venerdì 27 febbraio 2015

Palestina, Israele e la democrazia a gettoni

Cartina degli Stati che riconoscono la Palestina. Una delle tante carte geografiche che non vi vorrebbero mai far vedere.



E’ curioso come gli Stati del cosiddetto Occidente, che si considerano i paladini della democrazia nel mondo, tanto da essersi sentiti in dovere di esportarla a colpi di pozzi di petrolio, raid aerei e depredazioni di materie prime, manchino all'appello e si dimentichino, soprattutto, dei principi democratici, soprattutto quando riguardano una condizione universale, globale. Se prima era l’imperialismo coloniale legittimato dagli eserciti ad esportare la democrazia, ora il compito è dell’imperialismo economico, che teoricamente lascia totale libertà di autodeterminazione alle altri Nazioni ma di fatto le vincola, con ancor più efficacia, ad un rapporto di collaborazione e subordinazione nei confronti dell’Europa Occidentale e degli Stati Uniti. Ed è subdolo l’imperialismo economico, perché il nemico si nasconde, è lontano, non è riconosciuto come invasore: anzi, talvolta è il salvatore, talvolta il liberatore, talvolta il curatore, talvolta è colui che apparentemente da lavoro, porta il progresso, importa il benessere. E non c’è bisogno di andare troppo lontano per capire come questo meccanismo sia stato messo in atto in tutto il mondo, tant’è che basta pensare all’Italia: da quando il nostro Paese ha abbracciato il sistema sociale statunitense, firmando di fatto un contratto di annessione alla realtà a stelle e strisce, la Penisola italiana ha cominciato a farsi sommergere dai mille problemi, dalle mille contraddizioni, fino ad essere in crisi, fino ad avere l’acqua alla gola. Il Mediterraneo sta per sommergerci, ma a quanto pare va bene così, per ora il desiderio di riemergere è ancora lontano dall’instillarsi in noi, siamo ancora convinti che l’acqua non salirà ulteriormente.

La democrazia però, a quanto pare, vale soltanto quando fa comodo, e se negarla serve per far sopravvivere l’ultima realtà legata all’antico sistema imperialistico, e quindi quello prettamente coloniale, allora si fa di tutto per sacrificarla in nome dell’egemonia nordamericana. Mi riferisco a ciò che avviene in Terra Santa dal 1988, anno in cui l’OLP (l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina) autoproclamò l’esistenza della Palestina, senza comunque negare l’esistenza di Israele. Attualmente gli Stati indipendenti nel mondo sono 204, ma nel 1988 erano decisamente di meno. Questa piccola precisazione è doverosa, poiché subito dopo l’auto-proclamazione dell’OLP furono ben 90 gli Stati che riconobbero la Palestina come Nazione autonoma ed indipendente. Se non erano la maggioranza, poco ci mancava. Se pensiamo invece all’oggi, al presente, le Nazioni che riconoscono la Palestina sono 130 su 204. La quasi totalità dell’Africa, dell’Asia, dell’Europa orientale, la Russia, il Sudamerica, la Svezia, Cuba. 130 su 204 significa la maggioranza, ed alla luce del fatto che sono proprio gli Stati occidentali ad aver promosso la nascita di organizzazioni mondiali come ONU e NATO, con lo scopo di prendere decisioni in democrazia per gestire, teoricamente, in modo proficuo ogni situazione che riguarda l’andamento del mondo intero, è lampante come siano questi Stati ad osteggiare con più determinazione il riconoscimento della Palestina. Le motivazioni comunque non sono difficili da trovare: lo Stato di Israele è di fatto l’ultimo superstite della decolonizzazione, l’ultimo residuo di quella che era la politica in vigore dall’800 fino alla fine della seconda guerra mondiale, è di fatto l’ultima India, l’ultimo Vietnam, l’ultimo Maghreb, l’ultima Corea. Allo stesso tempo è anche un caso unico, poiché, di fatto, non vi è stata alcuna invasione militare in terra palestinese quando fu istituito lo Stato di Israele, si è voluta risarcire la comunità mondiale ebraica dandole la Terra promessa citata nei Testi sacri, andando a destabilizzare totalmente una realtà che ben poco c’entrava con ciò che è stato perpetrato in Europa, per secoli, a chi si professava ebreo. Sarebbe stato più logico, come è normale che succeda durante i trattati di pace, dare parte dei territori tedeschi agli ebrei o, visto che gli USA ci tenevano tanto, dar vita ad una realtà ebraica in Nord America. Ma ovviamente tutto ciò non avrebbe avuto alcun peso strategico, soprattutto quando non sono stati né gli USA né gli Alleati a sbattere in faccia al mondo la realtà nascosta dai nazisti in Germania e Polonia. Se quindi si fosse creato uno Stato autonomo di professione ebraica in Europa, questo facilmente si sarebbe schierato con l’Unione Sovietica, vera ed unica liberatrice degli ebrei di Auschwitz e degli altri campi di sterminio principali. Ed allora ecco il meraviglioso gesto della Gran Bretagna: liberare di fatto la Palestina dalla presenza istituzionale britannica ma ripartire i territori palestinesi in due Stati autonomi, Israele e Palestina, lasciando poi alle due neonate realtà il compito di gestirsi. Di fatto, però, la Palestina post-coloniale ha cessato di esistere nel 1967 poiché annessa ai territori di Israele. Ed intanto l’Occidente stava a guardare, compiacendosi di ciò che Israele stava facendo ed auto-compiacendosi per aver messo in atto un programma così audace di controllo diretto di un’area enorme senza, di fatto, metterci piede direttamente.

Se nel mondo valessero davvero i valori democratici, stando ai numeri, la Palestina dovrebbe essere riconosciuta come Stato autonomo da diversi anni ormai, vista la maggioranza mondiale di Nazioni che ne riconoscono l’esistenza. Se poi ci basassimo sulla popolazione mondiale che indirettamente riconosce la Palestina, beh, la vittoria sarebbe schiacciante, visto che da sole India e Cina ospitano circa la metà degli abitanti del pianeta. Ma come ben si sa il parere di ogni individuo conta ben poco a qualsiasi latitudine e longitudine, per cui sono gli Stati che rappresentano gli uomini a fare testo.

Il testo attualmente dice che il 64% degli Stati mondiali riconosce la Palestina. Circa due terzi del mondo. Nel restante terzo abbiamo la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, il Giappone, il Messico ed altri Stati ancora. Nel restante terzo ci sono gli Stati che detengono la maggior parte delle risorse economiche mondiali, o per lo meno così vogliono continuare a farci credere. Nel restante terzo figurano quelle realtà che storicamente hanno con una mano mostrato al mondo i documenti che legittimano il loro essere democratici e nell’altra l’arma con cui hanno soggiogato il resto degli Stati. E’ quindi chiaro come la maggioranza che fa testo non sia quella dei popoli ma quella del soldo, e di come a decidere il destino del mondo non sia un coro di persone più numeroso ma il coro di persone che ha più soldi per amplificare la propria voce.

Sbaglia chi ne fa una questione religiosa, sbaglia chi ne fa una questione etnica. La questione palestinese dovrebbe essere una questione ideologica, dovrebbe rappresentare il punto di svolta in grado di chiudere finalmente l’antico sistema capitalistico, per poi poterci concentrare su quello attuale. La questione palestinese, se risolta con il riconoscimento della Palestina senza dover passare per le armi o i negoziati tra i due Paesi ma per il volere della maggioranza degli Stati mondiali, sarebbe l’indicatore di una finalmente raggiunta democrazia a livello mondiale, dove il parere di ogni Stato, dal Lichtenstein alla Cina, vale uno, vanificando così tutte le varie organizzazioni parallele e di settore che operano solo per i propri interessi. Qualsiasi sia la loro natura.

Anche perché la meglio gioventù mondiale si è schierata chiaramente, ma a quanto pare questo non conta affatto. Il futuro non ha valore per i potenti di oggi, tanto da negarlo a chi combatte per migliorarlo. Rachel Corrie, Vittorio Arrigoni e tanti altri hanno sognato il futuro e sono morti per i loro sogni. Direi che è ora di smettere di proibire ai sognatori di poter dar vita ad una realtà migliore.





Stefano Tortelli

martedì 24 febbraio 2015

I collezionisti di occasioni perse - L'inutile contestazione a Tsipras






Non mi considero un inguaribile ottimista. Tutt'al più sono un sognatore, uno che ci spera fino all'ultimo, uno che se può fare qualcosa lo fa, e se non può farlo fa in modo di poterlo fare. Ed inoltre mi è stato insegnato che è importante ammirare chi intraprende un cammino, chi tenta di migliorare lo stato attuale delle cose, chi ci mette ogni energia per far sì che qualcosa di nuovo si realizzi. La Grecia non diventerà la nuova Cuba, non nel giro di tre mesi, non nel giro di un anno. 

In Italia i pseudo-compagni vanno farneticando, tacciando di indole borghese Syriza, considerandola un prodotto del capitalismo, pretendendo di sentire riecheggiare l'Internazionale dagli altoparlanti di ogni dispositivo audio-trasmittente della penisola ellenica. Cavoli, bastasse essere di sinistra e vincere un'elezione per realizzare tutto questo datemi un partito che andiamo a conquistare la rossa primavera. Stiamo rasentando l'assurdo, siamo già nel ridicolo. Ed oltre tutto non ci assumiamo le nostre colpe, che sono enormi, e che in gran parte risiedono in quel gruppo dirigenziale fantoccio che è venuto a crearsi nei vari partiti che si AUTOdefiniscono comunisti. Già definirsi comunisti è una bella pretesa: non è mica come dire "Ciao, io sono Stefano e sono italiano"; comunista è un'etichetta che dovrebbe venirci data, e che sia un nemico od un amico ad affibbiarcela poco importa, l'importante è aver fatto qualcosa che agli occhi altrui ci rende tali. Una volta successo allora sì che ci si può definire comunisti o socialisti. Per me il partito di Tsipras è una buona via per raggiungere il comunismo in un mondo totalmente capitalista. Perché la Russia non è più anti-capitalista da cinquant'anni, semplicemente ha adattato il capitalismo all'ideale comunista, e la stessa cosa vale per la Cina. per cui di modelli a cui ispirarsi e che siano attuali non ce ne sono. Bisogna procedere per tentoni, per tappe, per compromessi. Vogliamo distruggere il capitalismo? Non possiamo: o facciamo una rivoluzione armata o non possiamo. Non ci sono riusciti i cubani ed i sovietici senza un tributo di sangue e con la gente che stava morendo di fame, vogliamo credere di poterlo fare noi senza imbracciare le armi in una realtà dove, comunque, le pance sono piene? Il capitalismo non va distrutto, va superato. Del resto Il capitale di Marx non parla di distruzione del capitalismo, parla del suo superamento, del suo annientamento in quanto desueto, in quanto fallito, in quanto incapace di auto-alimentarsi. Ma occhio, il marxismo ora come ora è inapplicabile: i proletari non esistono più, o meglio, i proletari di oggi sono i borghesi di ieri. Chi fa figli se non i ricchi!? E proletario non significa "colui che ha prole"? Quindi basta parlare di proletariato. E la classe operaia? Dov'è la classe operaia? Chi è ancora che lavora in fabbrica, e soprattutto quanti ancora, di quelli che lavorano in fabbrica, votano in modo differente dai propri padroni? Se dove lavorava fino a un paio di anni fa mio padre la maggior parte dei suoi colleghi votavano l'asse Lega-PDL qualcosa non funziona, o sbaglio? 

Studiando per un esame mi è capitata sott'occhio una ricerca condotta negli anni '50 in Inghilterra presso alcune fabbriche di uno dei più importanti centri siderurgici della Gran Bretagna, la quale metteva in luce come, una volta conquistati certi diritti, migliori condizioni di vita e determinate sicurezze, l'operaio cambiava la sua linea politica, allineandosi a quella del datore di lavoro. Ne è la prova il fatto che, se dopo la seconda guerra mondiale a vincere le elezioni furono i laburisti, nel giro di pochi anni, nonostante avessero rispettato il loro programma elettorale, al potere tornarono i conservatori. In Italia questo processo è stato fortunatamente più lento, ma forse è solo perché in Italia certe conquiste sono state più difficoltose, hanno richiesto più tempo, e per cui l'esigenza di un partito comunista si è sentita per trent'anni anziché per soli dieci. Questa è una delle tante mancanze storiche, una delle tante ignoranze dei "comunisti" di oggi. La fondazione del PCI non è stata concepita in una notte, la Rivoluzione russa non è avvenuta dall'oggi al domani, come non è stata una questione da poco il processo che ha portato al trionfo di Fidel Castro e di Che Guevara a Cuba. Questi signori invece vogliono tutto e subito, mostrando così quanto su di loro ha attecchito il lato più profondo del capitalismo. L'assurdo poi è che blaterano di voler rifondare il PCI quando loro sono stati tra i principali assassini del nostro partito comunista, e sebbene in modo subdolo ne rivendicano l'uccisione: insultando Berlinguer, massacrandone il ricordo, spargendo immondizia sulla tomba del più grande statista italiano. Ma stiamo scherzando!? 

Enrico, perdonali tu, perché io non ci riesco. A guidare il pensiero comunista dovrebbe esserci una persona come te, uno che anziché snocciolare soltanto numeri e teorie sapeva anche parlava alla gente, arrivare al cuore delle persone, farsi voler bene. E soprattutto tu non ti rifugiavi nelle tue stanze, non ti mostravi avulso dalla realtà del tuo tempo, ma soprattutto estraneo alla gente. Majakovskj sosteneva che per essere un buon politico bisognava essere in grado di calarsi nella realtà, nella contemporaneità, conoscendone così le problematiche e potendo così escogitare soluzioni applicabili alla natura del contesto. Berlinguer è stato capace di farlo, e l'ha fatto due volte, prima portando avanti le istanze di quella che non era la sua classe d'origine, e poi modificando gli obiettivi del partito in base ai mutamenti della società. Ora invece i nostri politici pensano di essere ancora nel 1800, o tutt'al più ai tempi della Rivoluzione d'Ottobre. 

Mentre stavo andando ad insegnare stavo pensando a tutto questo ed a come la filosofia si sia evoluta in tremila anni. Da Anassimene a Marx il passo è breve, ed ha una sua logica, mostra un'evoluzione che se non è paragonabile a quella di un entità biologica poco ci manca. Il problema sono questi ultimi 200 anni e quest'assenza di una nuova filosofia, o meglio di esponenti a cui si da credito, per affrontare gli attuali problemi e sostenere con la teoria una pratica socialista realizzabile ora. Ci son stati Gramsci, Lorenz, Fromm, ma tutto sommato non se li caga nessuno... chissà perché... forse sono considerati impuri.

Spiace, ma io negli attuali comunisti puristi ci vedo dei reazionari, che non si rendono conto di vedere come Tsipras possa essere il preludio per un nuovo socialismo (caso strano Tsipras ha messo in moto quel che più si può considerare erede dell'Internazionale Socialista, ovvero la sua Altra Europa), perdendo così, di fatto, l'ennesima occasione di scendere dai loro piedistalli. Siete statue di sale, siete castelli di sabbia... e non per niente non entrerete mai in parlamento. Sale e sabbia sono inorganici, di conseguenza incapaci di provare e far provare emozioni. La politica di sinistra dovrebbe essere la politica delle emozioni, non la politica dei numeri. I numeri, almeno quelli, lasciateli al capitalismo. 

Non avrei mai dovuto scrivere queste righe, soprattutto alla luce del fatto che spesso mi trovo a dover difendere le mie posizioni politica, considerate spesso anacronistiche. Non sono le mie posizioni ad essere anacronistiche, sono gli esponenti principali che son rimasti nel Medioevo del pensiero comunista. Il comunismo può farcela, è molto malato, ma lo possiamo salvare. Forse dovremo dialogare con i nostri nemici, forse dovremo scendere a compromessi, ma intanto guadagneremo terreno, intanto porteremo sempre più avanti la linea di confine, sposteremo più ad "est" le nostre trincee e le nostre barricate. Berlinguer ha avuto successo perché innanzitutto sapeva dialogare, e soprattutto perché si metteva in gioco, faceva qualcosa. Ha sbagliato a volte, ma solo chi non fa non sbaglia mai. 

Non voglio pensare che la sua morte sia la morte dei miei ideali, altrimenti io qui che ci sto a fare!? Ai suoi funerali c'erano tre milioni di persone... stiamo parlando di poco più di trent'anni fa. Era un uomo, era mortale, come lo siamo noi. Vogliamo ricordarlo davvero!? Allora viviamo come lui, agiamo come lui. E lasciamo agli altri il lusso di poter sputare su di noi e sulle tombe dei nostri padri, non hanno bisogno del nostro aiuto.

Scusa Enrico se ti ho coinvolto così tanto, probabilmente sei schifato più di me al momento, ma voglio pensare che anche tu stia sperando nel vedere un giovane compagno provarci sull'altra sponda dell'Adriatico.




Stefano Tortelli

lunedì 23 febbraio 2015

Canzone della sera #6 - A mia nonna


Era un lunedì 23 anche quella mattina in cui, con mio zio, stavo andando in comune ed alle pompe funebri per chiudere le ultime pratiche relative a ciò che la sera prima era successo. Spesso mi chiedo come facciano i condannati a morte ad apparire tranquilli mentre vanno incontro alla morte, che sia un patibolo, una sedia elettrica, una camera a gas. Penso non sia un condizione mentale tanto diversa da quella che ti pervade quando devi accingerti a firmare documenti, a telefonare a destra e manca, a scegliere la foto per il necrologio e la tomba, a trovare una frase per il "ricordino" quando perdi una persona fondamentale della tua vita. 

Mi ricordo bene la sera prima di quel lunedì 23: erano quasi le 9, stavo scendendo da mia nonna e mio zio, stava per cominciare la partita e mi sarei seduto con mio zio a guardarla. Era un rito del weekend, che, sebbene in altre forme, continua tutt'ora. Solo che c'era nell'aria qualcosa di diverso. Sarà perché il giorno prima aveva nevicato per la prima volta, anticipando di fatto di un mese l'avvento dell'inverno, sarà perché da un po' i weekend passati in famiglia avevano un sapore agrodolce, sarà perché ormai s'era persa la speranza. Del resto dovevo immaginarmelo, mentre ero con lei, nella sua camera, con lei distesa sul letto, già una volta l'anima aveva deciso di lasciare il corpo e farsi un giro, per poi tornare appena in tempo. Probabilmente ha voluto fare un sopralluogo, e quando si è resa conto che, sebbene ci fossi io lì, mancavano mia madre e zio, aveva deciso di procrastinare la fuga definitiva di qualche ora. Scesi la prima volta, tornai su, e mentre ancora ero sulle scale mio zio chiamò di sopra: Stefano, manda giù mamma, nonna sta male. Scendemmo entrambi, e mentre zio stava chiamando il 118 io e mamma eravamo al capezzale di nonna. Respirava malissimo, il battito era sempre più flebile, ma stranamente era lucida, dopo che, da ormai due settimane, non riconosceva più nessuno. Nemmeno me, che son stato l'ultima persona che gli era rimasta nella memoria. Magari non riconosceva mamma, non riconosceva zio, non riconosceva gli altri. Ma a mamma, a zio, agli altri chiedeva di me. "Dov'è Stefano?" "Come sta Stefano?" "E' passato Stefano oggi?". Quella sera invece ci riconobbe tutti e tre: sua figlia Luciana, suo figlio Egisto, suo nipote Stefano. Zio mise giù il telefono, entrò anche lui in stanza, ed a quel punto cominciò a lasciarsi andare. Quando racconto o scrivo di questo momento sento sempre una pressione sul gomito, e del resto è lì che è stata la sua mano destra per l'ultima volta. Mentre le accarezzavo il viso lei accarezzava il mio braccio, fino ad arrivare al gomito, per poi stringerlo. Come a dirmi di stare tranquillo, come a dirmi che sì, lei se ne stava andando, ma ci sarebbe sempre stata. In quell'accarezzare e stringere il mio braccio mi aveva trasmesso la sua ultima energia vitale, che automaticamente utilizzai per far capire a mia madre che era finita, che non aveva più senso procedere con inutili tentativi di rianimarla, che bisognava esser forti ed accettare la sconfitta. Il rilevatore del battito cardiaco aveva ormai smesso di avere una sua utilità quando tutti e tre ci stringemmo attorno al letto, ed ecco che, dopo quel momento di cordoglio, si attivò il meccanismo sopra citato: c'erano mille cose da fare, mille persone da avvertire, mille questioni da organizzare. Salii le scale ed avvisai mio padre, poi presi il cellulare di mia madre, l'agenda, e cominciai a chiamare i parenti, le colleghe di mamma, la mia ragazza, alcuni amici. Mio zio chiamò le pompe funebri, il medico e l'infermiera che veniva a casa per le medicazioni giornaliere, mentre intanto mio padre stava vicino a mia madre, che di lì a poco si sarebbe trovata anche lei nella condizione in cui già ci eravamo trovati ad essere zio ed io. Arrivarono gli zii di Torino, le pompe funebri, alcuni vicini, Caterina (l'infermiera). E poi il buio.

Dal momento di buio al funerale c'è solo un ricordo, ed è quello da cui il post è partito. Quei cinque chilometri senza dire una parola, in macchina con mio zio e la radio accesa. Cinque chilometri per cinque minuti per una canzone. Era un lunedì 23 allora, è un lunedì 23 oggi, e quella canzone si è ripresentata dalle casse dell'auto ed ha fatto riaffiorare per l'ennesima volta quel flash nel grigiore di quel mattino di novembre ancora immerso nella nebbia. "Un giorno credi di esser giusto e di essere un grande uomo, in un altro ti svegli e devi ricominciare da zero". Probabilmente nonna si era impossessata delle radio-frequenze ed ha voluto farmi arrivare un ultimo messaggio. Quel mattino, ma soprattutto quella sera, non stavo ricominciando da zero, ma ero diventato un uomo, ero diventato ciò che lei sognava che io potessi essere. Desiderava vivere fino al giorno in cui mi fossi laureato, morì prima che potessi dare il primo esame, ma fu lei, accarezzandomi il braccio e lasciando indelebile la sua firma sul mio gomito, a conferirmi la laurea di adulto, di persona in grado di gestire anche le situazioni peggiori che possono verificarsi nell'arco di una vita e di lottare per ciò che più amo, fino all'ultimo, finché ce n'è. Mi ha riservato la sua ultima carezza, il suo ultimo sguardo, ed a tutti noi, per l'ennesima volta, ha insegnato qualcosa. 

Ti chiamavi Angela, e tutto è tranne che un caso. Ti chiamavano Angela, e per me sei un angelo. Ma soprattutto eri, sei e sempre sarai mia nonna. Grazie, ancora una volta.



Stefano Tortelli

domenica 22 febbraio 2015

Anche i manganelli hanno i propri gusti





Dev'esserci una certa predilezione per alcuni tipi di sangue, di pelli e di idee da reprimere da parte dei manganelli italiani, oppure a volte si trovano ad aver la pancia piena, viste le scorpacciate fatte nei mesi precedenti, che fa sì che se ne stiano buoni buoni attaccati alla cintura dei poliziotti anziché roteare prima di colpire chi, in quel momento, è considerato meritevole di un bel pestaggio istituzionale.

In questi ultimi giorni tanto si è scritto e detto riguardo ai tifosi del Feyenoord ed a ciò che hanno fatto in Piazza di Spagna, a come l'han fatto, a come sono stati lasciati liberi di agire. alla mancata adozione di misure di precauzione efficaci, come se fosse la prima volta che succedono episodi del genere, come se non esistesse una ricca cronistoria di vandalismo ed illegalità attorno al mondo delle tifoserie, e specialmente in ambito capitolino. I manganelli riposano in questi casi, o nella migliore delle ipotesi arrivano tardi, quando già c'è scappato un morto, quando già è stato rovinato un monumento, quando già l'atteggiamento criminale si è manifestato. Per non parlare delle misure di sicurezza che vengono adottate negli stadi, dove assolutamente lo spettatore qualunque non può portare dentro un accendino o una bottiglia, ma il tifoso organizzato può tranquillamente far entrare un arsenale di spranghe, coltelli, fumogeni e bombe carta. Tra l'altro li conoscono tutti, si conosce bene l'identità, la storia politica, la fedina penale di ogni ultrà, ma mai che si prendano una manganellata quando se la meritano. 

Probabilmente il sapore del sangue dei tifosi non è apprezzato dal fine palato dei manganelli, che a quanto pare prediligono quello di giovani studenti, operai, sindacalisti, stranieri, ragazzi. Oppure semplicemente non apprezzano il sangue che gli ricorda quello dei propri possessori, soprattutto se celerini o dei reparti speciali, dove sotto il caschetto, ovviamente senza numero di identificazione, potrebbe celare il viso di un fascista, ma in uniforme. Cane non mangia cane, fascista non mangia fascista, distruttore non mangia distruttore. E fidatevi, se ciò che è successo a Roma fosse avvenuto per mano di tifosi italiani, magari juventini, napoletani o milanisti, i discorsi si sarebbero già esauriti; se ne parla ancora solo perché i tifosi sono stranieri, ed in quanto cittadini di un altro Paese è venuta a crearsi una tensione in sede di politica estera. Ne è la dimostrazione la morte del poliziotto Giuseppe Raciti durante gli scontri di Catania-Palermo nel 2007, fatta passare come un caso di cronaca come un altro perché alla fin fine era una questione totalmente italiana, anzi, totalmente siciliana, e quindi erano sufficienti due parole di commiato, le solite accuse nei confronti del mondo del pallone e delle tifoserie, i soliti mea culpa da parte delle istituzioni e poi il silenzio dopo il funerale in diretta tv. 

Ma gli ultras non devono preoccuparsi. Ai manganelli, come già detto, il loro sangue non piace, probabilmente perché privo di ogni ideale, di ogni inventiva, di ogni spirito di uguaglianza e libertà. E' insipido, evidentemente. E quindi non assisteremo ad un impegno da parte della politica di far sì che queste cose, finalmente, non possano più succedere arginandole, reprimendole, debellandole. I manganelli vanno tenuti affamati per chi in piazza ci scende per qualcosa di più importante di una partita di calcio. I manganelli devono essere usati per aprire le teste degli studenti nelle piazze e nelle scuole, per violentare ragazze inermi, per massacrare in una prigione un ragazzo colpevole di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, per far conoscere l'Italian style a chi arriva sulle coste italiane dopo aver sofferto l'inimmaginabile prima nel Paese natio e poi per mare, facendo svanire nel sangue l'illusione che qui non avrebbero più sofferto. I manganelli vengono "cacciati in gola" a chi ha ancora la forza di urlare che così non funziona, che a forza di toglierci i diritti ci stanno togliendo ogni libertà, che le uniche differenze di cui si deve tener conto sono quelle di trattamento di fronte alla legge e non quelle espresse dal colore della pelle, dall'orientamento sessuale, dalla posizione occupata nella società. 

Posso comprendere i gusti dei manganelli, del resto io mi circondo di persone che preferiscono costruire anziché distruggere... ma chi crea è sempre un pericolo, soprattutto se crea qualcosa fuori dagli schemi. Ed ecco perché è proprio su di noi che il manganello apre le fauci. Anche perché, alla fin fine, i buoni, da sempre, siamo noi. 

Nonostante tutto ciò, come dissi nove anni fa alla nipote del compianto Vittorio Foa, dei corpi di Polizia, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza bisogna continuare a fidarsi, perché parto dal presupposto che non è l'esecutore materiale ma chi lo comanda e lo seleziona ad essere il problema, perché se ancora siamo in democrazia parte del merito è loro, perché se possiamo ancora camminare per strada pensando ai fatti nostri è anche grazie a loro. Il problema non sono le autorità in sé, il problema sono i magheggi nei palazzi del potere, sono le direttive che portano alla repressione a priori di una manifestazione regolare ed alle mancanze ingiustificabili ed ingiustificate in altre situazioni (a partire dalle manifestazioni di stampo neo-fascista, come se l'apologia di fascismo non fosse reato), sono le infiltrazioni nei cortei. E non mi sto inventando nulla, di prove ce ne sono a milioni, ma si fa finta di non sapere, di non vedere, di non pensare. E' meglio per tutti, ed almeno i telegiornali hanno qualcosa di cui parlare, e l'opinione pubblica qualcosa di cui indignarsi...

Possiamo comunque tutto sommato ritenerci fortunati... in altri posti del mondo, specialmente laddove si presume di essere i padri dei valori democratici, ai manganelli si sostituiscono i proiettili, che colpiscono anche solo per il fatto che la pelle che ricopre il corpo è di un colore diverso. Quarantuno colpi contro una pelle non propriamente americana. Una storia come tante, messa in musica dal Boss.



Stefano Tortelli

Stigmatizzazione a priori & santificazione a posteriori - Breve storia della xenofobia

Statua in ricordo di Giordano Bruno




Razzismo, omofobia e odi religiosi, nonostante le tesi degli attuali politici, non sono i mali del XXI secolo. Hanno radici ben più profonde, probabilmente insite nella natura umana, che mutano nel corso dei secoli, assumendo diverse forme e diverse manifestazioni, e sono presenti a livello universale. Sarebbe oltre tutto un errore madornale legare a doppio filo questi mali all'ignoranza, perché se si può anche accettare come dato di fatto una stretta correlazione tra alcune forme di odio per il diverso e l'ignoranza e l'ottusità, è altresì vero che non tutte le xenofobie germogliano negli aridi campi della mancanza di cultura e di intelligenza. Ne sono esempi le rivoluzioni scientifiche, ovvero i passaggi da un paradigma scientifico ad un altro da parte della comunità intellettuale. Un passaggio tutt'altro che indolore, che vede come primi promotori esponenti che hanno conosciuto molte gogne prima di poter essere riconosciuti come luminari. Galileo, Copernico, Darwin, Tesla, Einstein, Von Daniken, tutti perseguitati, tutti considerai matti, tutti osteggiati. E non dagli ignoranti, ma da persone intelligenti quanto loro. Come spiegare ciò?

Come scritto in precedenza la xenofobia è un qualcosa di riscontrabile a livello globale, a qualsiasi latitudine, ma soprattutto in tantissime differenti forme. Fanno scalpore l'omicidio, il genocidio, la ghettizzazione, la segregazione, ma pensare che dietro a questi non vi sia un processo che è passato per diverse tappe, collocabili in un arco di tempo più o meno ampio, sarebbe estremamente riduttivo e pressapochista. Forse l'unico razzismo che è nato da un giorno all'altro è quello che ha visto come carnefici i coloni europei in America e come vittime i deportati dall'Africa, diventati merce da vendere ai proprietari terrieri, ai padroni delle miniere, agli impresari edili. Un uomo diventa merce, un altro uomo paga un altro uomo ancora per avere l'uomo-merce. E già questo particolare processo rende il razzismo in America, ed in particolare negli Stati Uniti, un caso limite, che merita delle analisi specifiche, e che in certi sensi rappresenta l'eccezione che conferma la regola. Perché gli Ebrei durante il nazi-fascismo non sono stati perseguitati da un momento all'altro, e la loro persecuzione non si può ricondurre esclusivamente all'ideologia hitleriana; perché la persecuzione nei confronti dei cosiddetti "eretici" non è stato un fenomeno estemporaneo, e prima del suo intensificarsi ha avuto una storia lunghissima, che ha coinvolto l'Europa intera, le coste settentrionali dell'Africa, il Medio Oriente. 

Ed anche certe religioni, certe credenze, certe superstizioni sono figlie di processi di lungo corso: l'uccisione degli albini in Africa, le condanne religiose nei confronti dei sodomiti, l'aberrazione delle malattie psichiche e delle deformità. Fino ad arrivare alla persecuzione di qualcosa che non è riscontrabile a livello esteriore o nei comportamenti, ma nel modo di pensare, di parlare, di ragionare: le persecuzioni politiche, che tanto hanno animato il Novecento, hanno radici antichissime e che, se ancora oggi sono in grado di alimentare odi ideologici è perché sono sempre state in grado di attecchire in un terreno estremamente fertile. E quale altro terreno può essere, questo, se non la natura umana? 

Quanti personaggi storici e religiosi sono stati uccisi perché diversi, perché fuori dagli schemi? Gesù era diverso, Giulio Cesare era diverso, i santi erano diversi, Martin Luther King era diverso, John Lennon era diverso. Con il passare dei decenni o dei secoli ci si è poi ritrovati a chiedere scusa ed a sostenere che tutti questi diversi erano nel giusto mentre i normali erano nel torto, e probabilmente questo processo si perpetuerà ancora per molti anni a venire, proprio perché ben insito nel nostro inconscio. Perseguitati da vivi, incensati da morti, fino ad elevarli a divinità, a miti, a leggende. E, paradossalmente, in alcuni casi oltre al danno c'è la beffa: gli osteggiati in vita, osannati da morti, a volte si ritrovano a loro malgrado ad essere il feticcio da venerare e da difendere da nuovi diversi che portano avanti un nuovo modo di pensare, di vivere, di fare scienza. E così ogni teoria che va contro l'evoluzionismo ed il creazionismo viene osteggiata, ogni corrente di pensiero che va contro il Cristianesimo è il Male. Del resto anche il rock n' roll si è provato ad ucciderlo nella culla, ed ironia della sorte è stato ammazzato in seguito dai suoi seguaci, perché ormai si era trasformato, era diventato altro. A livello macrosociale tutto ciò è ben visibile, ma la xenofobia è riscontrabile anche nei rapporti interpersonali di ogni singolo individuo. Andare oltre, andare avanti, evolversi è ciò che più spaventa ogni uomo e donna, ed è molto più facile prendere le distanze da chi è differente e nuovo e che in sé incarna il futuro anziché rimanere in un contesto che si considera amico solo perché conosciuto, ma che in verità soffoca ogni propria aspirazione al migliorarsi. 

Ci vorranno decenni prima che vengano pre-datati eventi significativi nell'evoluzione e nell'espressione dell'uomo (la costruzione delle piramidi, la comparsa dell'uomo in America), ci vorranno decenni prima che si possa considerare possibile la nostra provenienza extra-terrestre, ed anche quando queste ipotesi verranno accettate andando a creare un nuovo paradigma scientifico, assisteremo allo stesso processo che si verifica puntualmente da migliaia di anni: quand'anche ci saranno prove che potrebbero modificare il prossimo paradigma, si assisterà nuovamente ad una persecuzione, ad un osteggiamento, ad un rigetto. 

E' umano, a quanto pare, odiare il diverso, averne paura. Ma sono umane anche le diversità nel colore della pelle, nell'orientamento sessuale, nel modo di concepire il trascendentale, nel pensiero, nella scienza, nel gusto artistico. Sembra però che sia più facile rinunciare a queste ultime peculiarità dell'essere umano anziché alla xenofobia. Forse perché, sotto sotto, molti considerano il diverso superiore e non inferiore a loro, e quindi da combattere, da eliminare, da relegare, per poter continuare a perpetuare il loro essere inferiori. Inferiori, ma tranquillamente e disumanamente normali.

Preferisco di gran lunga le storie sbagliate, quelle che per la maggior parte delle persone sono senza senso, senza morale, senza pudore. Le preferisco, perché nella loro diversità c'è il loro essere speciali, c'è il loro essere policromatiche all'interno di un contesto grigio, c'è un barlume di futuro, di ignoto, che adorerei scoprire, adorerei esplorare. E forse è proprio questa la spiegazione delle parole del Cristo: "Gli ultimi  (perché diversi) saranno i primi"...





sabato 21 febbraio 2015

Riportando tutto a casa. La camera parlante





Da quando ho aperto questo blog più volte mi è venuta voglia di raccontare lo spazio nei quali nascono la stragrande maggioranza dei post che finora ho scritto. Perché raramente prendo appunti appena mi viene in mente qualcosa, o nel momento in cui ciò che mi circonda preme l'interruttore della mia mente portandola a creare. Sono un diesel, probabilmente, o più semplicemente preferisco essere tranquillo quando devo scrivere. Ed effettivamente se un foglio bianco si accinge ad accogliere l'inchiostro delle mie penne, probabilmente si trova disteso su una superficie riconducibile ad un luogo che potrei tranquillamente chiamare casa. Ma, come i migliori sogni notturni, i miei scritti prendono forma tra le mura della mia camera, nella quale porto le mie impressioni per poi riportarle sotto forma di parole. 

Nel post precedente, al quale in parte è legato questo e che è stato il fiammifero che ha acceso l'irrefrenabile desiderio di scrivere ciò che seguirà, ho fatto riferimento ad elementi che qui trovano posto (i Dylan Dog, i cd), spiegandone anche alcune peculiarità, alcuni significati. Ma di cose in questa stanza ce ne sono parecchie, non è tutto riducibile a questi due elementi. Perché c'è una vita, qua dentro. 

Ma non è soltanto dentro ai muri che è racchiusa la mia storia: i muri stessi ne raccontano una parte. La mia stanza è grande, tutt'altro che calda (ed anche per questo motivo, dopo anni passati a temperature non propriamente confortevoli, preferisco il freddo al caldo: anche perché il freddo lo si può affrontare, il caldo no, è un nemico pressoché invincibile), con un soffitto a volte piuttosto alto. Due anni fa decisi di renderla a mia immagine e somiglianza: le cinque volte hanno cinque colori dell'arcobaleno, riproposti poi su tre delle quattro pareti. Perché la restante, quella che veglia sulla mia testa quando vado a dormire, è nera, con sopra disegnato un triangolo nel quale entra un fascio bianco e dal quale esce l'arcobaleno. Un modo come un altro per dire che quando dormo c'è la copertina pitturata di Dark side of the moon a vegliare su di me. Decisi di dare quest'impronta floydiana alla camera mentre stavo facendo un puzzle, sempre dei Pink Floyd, che invece capeggia su una libreria che comprai e che poi montai, nella quale sono riposti i miei cd, i libri dell'università, gli spartiti ed i testi delle canzoni che ho studiato, scritto o cantato negli ultimi anni. Ci sono anche alcuni vinili di mia madre, tra i quali ho mischiato quelli che ho portato a casa io: alcuni ad implementare la sua raccolta, andando a riempire i vuoti lasciati nelle discografie di De André e dei Pink Floyd, altri invece sono i primi pezzi di nuovi percorsi (Folkstone, Metallica, Iron Maiden, Litfiba). Di alcuni vinili ho deciso di appendere le copertine: sono tutti dischi di artisti dei quali ho visto dei concerti, ed insieme ad essi è incorniciato anche il biglietto del rispettivo live, a testimoniare che c'ero, che l'ho vissuto. Alcuni cd invece arrivano da luoghi lontani nei quali sono stato: c'è chi compra dei souvenir o delle cartoline, io compro cd, non per forza legati alla città o alla nazione nei quali li ho comprati. Al legame tra l'oggetto ed il contesto in cui l'ho comprato ci penso io. E così ci sono dischi comprati a Bilbao, a Tolosa, a Strasburgo, a Taranto, a Firenze, e così via. Sempre tra quei titoli ci sono dei regali: di amici, di parenti, di ragazze, e regali che io ho fatto ai miei genitori, ma che per comodità trovano spazio in camera mia. La parete opposta a quella con il murale è colei che porta il peso di milioni di parole: i Dylan Dog, i libri che ho letto e che voglio leggere, i miei diari, i miei quaderni. Su di lei poggiano le mie due scrivanie, sulle quali trovano spazio il computer, il mixer, la pianola, le casse, e che spesso hanno accolto la mia testa stanca o disperata, quando la mia forza fisica o di volontà non era sufficiente per contrastare la forza di gravità. Accanto alle scrivanie, infine, trova posto il mio armadio, nel quale ripongo i miei vestiti e che al tempo stesso è vestito. Da ritagli di giornale, da locandine, da scalette, dai biglietti dei concerti e dei film visti al cinema (risalenti la maggior parte al periodo in cui stavo a Torino con una delle mie ragazze, estremamente appassionata di cinema), da fotografie, da biglietti di auguri, da sottobicchieri provenienti dalle birrerie che ho frequentato con le persone a me care. Infine c'è la parete rossa, anch'essa mio specchio oltre che il sostegno allo specchio. E' un rosso acceso, è il rosso della lotta, mentre il rosso dell'amore, quello purpureo, è quello delle tende che alterano la visione del mondo fuori dalla finestra. 

Ci sono mille altre cose, che per brevità e per timore di annoiare non cito, ma ovviamente non mancano gli altri strumenti (la chitarra, la batteria elettronica, il microfono, i tin whistle, il bodhran, che però al momento è in prestito altrove), il quadro di Buddha che sin da piccolo mi ha affascinato, le fotografie in compagnia delle mie migliori amiche, una stampa raffigurante il sogno cubano. i vestiti che per ultimi hanno accompagnato la mia vita fuori da questa camera sparsi sulla poltrona o sugli altri mobili, i videogiochi. E soprattutto qui dentro ci sono tutte le persone che hanno portato qualcosa nella mia vita: alcuni libri dei miei nonni, la tessera del PCI del mio nonno paterno, una lampada fatta da mio zio, dischi e libri dei miei genitori, simboli degli amori passati e simboli di esperienze condivise con i miei più cari amici. 

Ci sono io, in questa stanza, ma questa stanza è me, ed in me, se in questa stanza ci sono tutte queste persone, tutte queste parole, tutte queste idee, tutte queste note, probabilmente c'è tutto questo, ed anche di più.

C'è chi sostiene che è interessante guardare dalla finestra alla quale abitualmente si affaccia una persona perché da quel panorama si possono intuire molte cose di questa persona... ma guardare il contenuto della stanza di una persona lo è altrettanto, se non di più. Non ho particolari ricordi di molte case che ho visitato, ma delle camere delle persone ho molti flash, che valgono più di mille parole. 


Dato che i Pink Floyd hanno rubato la scena al resto degli artisti qui presenti, e dato che Dark side of the moon la fa da padrone, credo sia scontata la mia scelta.. "Home, home again.. I like to be here when I can"



Stefano Tortelli



Collezionismo, capitalismo e sessualità repressa




Sono tanti i possibili insegnanti che possiamo incontrare lungo il nostro cammino su questa Terra: scrittori, cantautori, sceneggiatori, insegnanti di professione, filosofi, statisti. Sono cose che ho già detto, lo so, ma la mia ridondanza è doverosa, alla luce degli ennesimi stimoli che la quotidianità mi offre per arrivare ad alcune congetture.

Dopo l'esame dato la settimana scorsa e complici le feste di Carnevale che hanno tenuto chiusa la scuola nei giorni in cui avrei dovuto fare lezione, ho dedicato gli ultimi giorni alla visione integrale delle prime due stagioni di X-Files, alle quali devo aggiungere le prime cinque puntate della terza serie. Di spunti ne da tanti, soprattutto ad una persona che crede all'esistenza degli alieni, all'esistenza di entità non visibili, al fatto che non siano casuali certe coincidenze e che ancora meno lo siano certe incongruenze. Ma non è questa, almeno per ora, la sede in cui parlerò di Scully e Mulder, né tanto meno dei fantasmi o degli alieni. Come ogni serie che si rispetti, però, anche X-Files ha un filo conduttore ben curato, sebbene spesso sia nascosto e controverso, ma considerare questo un aspetto negativo sarebbe sbagliato. Anzi, il segreto di X-Files è proprio questo... Ci sono però degli episodi cruciali nei quali è impossibile nascondere il filo, ed allora eccolo sbattutoci in faccia, con due o tre episodi legati tra loro, dei veri e propri film all'interno della serie. L'ultimo di questi film nel telefilm è quello che raccorda la seconda e la terza stagione, narrato per larghi tratti da un capo indiano. Senza andare a perderci nella trama, ciò che emerge dal suo racconto, implicitamente ed esplicitamente è il seguente: di Storia ce n'è una sola e viene scritta dai vincitori, che racconteranno ciò che a loro fa comodo.. ma di storie, e quindi di memorie, ce ne sono tante, infinite. E finché queste verranno raccontate la verità continuerà a sopravvivere, benché in condizione di latitanza, di illegalità, in netta minoranza. Ieri sera Marino Severini, cantante dei Gang, ha detto praticamente la stessa cosa spiegando il perché sia necessario raccontare storie del passato, soprattutto quello della resistenza partigiana. Le nostre radici risiedono nella memoria, non nella storia. 

Due insegnanti di diversa provenienza (il creatore di X-Files è statunitense, Marino è italiano) e di diversa professione per uno stesso concetto, applicato in modo differente, la cui forma differisce anche nell'ambito che va a trattare: X-Files è fantasia, la Resistenza è realtà. 

Ho già detto in articoli passati che l'arte è allegoria della realtà, ed è molto più efficace quando viene presentata di soppiatto perché leggere tra le righe o interpretare è molto più efficace che il prendere così com'è una determinata scena, un brano tratto da un disco o da un libro, senza suscitare particolari ragionamenti interiori. Certo, bisogna essere in grado di ragionarci su, e qui si torna alla questione dell'intelligenza, ma dato che io presumo di esserlo e presumo che chi mi legge lo sia, do certi presupposti come certi. 

Finora avrò visto una quarantina di episodi di X-Files, e teoricamente ci sarebbe da scrivere un post almeno per la metà di questi. Alcuni sono fantasiosi, fanno riferimento a leggende americane o cristiane, e offrono pochi elementi sottoponibili ad analisi, ma altri sono una miniera di riflessioni. Ad esempio c'è una puntata in cui un uomo aveva la passione per le unghie ed i capelli delle donne morte: lavorava per un'agenzia di pompe funebri e depredava i cadaveri, ma poi, una volta licenziato, ha dovuto trovare un'altra strada per ampliare la propria collezione di trofei: uccidere. Ora, senza andare a prendere in considerazione casi limite come quelli dei serial killer (che comunque spesso si appropriano di qualcosa che apparteneva alla vittima), voglio prendere in analisi alcuni casi che mi è capitato di incontrare lungo la strada. Persone che si svenano per avere una moneta od un francobollo, decine e decine di euro per acquistare il primo numero in edizione originale di Dylan Dog (altro che decine, si parla di centinaia di euro), dischi acquistati e mai ascoltati, e se nuovi nemmeno liberati dal cellofan. Un accumulo continuo di oggetti o denaro (perché c'è anche chi guadagna e non spende, e non in ottica di risparmio ma in ottica di accumulo), il tutto volto a soddisfare il proprio bisogno di possedere, di avere. C'è addirittura chi fa diventare una collezione le persone con cui è andata a letto. Cinque, dieci, venti, cento. Ma ne basta anche una, sotto un certo punto di vista... Mi chiedo però se si ricorda il nome, le generalità, l'aspetto, l'odore di queste donne o uomini con le quali ha avuto un amplesso, se ne ha mai assaporato l'essenza, se mai si è posta il problema di quali emozioni queste persone possano aver provato. 

Che siano monete, dischi, libri rari, fumetti, persone, il principio è lo stesso. Il possedere è alla base della loro natura, e questa natura è influenzata da freudiani impulsi sessuali mai totalmente espressi, e quindi almeno in parte repressi. Il capitalismo ha di certo facilitato questo meccanismo, promuovendolo e mettendolo a disposizione di qualsiasi tipo di tasche: c'è chi colleziona macchine, chi case, chi tappi di bottiglia, chi cartoline. Il paradosso però è che viene snaturato il prodotto del capitalismo: il capitalismo dovrebbe fornire beni di consumo, non beni da accumulare, e questa disfunzione all'interno del sistema è alquanto curiosa. Resta comunque il fatto che il capitalismo è sempre un passo avanti e sa bene come creare nuove cose da collezionare, anche perché sa che di malati ce ne sono parecchi, per di più inconsapevoli di essere affetti da questo germe.

Non nego il fatto che anche io colleziono fumetti e dischi, ma lo scopo è un altro. Saranno pur tutti in ordine i miei fumetti di Dylan Dog, ma tutti sono stati letti almeno una volta, e che siano prima, seconda o terza edizione mi interessa ben poco. I miei cd anche sono in ordine alfabetico per artista e cronologico per anno di pubblicazione, ma giusto per poterli trovare più in fretta ed ascoltare, vivere, rigare, consumare, strappare. A volte penso alla mia prima auto, alle decine di migliaia di chilometri che con lei ho fatto, le città che insieme abbiamo raggiunto e visitato, le persone che sono salite in macchina e che con me hanno cantato a squarciagola le canzoni dei miei cd, con le quali sono andato ai concerti, suonati o ascoltati... Mille storie ad essa legate, mille ricordi, mille cose da ricondurre a quella Grande Punto, anche una sua sorellina, o meglio una sua Evoluzione, che in terra veneta ho guidato come se fosse mia. Tutti quindi possono possedere, ma vivere un qualcosa, stabilire un legame, un rapporto con gli oggetti, una reciprocità, è un altro discorso, e non ha assolutamente a che fare con il collezionismo, con l'accumulo, con il piacere dato esclusivamente dall'avere una cosa. 

Il guardare ma non toccare, nel collezionismo, diventa l'avere ma non usare, e facilmente si trasforma in un non avere: un non aver vissuto, un non aver partecipato, un non aver condiviso. 

Il verbo avere è meraviglioso, perché oltre ad essere sinonimo di possesso è, soprattutto, il participio passato di azioni compiute. Ho vissuto, ho visto, ho amato, ho letto, ho ascoltato, ho emozionato. Queste, però, sono cose dettate dal vivere e dall'essere, non dall'essere in base all'avere... 

Tutto questo ve lo dice un collezionista... ma di esperienze, che nessuno potrà togliermi, ma che chiunque potrà "toccare".

Non so perché, ma questa canzone di De André spesso la riconduco alla condizione che può vivere un irrefrenabile collezionista. Forse sta tutto in un verso: "e ogni giorno un altro giorno da contare"... se si riconduce tutto alla quantità, il tutto diventa un nulla.




Stefano Tortelli

mercoledì 18 febbraio 2015

Videogames d'istruzione di massa




Ognuno di noi ha i propri hobby, le proprie passioni, e talvolta è possibile anche farli coesistere, coltivandoli insieme perché compatibili. E così c'è chi nel tempo libero va a correre, chi pratica sport, chi legge, chi ascolta musica, chi gioca con gli amici, chi va nei musei, chi scrive, chi va ai concerti... chi gioca al computer... In una realtà che definire rurale è un eufemismo, aggravata dal mio essere figlio unico, una volta che in casa è entrato il computer è stato quasi automatico ritrovarmi a giocare con i più disparati videogames, che oltre ad essere vissuti in quanto giocati, erano anche fonte d'ispirazione per alcuni racconti ricchi di immaginazione. Più di una volta, da piccolo, scrissi di uno schermo in grado di assorbirmi e rendermi protagonista in prima persona delle varie avventure in cui mi imbattevo. Dallo sconfiggere gli orchi al guidare una macchina da corsa, dal difendere la Terra dagli attacchi alieni al guidare eserciti di ogni epoca, armati fino ai denti, alla conquista di nuovi territori. Già quindici anni fa c'erano videogiochi di tutti i tipi, e non credo di mentire nel sostenere che negli ultimi dieci anni ben poco si sia inventato, si sia migliorato, se non la grafica, che null'altro fa se non rendere più reale l'esperienza, dilaniando però, di fatto, l'immaginazione. 

Con il passare del tempo sono cambiati i gusti in fatto di videogiochi, ma la passione con cui li vivo è rimasta intatta. Complice anche un computer che non è in grado di reggere titoli di ultima generazione e la sterilità dei prodotti della maggior parte dei prodotti del terzo millennio, spesso rispolvero i giochi che già alle elementari mi tenevano incollato allo schermo: sono di fatto due le tipologie di giochi che mi hanno sempre affascinato, ovvero quelli di strategia in tempo reale (nei quali includo i gestionali) ed i giochi di ruolo. Voglio però soffermarmi sui primi, sebbene, per quanto riguarda alcuni titoli della seconda categoria, in particolare la saga di Gothic, ci sarebbe tanto da scrivere. 

I giochi di strategia ed i gestionali sono qualcosa di meraviglioso, e se giocati con occhio critico e con il desiderio di apprendere sempre e comunque, hanno decisamente molto da insegnare. Prendiamo due esempi, giusto per potermi spiegare al meglio: la saga di Age of Empires (I + espansione, II + espansione) ed i gestionali storici della Sierra (dei quali prenderò in considerazione il solo Faraon).

La saga di Age of Empires è forse la più famosa nel campo videoludico per quanto riguarda la categoria dei giochi di strategia. Il primo capitolo, nel quale includo anche la relativa espansione, prende in considerazione i primi millenni della storia dell'uomo, ovvero dalla nascita del concetto di civiltà nella Mezzaluna fertile alla nascita di Roma, passando per la grandezza dell'Egitto e la saggezza dell'antica Grecia; il secondo capitolo, che è quello che più mi ha preso (e che tutt'ora, molto spesso, mi vede protagonista), ci catapulta nel Medioevo, tra guerre sante, invasioni barbariche, la scoperta delle Americhe e la difesa dell'Europa dalla minaccia islamica. Tralasciando l'accuratezza storica delle campagne che è possibile intraprendere in entrambi i capitoli, ciò che veramente è importante prendere in considerazione è che esiste una sola via per vincere: la tua civiltà, benché sia votata alla guerra, non può esimersi dall'ignorare il minimo aspetto che la caratterizza. Puoi vincere una guerra senza investire nella tecnologia e nella cultura? No, non puoi. Puoi insediarti tra le rovine di una città nemica senza proteggere innanzi tutto i tuoi lavoratori? No, non puoi. Puoi avere dei guerrieri sempre pronti a combattere senza dar loro una guida spirituale in grado di assisterli in ogni aspetto della loro vita? No, non puoi. Anzi, la prima cosa da fare è proprio far sì che i civili che animano il tuo primordiale accampamento abbiano una casa in cui vivere, siano nella condizione di poter raccogliere le risorse indisturbati, abbiano un riparo in caso di incursione nemica, e soprattutto possano godere di nuove tecnologie per lavorare al meglio nei campi, segare con più efficacia il legname, pescare con imbarcazione adeguate nei fiumi e nei mari. Ma cosa ancora più importante è essere in grado di trovare ad ogni singolo aspirante lavoratore una mansione, perché più gente hai che lavora più in fretta cresce la tua economia e meglio potrai affrontare gli investimenti in cultura, in tecnologia, in ambito bellico. Paradossalmente l'ultima cosa da fare è creare un esercito, perché una volta costituita la propria armata il passo che separa l'essere confinati in un angolo della mappa al renderla tutta obbediente al proprio vessillo è breve e facile. Ma pensare di addestrare soldati senza avere un'economia fiorente alimentata dal duro lavoro di schiere di operai equivale ad un suicidio, significa consegnarsi al nemico, implica il dover ricominciare la partita. 

Faraon (ed i suoi fratelli maggiori Zeus e Caesar III) funziona diversamente, ed esalta ancora di più gli aspetti che in Age of Empires sono fondamentali ma meno palesi. La guerra è un aspetto marginale del gioco, ciò che è necessario fare è mettere la popolazione nella condizione di poter lavorare al meglio, avere a disposizione una vasta gamma di beni, avere un luogo dove potersi divertire, avere a disposizione templi in cui pregare i propri dei, vivere in un'ambiente piacevole, ben servito e con ottime infrastrutture. Faraon ti obbliga a mettere al di sopra di ogni cosa le necessità dei cittadini, e più sarai in grado di assecondare i loro bisogni e meglio girerà l'economia della tua città, che crescerà di popolazione, che avrà abitazioni sempre più belle, che produrrà beni da fornire ai cittadini e da scambiare con le città vicine in cambio di altre risorse. In Faraon nulla è lasciato al caso, ed anzi ti trovi nella condizione di dover ben distribuire la tua forza lavoro quando questa scarseggia e di velocizzare il più possibile la realizzazione di nuovi posti di lavoro quando invece la domanda supera l'offerta. Tutto è molto estremizzato in quanto artificiale, ma non si discosta poi tanto dalla realtà ideale di qualsivoglia agglomerato urbano, di qualsivoglia nazione, di qualsivoglia realtà animata da un gruppo di persone. 

I politici attuali erano forse già troppo grandi quando queste due saghe occupavano gli scaffali dei negozi di videogames, perciò do loro l'attenuante di non aver potuto godere da giovani di questi saggi insegnamenti derivanti da queste ludiche allegorie... ma ai politici di domani imporrei un tot di ore passate a giocare ad Age of Empires o Faraon, obbligandoli a finire entrambi i titoli con impostata la difficoltà massima e senza trucchi. Scommetto che poi si dimostrerebbero più saggi nel momento in cui si dovessero trovare a governare. Altro che tagli alla scuola ed alla ricerca, altro che massacrare le classi produttive rendendole improduttive, per fare esclusivamente i comodi dei ricchi e degli imprenditori oltre che dei signori della guerra... anche perché da Faraon riceverebbero una bella lezione di vita che, a giudicare dall'andazzo generale, nella realtà difficilmente otterrebbero: se per più di un anno metti nella condizione i tuoi cittadini di essere arrabbiati, affamati e non in grado di pagare le tasse,  in poco tempo, armati di fiaccole e bastoni, ti ripuliscono le esattorie, il palazzo del governo e la magione...

Se quindi la realtà non insegna molto, è necessario carpirli dai mondi fantasiosi gli insegnamenti. Da libri, fumetti, musica, film... ma anche da certi videogiochi.... 

Per concludere, rimanendo in tema, Age of Empires, oltre ad essere un gioco meraviglioso, ha una colonna sonora di tutto rispetto... del resto io amo studiare con la musica di sottofondo! 




Stefano Tortelli


martedì 17 febbraio 2015

Il destino della memoria - Mondi virtuali e cieli solcati



Ci sono dei momenti in cui mi chiedo per quali importanti avvenimenti, scoperte e progressi l’epoca in cui viviamo potrà venire ricordata nel futuro, che sia tra un secolo o tra un millennio. Partendo dall’assunto che ciò che noi conosciamo del passato, sia storico sia preistorico, non è probabilmente tutta la verità, e sicuramente non è tutto ciò che ci sarebbe da conoscere, non so quanto ai nostri successori potrà interessare la nostra epoca, e soprattutto non ho idea su che dati potrebbero basarsi per analizzarla.

Raf si chiedeva “Cosa resterà di questi anni ‘80”, decade che sotto diversi punti di vista, soprattutto quello culturale, è stata un arco temporale durante il quale c’è stato un certo rilassamento, conseguenza di tre decenni estremamente intensi e ricchi di novità in ogni ambito della vita, ma anche preludio ad un nuovo rimescolamento delle carte: caduta del muro di Berlino, apparentemente fine della Guerra fredda, implosione dell’Unione Sovietica, prime grandi tensioni tra Occidente e Oriente arabo. Tutti elementi che hanno contraddistinto gli ultimi venticinque anni sotto il punto di vista politico, che hanno portato a nuove distribuzioni della variabile potere all’interno del sistema mondo, e quindi, di riflesso, di tutte le variabili legate alla detenzione del potere.

Per una volta però voglio soffermarmi non tanto sulla questione squisitamente politica, le cui motivazioni, se l’evoluzione del pensiero dell’uomo procederà in modo lineare, giustificheranno lo scherno e lo sbigottimento con cui gli storici del futuro argomenteranno i processi che hanno portato all’attuale configurazione sociale, politica ed economica, ma su quella prettamente culturale, e non tanto su ciò che l’attuale mondo delle arti attualmente produce ma su come lo produce, ovvero in che formati. Viviamo ormai da una trentina d’anni nell’epoca della digitalizzazione, e soprattutto negli ultimi dieci si ripone nei nostri computer buona parte di ciò che noi siamo in grado di produrre: i nostri scritti, la nostra musica, le nostre fotografie occupano migliaia di terabyte di memoria virtuale, custodita in scatoline di plastica e componenti elettronici altamente instabili. Basta poco a far sì che un hard disk o una scheda di memoria non siano più fruibili: un fulmine, l’acqua, la rottura meccanica dei componenti principali. Basta una disattenzione ed ecco che si perde una quantità enorme di dati impossibili da recuperare se non si è fatta in precedenza una copia. Ho letto qualche giorno fa un articolo che ammoniva l’attuale mondo della fotografia, non tanto a livello professionale quanto a quello amatoriale ed emozionale: la fotografia come prova tangibile di un evento rischia di fare una brutta fine, perché se è vero che al momento possiamo potenzialmente fotografare ogni istante della nostra vita è anche vero che non ci prendiamo quasi più il tempo di guardare le foto fatte, figuriamoci quindi di stamparle, di renderle a tutti gli effetti oggetti reali, da toccare ed annusare oltre che vedere, da riporre in un album. E’ il tipico effetto che si ottiene quando l’estrema abbondanza di un qualcosa rende questo qualcosa di fatto inutile, o comunque di poco valore. Questo discorso si può allargare ai libri (sebbene, con estrema felicità, di ebook ne veda ben pochi in giro), alla musica (dove ormai anche l’acquisto è più comune in supporto digitale anziché analogico), alla cinematografia (perché siamo onesti, con la pirateria il concetto di blockbuster è definitivamente andato a farsi benedire), e se si aggiunge il fatto che per quanto riguarda le belle arti ci troviamo ad un punto morto è ben poca la realtà nuova che ci circonda. Per ora va bene così, nel senso che, come scrivevo prima, è sufficiente fare una copia dei dati per far sì che questi non possano venir persi (e del resto si può obiettare il discorso finora fatto portando avanti la tesi che basta un incendio a bruciare milioni di pagine, di fotografie, di quadri, di spartiti e di dischi) al primo imprevisto, ma è anche vero che, se qualcosa questi ultimi 30 anni ci hanno insegnato, l’evoluzione riguardante lo stoccaggio e la gestione dei dati è sì estremamente rapida ma anche fortemente distruttiva nei confronti del precedente sistema. Basti pensare all’incompatibilità di tanti programmi creati soltanto una decina di anni fa con i sistemi operativi attuali, basti pensare a come il compact disc abbia di fatto avuto vita breve (certo, esistono ancora, ma più per volere del consumatore che del produttore) e di come sia estremamente suscettibile al passare del tempo ed agli agenti esterni, basti pensare a come ormai sia diventata impresa eroica guardare una videocassetta. Il progresso tecnologico rischia quindi di fare tabula rasa di tutto ciò che c’era prima, proprio come la bomba atomica è in grado di fare ovunque questa cada. Inoltre, sebbene possa sembrare uno scenario apocalittico e di difficile realizzazione, credo sia molto più facile assistere ad una mondiale perdita di dati digitali nei prossimi decenni piuttosto che alla scomparsa di una grossa fetta di umanità. Il problema è che se i sistemi elettronici andassero all’improvviso in tilt (il millennium bug non si è verificato, ma credere che possa essere fantascienza l’immissione di un virus che colpisca tutti i computer del mondo sarebbe da stolti), provocando la totale perdita di dati immagazzinati, tutte le conoscenze non trascritte, stampate o trasportate su supporto analogico verrebbero cancellate, riportandoci indietro di chissà quanti decenni.

Può sembrare fantascienza, lo so, può sembrare quasi pazzia. Intanto, però, un mercato che sembrava morto sta riprendendo a girare, andando in controtendenza con l’attuale trend: è quello del vinile, che sta crescendo in maniera esponenziale, che sta di fatto rendendo immortale parecchie produzioni musicali, attuali e passate, spinto dal desiderio di avere per le mani qualcosa di tangibile, di incorruttibile, di imperdibile nei meandri della memoria virtuale, del web, degli hardware. E non è un caso che io sia voluto arrivare ai vinili. Perché quando la scienza ancora aveva un’ottica lungimirante ed aspirava non solo a conoscere ma a far conoscere, si è delegato ad un long playing estremamente particolare ed unico nel suo genere il ruolo di messaggero. Nel 1977, infatti, la Nasa, contestualmente con il programma Voyager, che consisteva nell’invio di due sonde che avevano lo scopo di oltrepassare i confini del sistema solare, ha lanciato nello spazio due dischi d’oro contenenti informazioni riguardanti l’uomo e la Terra, saluti ed alcune composizioni musicali, con l’obiettivo di lasciare una traccia incorruttibile della nostra esistenza all’esterno del nostro pianeta, con la chiara speranza che un giorno almeno uno dei due dischi possa venire intercettato da una civiltà aliena. Il nostro pianeta, quel giorno, potrebbe non esistere più, come potrebbe essere già esploso il Sole, ma, anche in questo caso, e quindi anche tra 4,5 miliardi di anni, quei dischi saranno usufruibili così come lo sono i nostri vinili.

E’ bello pensare che a quella che Schopenhauer considera la regina delle forme d’arte (in quanto trascendentale, in quanto unica e vera forma di creazione artistica) sia stato delegato il compito di mostrare ad un’altra entità intelligente chi siamo, come siamo e cosa siamo in grado di fare, altrettanto bello è realizzare che il mezzo al quale ci si è affidati risale alla fine dell’800, in barba ai cd, ai nastri, agli mp3.
Tanto che a volte mi chiedo quanto realmente serva tutta questa tecnologia apparente alla quale sempre di più ci rivolgiamo per manifestare la nostra esistenza e per percepire quella altrui…

In ogni caso, uno dei brani che al momento stanno vagando oltre il sistema solare, non sotto forma di onde radio ma inciso su un disco d’oro, è stato partorito da quello che è considerato il padre della musica moderna: Johann Sebastian Bach. Sarà un rivoluzionario a parlare di noi, in musica, agli omini grigi! 




Stefano Tortelli

domenica 15 febbraio 2015

Ferrero - L'ultimo imprenditore illuminato




"Che mondo sarebbe senza Nutella?" è probabilmente lo slogan pubblicitario più famoso in Italia, sicuramente quello che più è sopravvissuto al mutare delle strategie di comunicazione nell'ambito promozionale. Fino a qualche anno fa ancora circolavano i vari "Che cosa vuoi di più dalla vita? Un Lucano", "Averna, il gusto pieno della vita" (che in una delle ultime sue versioni aveva come base musicale I don't want to miss a thing degli Aerosmith), mentre a viaggiare in parallelo con quello della Nutella, sebbene con meno efficacia e diffusione nel linguaggio comune, vi sono "Svizzero? No, Novi", ed "Amaro Montenegro, sapore vero". Sottovalutare questo tipo di arte soltanto perché asservita al potere economico sarebbe da ottusi, soprattutto in un periodo in cui ormai le pubblicità puntano solo più sull'immagine spesso utilizzando il sesso come veicolo ideale per promuovere marchi e prodotti. Ne parlavo a dicembre nel post Produci, consuma, crepa, nel quale mi scagliavo principalmente contro le pubblicità riguardanti i profumi, dove, nell'impossibilità data da qualsiasi mezzo di diffusione di messaggi pubblicitari (che sia la tv, internet, i giornali, la radio), ad una canzone accattivante e coinvolgente (chissà come mai quasi sempre rock...) venivano associate immagini di donne e uomini semi-nudi pronti ad unirsi in un amplesso alla prima goccia di profumo. Non so quanta efficacia abbiano queste pubblicità, ma sicuramente quelle che venivano accompagnate da slogan accattivanti, talvolta simpatici (come quello dei Pennelli Cinghiale "...Non ti serve un pennello grande, ma un grande pennello"), sono rimaste nella memoria collettiva, andando a creare una vera e propria antologia della pubblicità. 

Tornando però alla Nutella, ed all'azienda che la fabbrica, la Ferrero, ci troviamo ad affrontare un discorso che spesso ha animato i miei primi anni di interesse politico, quando con ragazzi più o meno della mia età mi trovavo a difendere questo marchio (sia per l'affetto che provo nei suoi confronti sia per la forte differenza che c'è tra la Ferrero e la maggior parte delle multinazionali di successo), sottolineando la grande opera che la famiglia ha promosso sin dagli albori. Per comprendere a pieno cosa sia la Ferrero, si potrebbe mutuare il motto che la società calcistica del Barcellona ha adottato: "Barcelona. Mas que un club", ovvero "Barcellona. Più che una squadra". La Ferrero è più che un'azienda, più che una multinazionale. Fondata nel 1946 ad Alba, cittadina del cuneese (il Piemonte, giusto per rimanere coordinati agli slogan precedenti, non è solo la Fiat), è sempre stata attiva nel territorio, non solo per quanto riguarda gli investimenti e le vendite, che nel giro di pochi anni si sono allargate prima in scala nazionale e poi a livello internazionale, ma anche per quanto riguarda il sociale, dando vita ad un vero e proprio sistema di welfare dedicato ai propri dipendenti ed aiutando il contesto locale per far sì che potesse venirsi a creare un'isola felice. Lo stesso modello è stato riproposto in ogni contesto in cui Ferrero si è trovata ad investire, dapprima in Italia e successivamente nel resto del mondo, finanziando pozzi, scuole, attività volte al sociale in Africa (Pietro Ferrero è morto in Sud Africa, in un sobborgo di Città del Capo, durante una missione di lavoro che aveva per l'appunto come scopo quello di promuovere alcune attività volte all'assistenza ed alla crescita dei contesti africani in cui la Ferrero si era insediata), senza mai dimenticare le proprie radici, senza mai pensare nemmeno una volta di distruggere il lavoro fatto in Italia, come invece la Fiat ha fatto e sta facendo. 

Non per nulla la Ferrero più volte è stata oggetto di critiche e di tentativi di sabotaggio da parte delle altre multinazionali, che più di una volta hanno cercato di infangarne il nome mettendo in dubbio la sanità dei suoi prodotti, contestandone i modi di agire, con lo scopo di farne abbassare il valore commerciale per poi prelevarla con pochi soldi (la Nestlé è maestra in questa lurida arte, basti vedere quante aziende italiane del settore dolciario sono passate sotto il suo controllo). La storia della Ferrero è simile a quella della Olivetti, il suo modus operandi è simile a quello teorizzato, ma mai messo in pratica, da Mattei. Tre imprenditori illuminati, tre grandi progetti. 

Uno solo di questi continua a farsi a valere, continua ad esistere, forse proprio grazie ad una famiglia che è sempre stata unita e che dall'inizio della sua storia ha saputo offrire ottimi servizi ai propri dipendenti ed ottimi prodotti ai suoi clienti, imponendosi con i fatti e non con le parole o con i magheggi economici a livello mondiale, in barba alle aziende competitrici, sia del settore sia di altro tipo, che l'han sempre vista come un qualcosa da distruggere perché modello di una realtà attuabile, sperabile. Sperabile però da parte di chi le mani se le sporca lavorando, non da parte di chi se le sporca con il denaro. 

Ieri è morto a 90 anni colui che ha fatto diventare un piccolo laboratorio di pasticceria di Alba uno dei marchi più famosi di dolciumi, Michele Ferrero. Non era già più presidente dell'azienda di famiglia, che già nel 1997 era passata di mano ai figli Giovanni e Pietro (e dal 2011 solo più a Giovanni, data la prematura scomparsa di Pietro), un altro gesto, per quanto simbolico, di estrema oculatezza e lungimiranza. Resta il padre della Nutella, nonché lo zio di molti italiani che, come me, sono cresciuti a pane e nutella, che nella nutella hanno espresso il loro amore o soffocato la propria tristezza, e che con la nutella hanno festeggiato compleanni, hanno fatto sorridere figli, compagne e compagni, genitori. A casa mia per la nutella si litiga anche, ma questo è un altro discorso...

Ecco, vorrei che questo articolo potesse far ragionare tutti coloro che prendono posizioni estreme nei confronti di qualsivoglia azienda: il fine della famiglia Ferrero era, come per ogni realtà commerciale, il profitto, certo... ma in questo caso la scelta dei mezzi, il modo in cui il profitto si persegue, è fondamentale per comprendere a quali realtà è logico far la guerra ed a quali altre no. 

Visto che alla Nutella ho associati tantissimi ricordi, molti legati all'infanzia, alle mie nonne, ai rientri da scuola, credo che questa canzone possa rispecchiarne il lato emozionale, la natura simbolica, che come per me penso valga per molte altre persone. Sia giovani che anziane.



Stefano Tortelli

sabato 14 febbraio 2015

This is the Anti's Society - Le (non) prese di posizione nella società odierna




Anti-fascismo, anti-capitalismo, anti-berlusconismo, anti-cattolicesimo. Razzismo, omofobia, islamofobia, xenofobia. Anti-politica, anti-calcio, haters di ogni tipo. Questa è la nostra società, questo è ciò che si evince dall'attuale situazione socio-politica e culturale, questa è il trend che porta a creare fazioni, correnti, mode, senso di appartenenza. 

Soltanto in un caso sopracitato un'anti-idea ha portato qualcosa di positivo alla società, benché coadiuvata da altre forze che erano scese in campo per raggiungere lo stesso fine ma con scopi diversi. L'anti-fascismo in Italia ha compiuto il suo percorso portandoci al 25 aprile, alla liberazione dal fascismo ed alla fine della guerra, gettando le basi per il referendum del 1946 e la Costituzione del 1948. Ma, a differenza di tutti gli altri non concetti espressi sopra, quelli che ora vengono definiti anti-fascisti ai tempi si autodefinivano in molti modi: erano partigiani, erano rivoluzionari, erano lealisti del re, erano liberisti, erano in quanto portatori di un'idea propria e non in quanto distruttori di idee altrui. In politica questa prassi, questa moda di puntare ad unirsi per disintegrare qualcos'altro anziché portare avanti una propria idea è ben visibile, ed è stato il leit motiv della democrazia italiana. Fino alla fine degli anni '80 il fine ultimo era distruggere il PCI: dall'esterno e dall'interno del partito, dall'esterno e dall'interno dei confini nazionali, di tutto si è provato per abbattere il Partito Comunista più grande del mondo occidentale, unico grande difensore dei diritti dei più deboli e che tanto ha fatto per il bene comune (la maggior parte dei diritti che ci sono rimasti sono figli delle lotte degli anni '70, è bene ricordarlo); dal '94 in poi, invece, tutto è girato attorno alla figura di Berlusconi: per 20 anni ha incarnato la politica italiana, che si divideva in pro-Berlusconi ed in anti-Berlusconi; l'unico risultato è stato rafforzare lo schieramento dell'uomo di Arcore, compatto e monolitico in difesa del suo messia, a scapito dell'indebolimento non tanto in termini numerici di quello anti-berlusconiano, ma in termini di idee, di proposte, di scopi. Tant'è che, una volta salita al potere la coalizione di centro-sinistra, si è sempre rivelata asettica, priva di velleità, priva di idee, di un programma. Del resto se si spende il 99% delle proprie energie e delle proprie risorse ad abbattere un'altrui idea resta difficile dar vita a qualcosa di costruttivo con le briciole, ma soprattutto è quasi impossibile costruire su delle macerie. 

Sarebbe però un grande limite, oltre che un abominevole errore, pensare che questo fenomeno sia soltanto visibile nel mondo politico (dove ora ci ritroviamo l'anti-Renzismo, l'anti-Berlusconismo, l'anti-M5S e chi più ne ha più ne metta), dato che la politica null'altro è che l'espressione di ciò che è la società intera. Sono ancora dell'idea che sia la società a fare i politici e non i politici a fare la società, anche perché se non ci fosse un parallelismo tra queste due realtà basterebbe poco a far crollare l'attuale sistema (non)politico vigente, e dato che ad ogni elezione abbiamo il potere di cambiare le cose ma puntualmente non lo facciamo, allora è chiaro come l'anti-politica sia un'espressione di una società che si muove sui binari dell'anti anziché su quelli del pro. 

Scrivo ora questo articolo perché oggi è San Valentino e perché oggi è l'ultima serata di Sanremo. Che c'entrerà, potrete pensare, con il discorso? Beh, a fronte di una quantità di x persone che stanno guardando Sanremo e/o stanno festeggiando San Valentino (o comunque gli danno peso), c'è un 2x persone che parlano di questi due eventi con disgusto, schifo, quasi odio, mossi dal desiderio di esprimersi, ma attraverso atteggiamenti decostruttivi, con l'unico risultato di dare ulteriore risalto a queste due realtà che tanto detestano. Mi piacerebbe sapere a cosa serva questa condotta, che soddisfazione possa dare, ma soprattutto cosa possa creare di tangibile. E la stessa cosa è legata all'odio razziale, all'essere contro l'omosessualità, contro le religioni, fino ad arrivare all'essere contro uno sport od ad una corrente musicale. 

Trovo tutto ciò molto triste, anche perché tutte queste categorie di persone votate all'anti vanno ad avvicinarsi ad una cultura, ad un'idea, ad uno sport, ad un modus vivendi non tanto perché desiderose di fare questa scelta, ma perché a forza di allontanarsi dall'oggetto del loro odio si allineano a ciò che più si discosta da esso. E così ci si trova ad avere dei pseudo-comunisti, dei pseudo-tifosi, dei pseudo-metallari, che nel loro essere "alternativi" vanno a conformarsi a qualcosa di preesistente non perché ad esso affini ma perché in esso non trovano ciò che odiano. Mi chiedo a cosa serva tutto ciò, che risultati possa dare, se non rendere non solo più forte l'oggetto del proprio odio (perché pubblicizzato, perché mostrato come continuamente soggetto ad attacchi e quindi un qualcosa da difendere) annacquando invece la cultura o l'idea che si va ad abbracciare. Ne è un esempio il mondo di molti centri sociali, dove ciò che unisce non è un'idea in sé ma la somma di tante non prese di posizione dettate dall'essere contro un'altra idea, un modo di vivere, un sistema vigente. Tant'è che nei centri sociali ci si trova di tutto, e sfortunatamente i centri sociali vengono presi come modello per mostrare al mondo la sinistra radicale facendola passare per un branco di nullafacenti, abusivi, tossici e senza uno scopo nella vita. Basterebbe guardare in faccia molta della gente che frequenta i centri sociali per capire che di sinistra ben poco ha quel mondo, ma ovviamente al potere fa comodo mostrare quest'immagine dei comunisti e degli anarchici... del resto non piacciono neppure a me (ho ricevuto più insulti da loro che da gente di destra, perché per il semplice fatto che sono uno studente universitario sono figlio di gente ricca... peccato che ai tempi in cui venni insultato in questi termini mia madre era impiegata, mio padre operaio ed io facevo servizio civile... ma tant'è, se il loro concetto di povertà è esclusivamente il non lavorare allora è tutto chiaro).

Se veramente si volesse cambiare rotta si dovrebbe cominciare ad adottare delle strategie costruttive, che puntano ad imporsi all'interno del quadro contemporaneo a prescindere dalla demolizione di un'altra idea, di un'altra fede, di un'altra concezione. Perché è questo l'unica strada possibile per svoltare, per coinvolgere, per mettere in luce un qualcos'altro che non sia ciò che si rigetta. Del resto l'odio, tanto quanto l'indifferenza, non hanno mai portato a nulla di positivo. L'amore e l'interesse, che siano per una persona, per un'idea, per una cultura, per uno sport ed una squadra, invece sì. 

Del resto siamo tutti figli dell'amore, nato da un'interesse, suscitato dalla condivisione di un'idea, dall'apprezzare una stessa cultura, dall'essere fan di una forma d'arte, tifosi o praticanti di uno sport. Dalla polvere di ciò che invece si è distrutto ben poco può nascere, se non, come un'araba fenice, la stessa cosa che è stata demolita.  

E visto che oggi è San Valentino voglio chiudere con una canzone che mostra quanto il più bel sentimento del mondo possa dar vita a tante cose, possa metterci nella condizione di adottare determinati comportamenti, possa farci fare di tutto... e questo tutto è creare, non distruggere. Questo tutto è positivo, non negativo. 



Stefano Tortelli