Ci sono dei momenti in cui mi
chiedo per quali importanti avvenimenti, scoperte e progressi l’epoca in cui viviamo
potrà venire ricordata nel futuro, che sia tra un secolo o tra un millennio.
Partendo dall’assunto che ciò che noi conosciamo del passato, sia storico sia
preistorico, non è probabilmente tutta la verità, e sicuramente non è tutto ciò
che ci sarebbe da conoscere, non so quanto ai nostri successori potrà
interessare la nostra epoca, e soprattutto non ho idea su che dati potrebbero
basarsi per analizzarla.
Raf si chiedeva “Cosa resterà di
questi anni ‘80”, decade che sotto diversi punti di vista, soprattutto quello
culturale, è stata un arco temporale durante il quale c’è stato un certo
rilassamento, conseguenza di tre decenni estremamente intensi e ricchi di
novità in ogni ambito della vita, ma anche preludio ad un nuovo rimescolamento
delle carte: caduta del muro di Berlino, apparentemente fine della Guerra
fredda, implosione dell’Unione Sovietica, prime grandi tensioni tra Occidente e
Oriente arabo. Tutti elementi che hanno contraddistinto gli ultimi venticinque
anni sotto il punto di vista politico, che hanno portato a nuove distribuzioni
della variabile potere all’interno del sistema mondo, e quindi, di riflesso, di
tutte le variabili legate alla detenzione del potere.
Per una volta però voglio
soffermarmi non tanto sulla questione squisitamente politica, le cui
motivazioni, se l’evoluzione del pensiero dell’uomo procederà in modo lineare,
giustificheranno lo scherno e lo sbigottimento con cui gli storici del futuro argomenteranno
i processi che hanno portato all’attuale configurazione sociale, politica ed
economica, ma su quella prettamente culturale, e non tanto su ciò che l’attuale
mondo delle arti attualmente produce ma su come lo produce, ovvero in che
formati. Viviamo ormai da una trentina d’anni nell’epoca della
digitalizzazione, e soprattutto negli ultimi dieci si ripone nei nostri
computer buona parte di ciò che noi siamo in grado di produrre: i nostri
scritti, la nostra musica, le nostre fotografie occupano migliaia di terabyte
di memoria virtuale, custodita in scatoline di plastica e componenti elettronici
altamente instabili. Basta poco a far sì che un hard disk o una scheda di
memoria non siano più fruibili: un fulmine, l’acqua, la rottura meccanica dei
componenti principali. Basta una disattenzione ed ecco che si perde una
quantità enorme di dati impossibili da recuperare se non si è fatta in
precedenza una copia. Ho letto qualche giorno fa un articolo che ammoniva l’attuale
mondo della fotografia, non tanto a livello professionale quanto a quello
amatoriale ed emozionale: la fotografia come prova tangibile di un evento
rischia di fare una brutta fine, perché se è vero che al momento possiamo
potenzialmente fotografare ogni istante della nostra vita è anche vero che non
ci prendiamo quasi più il tempo di guardare le foto fatte, figuriamoci quindi di
stamparle, di renderle a tutti gli effetti oggetti reali, da toccare ed
annusare oltre che vedere, da riporre in un album. E’ il tipico effetto che si
ottiene quando l’estrema abbondanza di un qualcosa rende questo qualcosa di
fatto inutile, o comunque di poco valore. Questo discorso si può allargare ai
libri (sebbene, con estrema felicità, di ebook ne veda ben pochi in giro), alla
musica (dove ormai anche l’acquisto è più comune in supporto digitale anziché
analogico), alla cinematografia (perché siamo onesti, con la pirateria il
concetto di blockbuster è definitivamente andato a farsi benedire), e se si
aggiunge il fatto che per quanto riguarda le belle arti ci troviamo ad un punto
morto è ben poca la realtà nuova che ci circonda. Per ora va bene così, nel
senso che, come scrivevo prima, è sufficiente fare una copia dei dati per far
sì che questi non possano venir persi (e del resto si può obiettare il discorso
finora fatto portando avanti la tesi che basta un incendio a bruciare milioni
di pagine, di fotografie, di quadri, di spartiti e di dischi) al primo
imprevisto, ma è anche vero che, se qualcosa questi ultimi 30 anni ci hanno
insegnato, l’evoluzione riguardante lo stoccaggio e la gestione dei dati è sì estremamente
rapida ma anche fortemente distruttiva nei confronti del precedente sistema.
Basti pensare all’incompatibilità di tanti programmi creati soltanto una decina
di anni fa con i sistemi operativi attuali, basti pensare a come il compact
disc abbia di fatto avuto vita breve (certo, esistono ancora, ma più per volere
del consumatore che del produttore) e di come sia estremamente suscettibile al
passare del tempo ed agli agenti esterni, basti pensare a come ormai sia
diventata impresa eroica guardare una videocassetta. Il progresso tecnologico
rischia quindi di fare tabula rasa di tutto ciò che c’era prima, proprio come
la bomba atomica è in grado di fare ovunque questa cada. Inoltre, sebbene possa
sembrare uno scenario apocalittico e di difficile realizzazione, credo sia
molto più facile assistere ad una mondiale perdita di dati digitali nei
prossimi decenni piuttosto che alla scomparsa di una grossa fetta di umanità.
Il problema è che se i sistemi elettronici andassero all’improvviso in tilt (il
millennium bug non si è verificato, ma credere che possa essere fantascienza l’immissione
di un virus che colpisca tutti i computer del mondo sarebbe da stolti),
provocando la totale perdita di dati immagazzinati, tutte le conoscenze non
trascritte, stampate o trasportate su supporto analogico verrebbero cancellate,
riportandoci indietro di chissà quanti decenni.
Può sembrare fantascienza, lo so,
può sembrare quasi pazzia. Intanto, però, un mercato che sembrava morto sta
riprendendo a girare, andando in controtendenza con l’attuale trend: è quello
del vinile, che sta crescendo in maniera esponenziale, che sta di fatto
rendendo immortale parecchie produzioni musicali, attuali e passate, spinto dal
desiderio di avere per le mani qualcosa di tangibile, di incorruttibile, di
imperdibile nei meandri della memoria virtuale, del web, degli hardware. E non
è un caso che io sia voluto arrivare ai vinili. Perché quando la scienza ancora
aveva un’ottica lungimirante ed aspirava non solo a conoscere ma a far
conoscere, si è delegato ad un long playing estremamente particolare ed unico
nel suo genere il ruolo di messaggero. Nel 1977, infatti, la Nasa,
contestualmente con il programma Voyager, che consisteva nell’invio di due
sonde che avevano lo scopo di oltrepassare i confini del sistema solare, ha
lanciato nello spazio due dischi d’oro contenenti informazioni riguardanti l’uomo
e la Terra, saluti ed alcune composizioni musicali, con l’obiettivo di lasciare
una traccia incorruttibile della nostra esistenza all’esterno del nostro
pianeta, con la chiara speranza che un giorno almeno uno dei due dischi possa
venire intercettato da una civiltà aliena. Il nostro pianeta, quel giorno,
potrebbe non esistere più, come potrebbe essere già esploso il Sole, ma, anche
in questo caso, e quindi anche tra 4,5 miliardi di anni, quei dischi saranno
usufruibili così come lo sono i nostri vinili.
E’ bello pensare che a quella che
Schopenhauer considera la regina delle forme d’arte (in quanto trascendentale,
in quanto unica e vera forma di creazione artistica) sia stato delegato il
compito di mostrare ad un’altra entità intelligente chi siamo, come siamo e
cosa siamo in grado di fare, altrettanto bello è realizzare che il mezzo al
quale ci si è affidati risale alla fine dell’800, in barba ai cd, ai nastri,
agli mp3.
Tanto che a volte mi chiedo
quanto realmente serva tutta questa tecnologia apparente alla quale sempre di
più ci rivolgiamo per manifestare la nostra esistenza e per percepire quella
altrui…
In ogni caso, uno dei brani che
al momento stanno vagando oltre il sistema solare, non sotto forma di onde radio
ma inciso su un disco d’oro, è stato partorito da quello che è considerato il
padre della musica moderna: Johann Sebastian Bach. Sarà un rivoluzionario a
parlare di noi, in musica, agli omini grigi!
Stefano Tortelli
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