lunedì 23 febbraio 2015

Canzone della sera #6 - A mia nonna


Era un lunedì 23 anche quella mattina in cui, con mio zio, stavo andando in comune ed alle pompe funebri per chiudere le ultime pratiche relative a ciò che la sera prima era successo. Spesso mi chiedo come facciano i condannati a morte ad apparire tranquilli mentre vanno incontro alla morte, che sia un patibolo, una sedia elettrica, una camera a gas. Penso non sia un condizione mentale tanto diversa da quella che ti pervade quando devi accingerti a firmare documenti, a telefonare a destra e manca, a scegliere la foto per il necrologio e la tomba, a trovare una frase per il "ricordino" quando perdi una persona fondamentale della tua vita. 

Mi ricordo bene la sera prima di quel lunedì 23: erano quasi le 9, stavo scendendo da mia nonna e mio zio, stava per cominciare la partita e mi sarei seduto con mio zio a guardarla. Era un rito del weekend, che, sebbene in altre forme, continua tutt'ora. Solo che c'era nell'aria qualcosa di diverso. Sarà perché il giorno prima aveva nevicato per la prima volta, anticipando di fatto di un mese l'avvento dell'inverno, sarà perché da un po' i weekend passati in famiglia avevano un sapore agrodolce, sarà perché ormai s'era persa la speranza. Del resto dovevo immaginarmelo, mentre ero con lei, nella sua camera, con lei distesa sul letto, già una volta l'anima aveva deciso di lasciare il corpo e farsi un giro, per poi tornare appena in tempo. Probabilmente ha voluto fare un sopralluogo, e quando si è resa conto che, sebbene ci fossi io lì, mancavano mia madre e zio, aveva deciso di procrastinare la fuga definitiva di qualche ora. Scesi la prima volta, tornai su, e mentre ancora ero sulle scale mio zio chiamò di sopra: Stefano, manda giù mamma, nonna sta male. Scendemmo entrambi, e mentre zio stava chiamando il 118 io e mamma eravamo al capezzale di nonna. Respirava malissimo, il battito era sempre più flebile, ma stranamente era lucida, dopo che, da ormai due settimane, non riconosceva più nessuno. Nemmeno me, che son stato l'ultima persona che gli era rimasta nella memoria. Magari non riconosceva mamma, non riconosceva zio, non riconosceva gli altri. Ma a mamma, a zio, agli altri chiedeva di me. "Dov'è Stefano?" "Come sta Stefano?" "E' passato Stefano oggi?". Quella sera invece ci riconobbe tutti e tre: sua figlia Luciana, suo figlio Egisto, suo nipote Stefano. Zio mise giù il telefono, entrò anche lui in stanza, ed a quel punto cominciò a lasciarsi andare. Quando racconto o scrivo di questo momento sento sempre una pressione sul gomito, e del resto è lì che è stata la sua mano destra per l'ultima volta. Mentre le accarezzavo il viso lei accarezzava il mio braccio, fino ad arrivare al gomito, per poi stringerlo. Come a dirmi di stare tranquillo, come a dirmi che sì, lei se ne stava andando, ma ci sarebbe sempre stata. In quell'accarezzare e stringere il mio braccio mi aveva trasmesso la sua ultima energia vitale, che automaticamente utilizzai per far capire a mia madre che era finita, che non aveva più senso procedere con inutili tentativi di rianimarla, che bisognava esser forti ed accettare la sconfitta. Il rilevatore del battito cardiaco aveva ormai smesso di avere una sua utilità quando tutti e tre ci stringemmo attorno al letto, ed ecco che, dopo quel momento di cordoglio, si attivò il meccanismo sopra citato: c'erano mille cose da fare, mille persone da avvertire, mille questioni da organizzare. Salii le scale ed avvisai mio padre, poi presi il cellulare di mia madre, l'agenda, e cominciai a chiamare i parenti, le colleghe di mamma, la mia ragazza, alcuni amici. Mio zio chiamò le pompe funebri, il medico e l'infermiera che veniva a casa per le medicazioni giornaliere, mentre intanto mio padre stava vicino a mia madre, che di lì a poco si sarebbe trovata anche lei nella condizione in cui già ci eravamo trovati ad essere zio ed io. Arrivarono gli zii di Torino, le pompe funebri, alcuni vicini, Caterina (l'infermiera). E poi il buio.

Dal momento di buio al funerale c'è solo un ricordo, ed è quello da cui il post è partito. Quei cinque chilometri senza dire una parola, in macchina con mio zio e la radio accesa. Cinque chilometri per cinque minuti per una canzone. Era un lunedì 23 allora, è un lunedì 23 oggi, e quella canzone si è ripresentata dalle casse dell'auto ed ha fatto riaffiorare per l'ennesima volta quel flash nel grigiore di quel mattino di novembre ancora immerso nella nebbia. "Un giorno credi di esser giusto e di essere un grande uomo, in un altro ti svegli e devi ricominciare da zero". Probabilmente nonna si era impossessata delle radio-frequenze ed ha voluto farmi arrivare un ultimo messaggio. Quel mattino, ma soprattutto quella sera, non stavo ricominciando da zero, ma ero diventato un uomo, ero diventato ciò che lei sognava che io potessi essere. Desiderava vivere fino al giorno in cui mi fossi laureato, morì prima che potessi dare il primo esame, ma fu lei, accarezzandomi il braccio e lasciando indelebile la sua firma sul mio gomito, a conferirmi la laurea di adulto, di persona in grado di gestire anche le situazioni peggiori che possono verificarsi nell'arco di una vita e di lottare per ciò che più amo, fino all'ultimo, finché ce n'è. Mi ha riservato la sua ultima carezza, il suo ultimo sguardo, ed a tutti noi, per l'ennesima volta, ha insegnato qualcosa. 

Ti chiamavi Angela, e tutto è tranne che un caso. Ti chiamavano Angela, e per me sei un angelo. Ma soprattutto eri, sei e sempre sarai mia nonna. Grazie, ancora una volta.



Stefano Tortelli

Nessun commento:

Posta un commento