martedì 17 febbraio 2015

Il destino della memoria - Mondi virtuali e cieli solcati



Ci sono dei momenti in cui mi chiedo per quali importanti avvenimenti, scoperte e progressi l’epoca in cui viviamo potrà venire ricordata nel futuro, che sia tra un secolo o tra un millennio. Partendo dall’assunto che ciò che noi conosciamo del passato, sia storico sia preistorico, non è probabilmente tutta la verità, e sicuramente non è tutto ciò che ci sarebbe da conoscere, non so quanto ai nostri successori potrà interessare la nostra epoca, e soprattutto non ho idea su che dati potrebbero basarsi per analizzarla.

Raf si chiedeva “Cosa resterà di questi anni ‘80”, decade che sotto diversi punti di vista, soprattutto quello culturale, è stata un arco temporale durante il quale c’è stato un certo rilassamento, conseguenza di tre decenni estremamente intensi e ricchi di novità in ogni ambito della vita, ma anche preludio ad un nuovo rimescolamento delle carte: caduta del muro di Berlino, apparentemente fine della Guerra fredda, implosione dell’Unione Sovietica, prime grandi tensioni tra Occidente e Oriente arabo. Tutti elementi che hanno contraddistinto gli ultimi venticinque anni sotto il punto di vista politico, che hanno portato a nuove distribuzioni della variabile potere all’interno del sistema mondo, e quindi, di riflesso, di tutte le variabili legate alla detenzione del potere.

Per una volta però voglio soffermarmi non tanto sulla questione squisitamente politica, le cui motivazioni, se l’evoluzione del pensiero dell’uomo procederà in modo lineare, giustificheranno lo scherno e lo sbigottimento con cui gli storici del futuro argomenteranno i processi che hanno portato all’attuale configurazione sociale, politica ed economica, ma su quella prettamente culturale, e non tanto su ciò che l’attuale mondo delle arti attualmente produce ma su come lo produce, ovvero in che formati. Viviamo ormai da una trentina d’anni nell’epoca della digitalizzazione, e soprattutto negli ultimi dieci si ripone nei nostri computer buona parte di ciò che noi siamo in grado di produrre: i nostri scritti, la nostra musica, le nostre fotografie occupano migliaia di terabyte di memoria virtuale, custodita in scatoline di plastica e componenti elettronici altamente instabili. Basta poco a far sì che un hard disk o una scheda di memoria non siano più fruibili: un fulmine, l’acqua, la rottura meccanica dei componenti principali. Basta una disattenzione ed ecco che si perde una quantità enorme di dati impossibili da recuperare se non si è fatta in precedenza una copia. Ho letto qualche giorno fa un articolo che ammoniva l’attuale mondo della fotografia, non tanto a livello professionale quanto a quello amatoriale ed emozionale: la fotografia come prova tangibile di un evento rischia di fare una brutta fine, perché se è vero che al momento possiamo potenzialmente fotografare ogni istante della nostra vita è anche vero che non ci prendiamo quasi più il tempo di guardare le foto fatte, figuriamoci quindi di stamparle, di renderle a tutti gli effetti oggetti reali, da toccare ed annusare oltre che vedere, da riporre in un album. E’ il tipico effetto che si ottiene quando l’estrema abbondanza di un qualcosa rende questo qualcosa di fatto inutile, o comunque di poco valore. Questo discorso si può allargare ai libri (sebbene, con estrema felicità, di ebook ne veda ben pochi in giro), alla musica (dove ormai anche l’acquisto è più comune in supporto digitale anziché analogico), alla cinematografia (perché siamo onesti, con la pirateria il concetto di blockbuster è definitivamente andato a farsi benedire), e se si aggiunge il fatto che per quanto riguarda le belle arti ci troviamo ad un punto morto è ben poca la realtà nuova che ci circonda. Per ora va bene così, nel senso che, come scrivevo prima, è sufficiente fare una copia dei dati per far sì che questi non possano venir persi (e del resto si può obiettare il discorso finora fatto portando avanti la tesi che basta un incendio a bruciare milioni di pagine, di fotografie, di quadri, di spartiti e di dischi) al primo imprevisto, ma è anche vero che, se qualcosa questi ultimi 30 anni ci hanno insegnato, l’evoluzione riguardante lo stoccaggio e la gestione dei dati è sì estremamente rapida ma anche fortemente distruttiva nei confronti del precedente sistema. Basti pensare all’incompatibilità di tanti programmi creati soltanto una decina di anni fa con i sistemi operativi attuali, basti pensare a come il compact disc abbia di fatto avuto vita breve (certo, esistono ancora, ma più per volere del consumatore che del produttore) e di come sia estremamente suscettibile al passare del tempo ed agli agenti esterni, basti pensare a come ormai sia diventata impresa eroica guardare una videocassetta. Il progresso tecnologico rischia quindi di fare tabula rasa di tutto ciò che c’era prima, proprio come la bomba atomica è in grado di fare ovunque questa cada. Inoltre, sebbene possa sembrare uno scenario apocalittico e di difficile realizzazione, credo sia molto più facile assistere ad una mondiale perdita di dati digitali nei prossimi decenni piuttosto che alla scomparsa di una grossa fetta di umanità. Il problema è che se i sistemi elettronici andassero all’improvviso in tilt (il millennium bug non si è verificato, ma credere che possa essere fantascienza l’immissione di un virus che colpisca tutti i computer del mondo sarebbe da stolti), provocando la totale perdita di dati immagazzinati, tutte le conoscenze non trascritte, stampate o trasportate su supporto analogico verrebbero cancellate, riportandoci indietro di chissà quanti decenni.

Può sembrare fantascienza, lo so, può sembrare quasi pazzia. Intanto, però, un mercato che sembrava morto sta riprendendo a girare, andando in controtendenza con l’attuale trend: è quello del vinile, che sta crescendo in maniera esponenziale, che sta di fatto rendendo immortale parecchie produzioni musicali, attuali e passate, spinto dal desiderio di avere per le mani qualcosa di tangibile, di incorruttibile, di imperdibile nei meandri della memoria virtuale, del web, degli hardware. E non è un caso che io sia voluto arrivare ai vinili. Perché quando la scienza ancora aveva un’ottica lungimirante ed aspirava non solo a conoscere ma a far conoscere, si è delegato ad un long playing estremamente particolare ed unico nel suo genere il ruolo di messaggero. Nel 1977, infatti, la Nasa, contestualmente con il programma Voyager, che consisteva nell’invio di due sonde che avevano lo scopo di oltrepassare i confini del sistema solare, ha lanciato nello spazio due dischi d’oro contenenti informazioni riguardanti l’uomo e la Terra, saluti ed alcune composizioni musicali, con l’obiettivo di lasciare una traccia incorruttibile della nostra esistenza all’esterno del nostro pianeta, con la chiara speranza che un giorno almeno uno dei due dischi possa venire intercettato da una civiltà aliena. Il nostro pianeta, quel giorno, potrebbe non esistere più, come potrebbe essere già esploso il Sole, ma, anche in questo caso, e quindi anche tra 4,5 miliardi di anni, quei dischi saranno usufruibili così come lo sono i nostri vinili.

E’ bello pensare che a quella che Schopenhauer considera la regina delle forme d’arte (in quanto trascendentale, in quanto unica e vera forma di creazione artistica) sia stato delegato il compito di mostrare ad un’altra entità intelligente chi siamo, come siamo e cosa siamo in grado di fare, altrettanto bello è realizzare che il mezzo al quale ci si è affidati risale alla fine dell’800, in barba ai cd, ai nastri, agli mp3.
Tanto che a volte mi chiedo quanto realmente serva tutta questa tecnologia apparente alla quale sempre di più ci rivolgiamo per manifestare la nostra esistenza e per percepire quella altrui…

In ogni caso, uno dei brani che al momento stanno vagando oltre il sistema solare, non sotto forma di onde radio ma inciso su un disco d’oro, è stato partorito da quello che è considerato il padre della musica moderna: Johann Sebastian Bach. Sarà un rivoluzionario a parlare di noi, in musica, agli omini grigi! 




Stefano Tortelli

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