante è che non solo l'Italia è divisa in due tra fascisti e partigiani. Ad essere divisi tra fascisti e partigiani sono tutti i comuni e tutte le città d'Italia, tanto da dar vita a scontri fratricidi, a faide, a rappresaglie spesso dettate non da motivi politici ma da motivi personali. Da una parte e dall'altra. Perché come c'erano camicie nere buone (ma sicuramente un po' ingenue), c'erano anche partigiani che volevano approfittare della situazione caotica per perseguire i propri interessi. 

E quindi eccoci a Vinca, ad una delle tante rappresaglie dei nazi-fascisti contro i partigiani, ad uno di quegli eccidi che sono passati alla storia per la loro efferatezza, per la loro crudeltà. "Fanno tiro a segno, cani macellai, ma che bella mira, non la sbaglian mai, non la sbaglian mai". Funzionava così nel biennio '43-'45: i partigiani combattevano per la libertà, si rifugiavano nei boschi per non mettere in pericolo le famiglie, ma c'era sempre qualche fascista pronto a dire chi era nella brigata e dove vivevano i suoi figli, e subito le SS o i fascisti arrivavano per la rappresaglia. Dieci a uno, se andava bene... a Vinca morirono in 170 per l'assalto ad un camion... 

I luoghi spesso diventano famosi in base a chi vi è nato, vissuto, morto: Vinci non sarebbe che uno dei tanti paesi della Toscana non fosse stato per Leonardo... Borgo San Paolo ha un'eco particolare per i cultori della Resistenza grazie a Dante Di Nanni, del quale ampiamente parlai in un mio post precedente (accompagnato oltre tutto dalla canzone di quest'album). A lui è stata dedicata questa canzone, di lui è raccontata la storia, ma sostanzialmente nella figura di Dante Di Nanni è racchiusa l'essenza di ogni partigiano comunista morto per la libertà, per la propria patria. Ogni singolo partigiano caduto non è caduto invano, ogni partigiano morto non è morto veramente, perché nel suo sacrificio, nell'esempio che ha dato ad altri giovani in Italia e nel mondo (la nostra Resistenza è invidiata da tutti gli Stati che hanno conosciuto l'egemonia fascista, in Europa e non solo...)  risiede il suo essere immortale, il suo essere ancora presente per le strade dei luoghi che l'han visto lottare, vivere, resistere e morire in nome della nostra libertà. 

La seconda figura raccontata è quella di Gianfranco Mattei, ebreo e comunista, professore di chimica che diede appoggio alle brigate partigiane romane prima come fabbricante di ordigni esplosivi ed in seguito come esecutore materiale di azioni contro i nazi-fascisti. E non è un pezzo superfluo all'interno dell'album, non va a creare una rottura nella linea narrativa, perché descrive una particolare figura di partigiano. Se Dante Di Nanni era un giovane operaio, Gianfranco Mattei era un professore universitario affermato; se Dante Di Nanni era figlio del proletariato immigrato, Gianfranco Mattei era figlio della borghesia romana ed ebrea. Ma il suo essere di una classe sociale superiore non gli ha impedito di prendere parte alla resistenza: le idee, ed in questo caso il voler proteggere la propria identità religiosa, l'hanno portato ad essere idealmente al fianco di Dante Di Nanni. Due diverse culture, due diverse estrazioni, due diverse città: lo stesso destino, la stessa immortalità. 

Arriva il 25 aprile, l'Italia è libera. Tra macerie e festeggiamenti giunge anche l'ora di dover seppellire i propri morti, e ciò rende la gioia non totalmente completa. Da una parte e dall'altra della barricata è tempo di ricostruire, ma anche di scavare, di dar degna sepoltura ai cari periti durante gli scontri. Camicie nere o fazzoletti rossi il dolore è lo stesso e parla italiano. Non tedesco, non inglese. Italiano. E si fa un salto in avanti, si arriva all'illusione degli anni '60, al boom economico che sembra far dimenticare ciò che fu soltanto vent'anni prima. Ma è per l'appunto un'illusione perché i fascisti ci sono ancora, Ordine Nuovo e compagnia bella fanno saltare in aria banche, treni e stazioni, anarchici e comunisti vengono uccisi o "suicidati"... ma è il boom economico, si sta bene, il dolore è solo un ricordo che deve rimanere sotto terra... 

Un biglietto del tram, album del 1975, finisce con l'omonima canzone che fa riferimento al "suo" presente. La gente è distratta, pensa alla quotidianità, ma l'Italia è comunque in subbuglio, perché oltre alla crescita economica c'è anche il fermento delle proteste, delle manifestazioni. Sono gli anni di piombo, è il periodo in cui diventano famosi i celerini, e sebbene in tanti non vogliono ricordare ci sono luoghi, simboli che devono rievocare nella mente delle persone un passato che sebbene può sembrare remoto ha ancora i suoi strascichi nel presente. Il brano è ambientato a Milano, ed il biglietto del tram serve per andare a Piazzale Loreto: di Piazzale Loreto ci viene soltanto raccontato "quello" della fine di aprile del 1945, quando Mussolini e la Petacci vennero esposti a testa in giù insieme ai cadaveri di altri gerarchi nazisti... ma non ci viene raccontata tutta la storia, le radici di questo comunque ignobile gesto, che di per sé è una rappresaglia all'oltraggio che un anno prima venne perpetrato ai cadaveri di diversi partigiani lasciati legati per i piedi nello stesso luogo per più giorni, come monito ai compagni dei caduti... Ecco perché Piazzale Loreto è la destinazione, la fine della storia della Seconda Guerra Mondiale raccontataci dagli Stormy Six: a Piazzale Loreto prima si era cercato di spezzare le ali alla resistenza e poi, benché in un modo piuttosto discutibile, mostrata la fine dell'incubo.

Un biglietto del tram degli Stormy Six è un album che racconta molte storie: alcune di queste vanno di diritto in quella che Marino Severini dei Gang ama definire l'epica della Resistenza, altre si collocano nell'ambito delle canzoni a tema storico, altre ancora hanno avuto lo scopo di raccontare ai contemporanei che di lavoro da fare ce n'era ancora molto. L'album intero va invece di diritto in quella raccolta di dischi estremamente utili a ridestare le coscienze, a smuoverle ed a portarle ad agire, mostrando come per cominciare a resistere non bisogna aspettare l'ultimo momento, mostrando come per cominciare a resistere bisogna sapersi organizzare, riuscire a pianificare, agire. E soprattutto porta a ricordare che gli anni tra il 1940 ed il 1945 sono lontani solo qualche decennio: tre o sette non fa differenza. Sono dietro l'angolo, sono storia di ieri. 




Stefano Tortelli




mercoledì 22 luglio 2015

La piccola storia ignobile della ragazza della Fortezza




Provo a buttare giù due righe riguardo la sentenza di secondo grado riguardante lo “stupro della Fortezza”, avvenuto a Firenze nel 2008. Sto ascoltando Guccini, l’album Via Paolo Fabbri 43, che si apre con la canzone Piccola storia ignobile: argomento della canzone è l’aborto, la libertà sessuale ancora non totalmente conquistata per le donne, che ad inizio anni ’70 ricoprivano ancora il ruolo di mere riproduttrici o intrattenitrici del partner. E non importava che questo fosse il marito, il fidanzato, l’amante, il tizio di turno o il cliente. Tu, donna, non avevi diritto all’orgasmo. Tu, donna, non avevi diritto a provare piacere. Il piacere era appannaggio dell’uomo. E se qualcosa andava storto, se rimanevi incinta, beh, i problemi erano tutti tuoi.

E la sentenza emanata pochi giorni fa, dopo sette anni, ci riporta indietro, ci riporta a quell’epoca. Perché questa ragazza non solo non è stata ripagata dalla giustizia della violenza della quale è stata vittima, non solo i sette ragazzi sono stati assolti e non saranno più perseguiti, ma addirittura nella motivazione della sentenza a salire sul banco degli imputati, in sostanza, è lei. 

Tu, ragazza, hai subito violenza, il referto medico lo riporta, ma eri ubriaca, quindi te la sei cercata. 
Tu, ragazza, hai subito violenza, il referto medico lo riporta, ma hai in passato avuto facili costumi, e quindi, sostanzialmente, te la sei cercata, e magari ti è pure piaciuto. 
Tu, ragazza, hai subito violenza, il referto medico lo riporta, ma forse eri consenziente e giusto per nascondere un tuo attimo di debolezza, dato che eri fidanzata ai tempi, hai cercato di scaricare la tua colpa su qualcun altro. 
Tu, ragazza, hai subito violenza, il referto medico lo riporta, ma ti sei ripresa in fretta, già dopo tre anni su Facebook postavi foto in cui sorridevi, quindi tutto sommato questa cosa non ti ha segnato, e per cui ti sarà sicuramente piaciuto. 
Tu, ragazza, hai subito violenza, il referto medico lo riporta, ma vedi, dici di essere bisessuale, e quindi a voi che avete gusti “strani” vi va sicuramente bene tutto, e che ci sarà mai di male? Per l’appunto te la sei cercata.

Questa è la sentenza, e questo è ciò che pensa tanta gente di questa ragazza. Ma ecco, questa gente che pensa ciò della ragazza in questione è composta dalle seguenti categorie: uomini, bigotti e frustrate. Aveva bevuto, sì. Aveva avuto un passato fatto di relazioni occasionali ed incontri omosessuali, sì. E quindi? Di ragazze bisessuali o che sono o sono state libertine ne ho conosciute e ne conosco, di ragazze che bevendo un bicchiere di più sono meno inibite e più facili ne conosco, ma mai ho pensato da solo, men che meno con i miei amici, di prenderle, sbatterle in una macchina ed avere un rapporto con loro. E comunque non è questo il discorso: c’è un referto medico, c’è scritto che è stata violentata, e non ha importanza se la violenza è cominciata subito o nel mentre, quando magari si è resa conto, quando stava magari rinsavendo. Non ha un cazzo d’importanza! Se c’è stato un no, e se quindi da quel momento è cominciata la violenza, allora è stupro. Le attenuanti, le stronzate portate avanti prima dai difensori e poi accolte dal giudice non contano niente. Perché è stupro anche se è tua moglie o la tua ragazza una sera a dirti di no e tu pretendi un rapporto, è stupro anche se la donna in questione è una prostituta alla quale non vuoi pagare il conto. Stupro è stupro, punto e basta. 

Tra chi da addosso alla ragazza, come dicevo prima, vi sono uomini, frustrate e bigotti. Ecco, ora pensate se al posto di sei ragazzi facoltosi di Firenze più un brasiliano (già assolto in primo grado) ci fossero stati dei figli di operai o, ancor peggio, degli immigrati, magari extracomunitari, magari clandestini. Apriti cielo, sarebbe partita la nuova crociata di Lega e Fratelli d’Italia, si sarebbe fomentato odio verso i soliti, e questa ragazza sarebbe stata una martire.

Qui invece abbiamo dei giovani rampolli della Firenze da Bene, e quindi… quindi oh, se l’è cercata sta puttanella bisessuale, e ora son solo fatti suoi. Ha cercato di suicidarsi più volte, è stata in depressione per anni, ma oh, in quella foto su Facebook sorrideva, ciò fa di lei una troia. 

Va beh, è tardi, L’avvelenata sta in parte condizionando il mio modo di scrivere, ma ecco, queste cose sono veramente assurde. Un consiglio alle ragazze che in passato hanno sperimentato relazioni omosessuali o sono state di "facili costumi" (e magari ora sono felicemente e fedelmente legate ad un solo uomo): se venite stuprate, non cercate di ricostruirvi una vita, non cercate di andare oltre, e soprattutto non mostratevi nuovamente forti, perché non siete credibili già per il vostro passato, figuriamoci se trovate la forza di risorgere; e comunque non fatevi stuprare da gente con i soldi, scegliete i figli di disoccupati, o di operai, o ancor meglio di stranieri, a quel punto forse potete avere la giustizia che vi meritate. Per le ragazze “moralmente impeccabili”, invece, l’unico consiglio è avere dei testimoni, perché comunque non dimenticatevi che siete donne, e quindi, tutto sommato, non vi crede nessuno, la vostra parola è niente.



"Ma che piccola storia ignobile sei venuta a raccontarmi
non vedo proprio cosa posso fare
dirti qualche frase usata per provare a consolarti
o dirti: "è fatta ormai, non ci pensare"
è una cosa che non serve a una canzone di successo
non vale due colonne sul giornale
se tu te la sei voluta cosa vuoi mai farci adesso
e i politici han ben altro a cui pensare
e i politici han ben altro a cui pensare
e i politici han ben altro a cui pensare"





Stefano Tortelli

martedì 21 luglio 2015

Soruç: sorrisi indelebili e frontiere cancellate






Roma, la nostra capitale, e Suruç sono divise da cinque ore e mezza di aereo e tremila chilometri in linea d'aria. Senza scali, senza tappe intermedie, nel giro di un pomeriggio si può arrivare dall'Italia alla frontiera tra Turchia e Siria, laddove veramente esiste una resistenza all'Isis, a quest'evoluzione di Al Qaeda nata in Iraq e poi diffusasi in buona parte del Medio Oriente islamico. Credo sia importante sottolineare l'origine dell'Isis, il suo essere figlia di Al Qaeda, quell'Al Qaeda che tanto terrorizzava l'occidente quindici anni fa e che a New York nel 2001, il probabile suo coinvolgimento a Madrid nel 2004 ed a Londra nel 2005. E le origini di Al Qaeda ormai ben si conoscono: alla fine degli anni '80 la CIA assoldò ed armò migliaia di mujahidin per contrastare l'Unione Sovietica in particolari zone strategiche come l'Iraq, il Kuwuait e l'Afghanistan, in seguito all'invasione da parte dei sovietici di quest'ultimo Stato; al database che raccoglieva i dati di questi mujahidin venne dato il nome Al-Qaeda, che per l'appunto in lingua araba è il corrispondente di database stesso. Crollata l'Urss, respinta l'invasione, queste armi rimasero in mano agli arabi, talvolta organizzati in gruppi paramilitari, talvolta affiliati ad eserciti regolari. Fatto sta che il resto è storia: Prima guerra del Golfo dopo l'invasione del Kuwuait da parte di Saddam Hussein, guerra in Afghanistan dopo l'attentato alle Torri Gemelle, seconda guerra del Golfo nel 2003. Gli statunitensi si son trovati in questi conflitti a combattere con armi che il proprio governo aveva fornito non più di vent'anni prima a quelli che ora erano i loro nemici, ma non c'è da stupirsi, non è stata la prima volta e non sarà nemmeno l'ultima. Del resto, durante la seconda guerra mondiale, mentre i caccia americani cominciavano ad intraprendere battaglie aeree contro gli aerei nazisti, le compagnie petrolifere stringevano accordi con Berlino per fornire loro il petrolio necessario ad alimentare l'aviazione tedesca: due bandiere differenti sulle fusiolere, stesso carburante nei serbatoi. Niente di nuovo sul fronte a stelle e strisce.

L'Isis, come Al Qaeda, in quanto creazioni degli Stati Uniti, nonostante i grandi proclami e le continue denunce nei confronti delle atrocità commesse dai terroristi prima e dallo Stato Islamico poi, non verrà ostacolato dall'Occidente, almeno fino a quando l'Occidente stesso non ne verrà toccato. E non tanto perché alle grandi potenze del mondo interessi l'incolumità dei loro cittadini, ma più che altro perché a quel punto comincerebbe a non sussistere più un unione di interessi tra quelli che diventerebbero, a quel punto, i due schieramenti. Ed allora chi può fermare l'avanzata di questo esercito? Torniamo così alla frontiera tra Turchia e Siria, in quel punto in cui termina definitivamente l'Europa e comincia l'Asia Minore. Al di là della frontiera, in Siria, i combattimenti sono duri, l'Isis è spietato, la resistenza è difficile. Ed a coprire il ruolo principale nella resistenza allo Stato Islamico sono i curdi, i quali rappresentano il 5% della popolazione siriana e che a fine giugno hanno riconquistato Kobane, città poco distante dalla frontiera turco-siriana. Ma i curdi sono osteggiati per più motivi: sono una minoranza religiosa, sono una minoranza della popolazione... e sono prevalentemente socialisti. Tanto che il capo del governo turco, Erdogan, sarebbe più propenso di avere oltre la frontiera il Califfato piuttosto che uno Stato autonomo curdo. Questione di priorità, questione di interessi. 

Ed è così che si arriva a ieri, al 20 luglio, all'attentato kamikaze ai danni di un raduno di socialisti curdi a Soruç e che ha causato la morte di trentadue ragazzi ed il ferimento di un altro centinaio. Erano ragazzi, ragazzi come me, ragazzi con il sorriso sulle labbra e la consapevolezza che per garantire l'incolumità di migliaia, milioni di persone, bisognava mettere a repentaglio la propria. Sarebbero infatti presto partiti per la Siria, avrebbero valicato la frontiera, sarebbero giunti in un territorio che da amico poteva diventare nemico da un momento all'altro, ed il loro scopo era poterlo rendere amico definitivamente, dando supporto alla resistenza, sospinti dalle loro idee di libertà ed uguaglianza. Ma di fatto, in Turchia, si trovavano già in territorio nemico, o meglio il nemico era riuscito ad avvicinarsi a loro. Troppo. E poco è stato fatto per garantire la loro incolumità. Del resto se Erdogan non vuole uno stato curdo oltre la frontiera, beh, meglio prevenire che curare... 

E così, in nome dei benifici di poco a discapito della maggior parte degli abitanti di questo pianeta, altri giovani volenterosi e dalle belle speranze sono morti perché desideravano la libertà. Avevano sui vent'anni, come i nostri partigiani della Resistenza, come i ragazzi di tutta Europa che durante la Guerra civile in Spagna si unirono contro Franco. Ma a noi europei tutto sembra molto distante: e se non è il tempo a farci sembrare un avvenimento qualcosa di lontano, distaccato, allora è la distanza geografica a portarci a pensare che questa è una guerra che non ci tocca.

Ma in una realtà globalizzata come la nostra le distanze non esistono più.. La memoria hanno cercato di disintegrarla, ma abbattendo anche le distanze ora tutto il mondo è Paese. La frontiera tra Turchia e Siria, quella frontiera che ha visto da vicino morire trentadue giovani socialisti curdi è soltanto un'invenzione, una barriera che vuol far credere che da una parte c'è X e dall'altra c'è Y, e che quindi dove c'è X vige il potere di X e dove c'è Y vige il potere di Y. Ma la realtà è molto più contorta, ed allo stesso tempo molto più semplice. La realtà vede i fondamentalismi, i poteri reazionari e quelli capitalistici da una parte, e dall'altra... dall'altra ci dovremmo essere noi, tutti noi.

Tremila chilometri, cinque ore e mezza. Roma-Soruç. E' come dire ad un romano che a Torino sono morti trentadue ragazzi, uccisi perché socialisti e con idee diverse da chi li ha voluti morti. Le distanze son diverse, ma il tempo no. E del resto anche la Siria si affaccia sul Mar Mediterraneo, il Mare Nostrum, perciò volerla vedere distante è come non avere coscienza di che posto occupiamo nel mondo. 

Per ricordare i compagni curdi non posso che ripensare alla canzone degli Area intitolata Luglio, Agosto, Settembre (nero). Ai tempi fu dedicata alla resistenza palestinese nei confronti di Israele, ma credo che oggi si possa tranquillamente ascoltare pensando a quei ventisette ragazzi, a quei sorrisi, a quel desiderio di libertà, di pace, di giustizia, di uguaglianza. 



Stefano Tortelli

domenica 19 luglio 2015

Razzismo: la paura di vedere il proprio futuro in faccia





Per combattere un nemico bisogna conoscerlo, e conoscerlo bene. E' necessario entrare nella sua psiche, comprendere al meglio i suoi pensieri, tentare di ragionare come lui, capire cosa lo spaventa, cosa lo emoziona, ed infine combatterlo, avendo così buone chance per sconfiggerlo. Perché se ancora non è chiaro, cari miei, siamo in guerra: una guerra psicologica, una guerra di emozioni, di consensi, di mal di pancia, che talvolta, come a Roma e Treviso, sfocia in guerra fisica. Leggo e sento pareri discordanti riguardanti ogni cosa che avviene attorno a noi, ed il concetto di "attorno a noi" è esteso al mondo intero, e non solo al nostro paese, al nostro quartiere, alla nostra città, alla nostra nazione. L'avete voluta la globalizzazione, l'avete voluto il libero mercato? Bene, allora anche la vostra mente dovrebbe agire senza frontiere. E le frontiere più difficili da abbattere sono innanzi tutto quelle dell'Io, perché alla fine ogni azione che svolgiamo, a livello individuale o collettivo, è figlia di un impulso egoistico da soddisfare. 

C'è chi si ascolta un disco, chi va ad un concerto con gli amici, chi partecipa ad una manifestazione, chi si prende cura degli animali, chi si "accontenta" di fare l'amore tutto il giorno con la persona che ama o di passare la giornata insieme ai figli in un parco o a legger loro storie... e poi ci sono quelli che credono che il loro obiettivo sia combattere il diverso, lo straniero, il differente. Lo combattono a parole, lo combattono sbraitando su facebook o parlando con i propri conoscenti, e per molti è sufficiente questo: si liberano, si sentono appagati, hanno dato sfogo alle loro voglie (di ben più bassa lega di quelle di Bocca di rosa, ma ragazzi, degustibus!!). E poi c'è chi passa al livello successivo, dando fuoco ai letti dei profughi o insultando diciannove disperati che null'altro chiedono che un posto dove dormire e qualcosa da mangiare.

Un posto dove dormire, qualcosa da mangiare. Molti di loro argomentano che di sto passo arriveremo anche noi a quel punto, a non saper più dove dormire, a non aver più nulla da mangiare, a non poter più soddisfare i propri bisogni primari. Hanno ragione. Il problema però è un altro. Innanzi tutto i bisogni primari dell'uomo medio occidentale sono molti di più che mangiare e dormire, e ben pochi di questi sono funzionali ad un progetto a medio-lungo termine. "Cazzo, mi han tagliato lo stipendio, ora mi tocca scegliere tra fare l'abbonamento a Sky o quello ad Internet"; "Ora che non posso più fare gli straordinari sarà difficile riuscire ad andare in vacanza in Egitto quest'anno"; "Ma guarda te, io non posso permettermi una casa più grande ed a QUELLI danno una camera d'albergo, che vergogna!!": questi sono i bisogni primari della gente che si lamenta degli stranieri.. e come dar loro torto, dico io!! Solo che la responsabilità di tutto ciò che sta accadendo alla classe media europea non è causato dagli immigrati, bensì da chi prima l'ha abituata a questo stile di vita, ovvero quello del superfluo, e poi pian piano le sta togliendo tutto. Ma prima di toglierle queste cose veramente superflue le ha tolto tutto il resto, a partire dall'autodeterminazione, dalla coscienza di se stesso, dalla capacità di vedere oltre il dopodomani. E' chi sta sopra alla classe media che la sta fregando, non chi sta sotto o, tutt'al più, alla pari. Non è il compagno di lavoro il nemico, non è la vicina di casa immigrata, non è il vagabondo alla stazione che chiede due spiccioli. Sono i padroni, sono i politici, sono le classi privilegiate e false: mi viene sempre in mente l'esempio dei ginecologi obiettori di coscienza che poi fanno abortire le donne nel loro studio privato. Questi sono i nemici, non i fratelli. 

Ma le guerre tra poveri sono famose, ci sono sempre state, sempre ci saranno. Anche perché l'uomo è guidato da due istinti che sono diametralmente opposti: vuole essere superiore a qualcun altro ed allo stesso tempo annientare chi è a loro inferiore. E' la natura, è umanità. Per questo detesto il concetto di umanità applicato agli atti caritatevoli: se spesso sono stati affibiati ad una divinità o alla santità di una persona, un motivo ci sarà, no? E' proprio perché sono inumani che sono così eccezionali, questi atti, e rendono qualcosa di altro dall'essere umano colui che mette in atto questi gesti. Ma non perdiamoci nel discorso umanità perché ci sarebbe da parlarne per giorni... Come dicevo, le guerre tra poveri ci sono sempre state, e questa, questa battaglia apparentemente razzista, è soltanto l'ultima di una lunga serie. Queste persone, questi razzisti, probabilmente si comporterebbero nello stesso modo se in una situazione simile si trovassero i francesi, gli austriaci, e non mi stupirei se un giorno, se la situazione della Grecia dovesse peggiorare, leggeremo o sentiremo frasi come "Greco di merda, tornatene nella tua Acropoli".

Tutto questo non è per sminuire il concetto di razzismo, ma per provare a spiegarlo, per provare a renderlo qualcosa di ancora più ampio, collocandolo in un errore madornale della normale lotta tra classi, che però vede la classe medio bassa combattere con chi è addirittura allo stesso livello ed ancor più in basso anziché volgere le proprie ire e la propria bellicosità verso l'alto. Tutto questo succede perché nel diverso, in queste persone che parlano un'altra lingua, che hanno una fisionomia diversa (il colore è molto relativo, albanesi e rumeni, ad esempio, non sono poi così diversi di noi per quanto riguarda la carnagione) il razzista ha la visione di se stesso tra qualche anno, nel momento in cui avrà lasciato portarsi via anche l'ultimo diritto, l'ultimo pezzo di pane, l'ultimo metro quadro di tegole sopra la propria testa. Questa visione spaventa il razzista ed allora vuole allontanarla dalla propria vista, evitarla, distruggerla. Perché il futuro lo spaventa, ed allora non deve pensarci, ed allora per non pensarci deve concentrare le sue energie su un obiettivo facile, che oltre tutto è lo specchio della sua esistenza futura, del suo futuro... futuro al quale non ha mai pensato perché troppo concentrato a guardarsi i telefilm su sky, a fare shopping per le vie del centro, a cercare di assomigliare a chi sta sopra di lui non perché in questo modo diventa come i suoi nemici irraggiungibili, ma perché almeno, nello specchio della proprio casa, può vedersi, ora, come loro. Non è loro, ma gli assomiglia, e questo gli basta.

Gli immigrati non sono solo un capro espiatorio, non sono solo uno specchietto per le allodole, ma sono anche lo specchio del nostro futuro se continueremo a stare seduti con le mani in mano e tenendo la testa bassa, incazzandoci e bevendoci su una birra per non pensarci ulteriormente, guardando lo show del sabato sera o andando in discoteca per non farci prendere dai dubbi e dalle perplessità, in modo da non arrivare a dire: "Oh merda, ma ci hanno preso per il culo fino ad oggi quelli sopra di noi". 

Oggi sono gli immigrati a spaventarvi, domani sarà un'epidemia e chi è affetto da questa malattia, dopodomani saranno gli statali perché avranno agevolazioni per andare in pensione o aumenti di stipendio. E la gente se la prenderà con gli appestati, e così la gente diventerà epidemista, poi se la prenderà con statali e diventerà statalista.. 

Capri espiatori per branchi di pecore che non attivano il cervello, che non vogliono guardare il futuro in faccia, che non sanno riconoscere il vero nemico. 

Quando poi, forse forse, il vero nemico di ognuna di queste persone è se stessa, perché son stati loro a stare con le chiappe ben comode sul divano. Belle larghe, ma comode. 

Io mi chiedo... solo ora brucia? Non sarà mica che, sotto sotto, tutto questo (schifo) piace? 

Eccolo il razzista in tutta la sua malata psicologia e la sua totale mancanza di lungimiranza, di coscienza di sé e di come va il mondo a lui circostante, eccolo il razzista che pur di non vedere il proprio triste futuro cerca di allontanarlo o distruggerlo. Eccolo il razzista, che non ne fa una questione di razza (ecco perché spesso si legge "non sono razzista ma"), di colore, di provenienza geografica. Si alimenta degli stereotipi, molto simili a quelli che riconosce in lui stesso, per avere un movente per la sua crociata verso il diverso oggi ma uguale domani. Il razzismo non è razzismo, il razzismo è classismo mascherato, colorato, è una lotta di classe verso il basso, che porterà ancor più giù chi la combatte. Sia il razzista sia l'obiettivo del suo odio.

Vogliamo combattere il razzismo? Pensiamo al futuro e pensiamoci tutti insieme. Il domani è tutto ciò che abbiamo, e dobbiamo difenderlo da chi ce lo vuole togliere ed ha la forza per farlo. Ovvero chi detiene il potere. Ed il domani, il domani egualitario e giusto, è sempre stato la direzione, l'obiettivo di un'unica ideologia, quella dell'uomo che disse che per essere un buon rivoluzionario occorresse sentire nel profondo di noi stessi ogni ingiustizia perpetrata nei confronti di un nostro simile. Quella di un certo Ernesto "Che" Guevara.





Stefano Tortelli