mercoledì 4 febbraio 2015

La mamma più famosa del mondo

Enola Gay Tibbets

Sono consapevole del fatto che il volto di questa anziana signora sia ben poco significativo: nella foto è sorridente, i suoi occhi semichiusi dal peso degli anni sicuramente hanno visto tante cose e tanto hanno avuto da raccontare a chi ha saputo oltrepassare le lenti degli occhiali, le pupille, le retine, a chi ha saputo scavare oltre il visibile e raccogliere i tesori che nelle orbite sono custoditi. Una persona come tante, una donna come tante, una moglie come tante, una madre come tante; ed un viso comune, che facilmente potremmo anche oggi ritrovare per le vie delle nostre città. E quella che qui è riportata è una foto in cui lei è ritratta, una sua immagine, niente di più: non sappiamo perché sta sorridendo, non sappiamo chi ha scattato la foto, non sappiamo chi le può aver regalato quella collana o quegli orecchini, e nemmeno il perché fosse così elegante in quell'occasione. Ed infine non sappiamo per cosa sia stata usata questa foto: chissà; magari, se ancora la sua lapide è a vegliare sui suoi resti, potrebbe avere proprio questa foto ad essa attaccata, per collegare ad una faccia la data di nascita, la data di morte ed il nome sui quali capeggia. 

Già, il nome. Il nome sì che è significativo, e totalmente si discosta dall'immagine di un sorriso, dall'immagine di una vita vissuta e vicina alla sua naturale fine, dalla serenità che trasmette, dalla pace che l'espressione ha spontaneamente mostrato al fotografo. Perché il nome di questa signora è Enola Gay, e questa signora è colei alla quale è stato dedicato l'aereo più famoso nella storia dell'uomo. Curiosa, tra l'altro, la storia degli aerei: nati nel 1903, con la speranza che potessero avvicinare le persone, raggiungere località remote, mettere in contatto popoli tra loro lontani, favorendo così l'aggregazione, la condivisione, la reciprocità, sono in pochi anni diventati degli angeli metallici alati della morte, portatori di distruzione, perfette "incarnazioni" della Mietitrice. Il problema è che le due righe che seguono i due punti sono solo una visione romantica e tutt'altro che inerente alla realtà, perché subito dopo il primo volo i Fratelli Wright si rivolsero all'Esercito Americano per offrire il loro brevetto a quella che sarebbe diventata l'Aviazione Americana. Che poi si siano prodotti anche aeroplani destinati al trasporto di merci e persone è tutto sommato un riflesso, un effetto collaterale, niente di più. Come Internet, d'altronde. 

L'Aviazione americana sviluppò così i suoi primi aerei da combattimento, e così fecero in pochi anni anche le altre potenze mondiali: dalla Russia alla Francia, dall'Inghilterra alla Germania, dal Giappone all'Italia. E come tutte le armi dovevano essere sempre più potenti, sempre più efficaci, la competizione tra gli Stati era serrata, ed ovviamente niente di meglio di qualche guerra poteva essere il miglior stadio per mostrare la genialità de propri ingegneri. Se poi si aggiunge allo sviluppo degli aerei quello degli esplosivi, ecco che si arriva alla signora Tibbets. Perché il velivolo americano che le fu dedicato è l'aereo che alle otto di mattina del sei agosto 1945 sganciò sulla città di Hiroshima "Little Boy", la prima bomba atomica. Enola Gay, madre del pilota, era quell'aereo; il pilota di Hiroshima era quel piccolo ragazzo. E nel comando di apertura del vano e nel conseguente sgancio della bomba si può tranquillamente veder rappresentato uno dei giorni più belli della vita di Enola, ovvero il 23 febbraio del 1915, giorno in cui diede alla luce suo figlio. Quell'aereo, nei cieli del Giappone, stava partorendo una bomba che, pochi secondi dopo, avrebbe ucciso indistintamente uomini, donne e bambini, radendo al suolo le loro case, rendendo invivibile l'intera zona circostante a causa delle radiazioni, segnando per sempre la vita di chi miracolosamente era riuscito a sopravvivere all'enorme rogo che alimentava il fungo atomico. Circa un centinaio di migliaia persone morirono all'istante o comunque per cause direttamente conducibili alla bomba, e pochi giorni dopo la stessa cosa sarebbe successa a Nagasaki, con lo stesso numero di morti, da aggiungere a quelli che altri anonimi aerei avevano causato in altre sessanta città giapponesi ed in tante altre città russe ed europee. E tutto questo tra il 1942 ed il 1945, senza andare a scomodare la miriade di civili che ha perso la vita in tutte le altre guerre portate avanti dagli Stati Uniti da dopo la guerra ad oggi. E voglio sottolinearlo nuovamente: sto parlando di civili, gente come me che sto scrivendo, gente come voi che state leggendo. E pensate, per quanto possa essere marginale, il primo obiettivo proposto per testare la bomba atomica era Kyoto, la culla della cultura giapponese, la capitale storica. L'avessero fatto avrebbero riproposto, duemila anni dopo, il gesto dei Romani di spargere il sale sulle rovine di Cartagine. 

Non sto, almeno ora, a riportare tutto il processo di avvicinamento a quel sei agosto, e nemmeno voglio accennare in questa sede tutto ciò che la questione atomica ha rappresentato per i successivi quarant'anni. Voglio solo scrivere che per gli Stati Uniti d'America, in quel momento, il Giappone non era niente di diverso dal deserto di Alamagordo nel Nuovo Messico. Una bomba all'uranio, una al plutonio, una più piccola, l'altra più grande: così, giusto per vedere che differenze potevano esserci tra queste varianti. L'unica differenza tra il deserto ed il Paese del Sol Levante sta in quei duecentomila civili che null'altro aspettavano, se non la resa del Giappone, per poter finalmente tirare un sospiro di sollievo ed impegnarsi, grazie al loro continuare ad esistere, a ricostruire la propria nazione. Però, logicamente, poter mostrare al mondo intero, e soprattutto all'Unione Sovietica, ciò che gli Stati Uniti erano in grado di fare fu una tentazione troppo forte per l'alto comando americano: noi siamo in grado di distruggere qualsiasi città, noi siamo in grado di decimare la popolazione di qualsiasi Stato, e soprattutto siamo senza scrupoli, tanto che lo facciamo su una popolazione inerme, che già si sta preparando alla resa.

Già... perché i fatti di Hiroshima e Nagasaki non hanno portato alla resa del Giappone, semplicemente ne hanno condizionato il processo: il Giappone si è arreso senza condizioni con gli USA e non siglando un armistizio con i Russi, con i quali ancora stava combattendo, con onore e in modo convenzionale, in Manciuria. Aggiungerei quindi il circa mezzo milione di soldati morti in quegli scontri al computo delle vittime delle bombe atomiche, perché se, in un'ottica puramente bellica, potevano rappresentare un prezzo da pagare, l'atto terroristico degli Stati Uniti ne ha vanificato ogni valenza militare. 

Si stima che dagli anni '40 ad oggi, in tutto il mondo, siano state sganciate più di duemila bombe atomiche. Questa volta, però, le bombe sono sì rimaste dei figli, seppur impazziti, seppur estremamente assetati di distruzione; distruzione che è stata rivolta alla loro madre, che ora non è più l'aereo che le partorisce, non è la mente che le ha create, ma la Terra, sulla quale cadono, alla quale recano danni inestimabili. 

Negli Stati Uniti dev'esserci un odio diffuso nei confronti della madre, evidentemente. Dare a quello che sarebbe diventato l'aereo più famoso del mondo il nome della propria creatrice è alquanto malato, continuare a far cadere bombe atomiche sulla Madre Terra lo è ancora di più...



Stefano Tortelli

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