mercoledì 28 gennaio 2015

"Arbeit macht frei": stermini ed alienazioni



Il 27 gennaio di settant'anni fa le truppe dell'Unione Sovietica sfondarono i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz, il più noto campo di sterminio del Terzo Reich. Insieme a Birkenau e Monowitz ha rappresentato il più grande orrore del dominio nazista in Polonia, la quale, senza volerlo, è diventata la sede della "soluzione finale". Ad Auschwitz ed in tutti i campi hanno trovato la morte milioni di ebrei, zingari, omosessuali, persone di colore, comunisti, partigiani, prigionieri politici, disabili fisici e mentali. Ma ovviamente, e giustamente, quando si parla di campi di sterminio si parla di Shoah, poiché si stima che siano stati circa sei milioni gli ebrei che sono morte tra filo spinato, camere a gas, morsi della fame, violenze, stupri e la loro totale deumanizzazione. 

Perché è questo ciò che più dovrebbe far riflettere, quando si parla di campi di sterminio nazisti: la deumanizzazione di chi veniva internato. Venivi innanzi tutto separato dalla famiglia, nel migliore dei casi quando venivi prelevato, nel peggiore (poiché a morire era la famiglia intera) durante lo smistamento tra i vari campi o tra i vari bracci dello stesso campo; in questo modo venivano negati totalmente i tuoi rapporti sociali, le tue relazioni, il tuo "essere per altri". Poi venivi spogliato di ogni tuo avere, dai vestiti alle fotografie, dai documenti ai pochi oggetti di valore che potevi avere addosso, e l'unica cosa che potevi indossare era una tuta da lavoro; in questo modo eri agli occhi di chiunque indistinguibile, anche perché i capelli ti venivano tagliati, la barba anche, e non vi era più modo di autodeterminarsi, di differenziarsi rispetto agli altri. Infine venivi privato del tuo nome, divenivi un numero, uno dei tanti. E chissà quanti si sono dimenticati, a causa delle sofferenze patite, il proprio nome, la propria storia, il proprio vissuto. 

L'uomo ha la necessità di distinguersi per, innanzi tutto, ritrovarsi giorno dopo giorno, riconoscersi, rincontrarsi, e poi per farsi ditinguere, ritrovare, riconoscere, rincontrare dagli occhi degli altri. Ma questo è stato assolutamente reso impossibile ad Auschwitz, così come negli altri campi di concentramento. E così, oltre alla violenza, all'odio, al Male, nei campi regnavano anche l'alienazione, l'annullamento. 

Solo a pensarci mi vengono i brividi, e credo che io in un contesto del genere impazzirei molto, molto in fretta. Perché in modo quasi naturale spesso, a partire dal corpo, ma senza alterarlo, mi sono trovato, da sempre, a distinguermi dagli altri: da quando ho quattro anni ho periodicamente portato i capelli lunghi, da quando mi sono spuntati i primi peli sul viso ho quasi sempre tenuto la barba, e mai ho pensato a rasarmi il petto, tanto meno le braccia o le gambe. Mi son sempre ritrovato nel mio aspetto, e spesso il mio aspetto mi ha contraddistinto in vari ambiti, rendendomi anche, in certe circostanze, ad essere oggetto di prese in giro e di scherno. Allo stesso tempo ho comunque sempre cercato di essere coerente al mio aspetto, poiché quest'ultimo dev'essere lo specchio dell'essenza. Ecco, quei milioni di detenuti dei campi di concentramento sono stati privati del loro aspetto, del loro specchio, è stata negata loro la possibilità di mostrarsi agli altri. E per gli Ebrei il discorso era già cominciato quando ancora erano "liberi", ma ghetizzati nelle grandi città europee dominate dal nazismo. Può sembrare un discorso inutile, poco importante di fronte all'orrore dei numeri a sei zeri che rappresentano le vittime della follia di Hitler. Ma si ricade nello stesso discorso: i morti sono numeri, non una lista infinita di nomi. Pensate se anziché dirvi: "durante l'egemonia nazista, in Europa sono stati perseguitati ed uccisi quindici milioni di ebrei", vi dicessero" "L'egemonia nazista, che ha perseguitato per dodici anni gli ebrei, ha portato alla morte di Aaron, Marco, François, Yvonne, Mary, Catiuscia, etc etc", e per ogni nome vi venisse raccontata la storia che quel nome ha rappresentato. Per qualche mese, per alcuni anni, per mezzo secolo. Certo, sarebbe una cosa lunga raccontare 15 milioni di storie. Ma penso ne basterebbero due o tre per capire chiaramente che piaga assurda sia stato Adolf Hitler (ed i suoi alleati italiani e spagnoli) per il mondo intero, quanto sia assurdo rievocarlo adesso, quanto sia malato il provare a giustificare i campi di concentramento richiamando gli errori di altri (leggasi foibe o gulag); perché sia chiaro, non è che se qualcun altro sbaglia automaticamente cancella il tuo errore, semplicemente mostra al mondo che anche lui ha i suoi terribili scheletri nell'armadio. 

L'alienazione è una delle più pericolose meccaniche che possa investire un uomo, una comunità, una categoria, una nazione intera. E fa strano pensare che un filosofo tedesco dell'800, George Hegel, abbia parlato di alienazione portata dal lavoro industriale, dall'impossibilità dell'operaio, una volta inserito in catena, di riconoscersi in ciò che produce. Che sia salariato come nelle fabbriche o che sia forzato, imposto, fino a renderlo causa di morte nei campi di sterminio, poco cambia. E fa ancora più strano pensare a come un assioma della filosofia del cristianesimo protestante sia stato leggermente modificato e reso il manifesto di Auschwitz: Arbeit Macht Frei, Il lavoro rende liberi. E del resto il protestantesimo ha aperto la strada proprio alla soggiogamento dell'operaio durante le rivoluzioni industriali: caro fedele, vai e spaccati la schiena sedici ore nelle fonderie, al telaio, nelle miniere; soffrirai la fame, vivrai in miseria, morirai giovane; ma tranquillo, c'è il paradiso che ti aspetta. E sempre il protestantesimo ha dato modo agli industriali di essere il più spietati possibile, perché se è vero che nella dottrina protestante si parla di non-importanza degli atti compiuti in vita, è anche vero che se quando la morte ti coglie lo fa circondata dalle tue ricchezze, il tuo posto in paradiso non solo sarà confermato, ma reso ancora più meraviglioso dagli optional che potrai "comprarti" con i tuoi tesori terreni. Roba da pazzi, no!?

E tutto ciò cosa ha portato? Ha portato a ridurre ad oggi il ricordo unanime, il cordoglio periodicizzato, lo stringersi attorno a chi ancora porta i segni di questa mattanza. Ma ci si dimentica di tutto ciò il giorno dopo, oltre a neanche rendersi conto che i segni di questa mattanza ce li abbiamo ancora ben visibili addosso. "Il fascismo è una diretta conseguenza del capitalismo", tant'è che ne abbiamo le dimostrazioni ogni giorno. Cos'è il fondamentalismo islamico? Fascismo. Cos'è l'interventismo americano in ogni zona del mondo che non accetta di sottostare alle sue leggi di mercato? Fascismo. Cos'è il massacrare psicologicamente milioni di lavoratori in Italia, costringendoli o a lavorare fino a pochi anni dalla morte naturale o mettendoli nella condizione di non lavorare mai, perché lavoro non ce n'è, o meglio non lo si vuole rendere disponibile, perché gli investimenti vanno indirizzati in settori che interessano a pochi, a volte a nessuno, anziché per sfruttare terreni fertili in grado di fornire lavoro e benessere a tutti? Fascismo (Ah già, però il fascismo in Italia ci ha dato le pensioni, "Mussolini ha scritto anche poesie" e le opere di bonifica ci hanno regalato la splendida Latina. Il fascismo ha fatto anche cose buone, già, me ne dimentico sempre, e di conseguenza è una cosa meravigliosa...).

Sfruttiamole a pieno, queste giornate di commemorazione: che sia la giornata in ricordo della Shoah, che sia la Festa dei Lavoratori, la Festa della Donna, la Festa della Liberazione. Sfruttiamole a pieno, risvegliamo i nostri interessi riguardanti le dinamiche che hanno portato alla necessità di queste giornate... forse un giorno saranno inutili, e lo spero davvero. Quando diventeranno inutili sarà perché sono stati così interiorizzati i motivi che le hanno determinate e le cause che portano avanti, che saranno un elemento innato di ognuno di noi. 

E' un po' come quando sostengo che sarebbe meraviglioso non si dovesse più parlare di pace... significherebbe che la guerra è soltanto uno spettro ormai anni luce lontano dall'attualità.


Dall'album Arbeit Macht Frei degli Area ho scelto questa canzone, dedicata al popolo palestinese, che da settant'anni, anche a causa del genocidio degli ebrei, si ritrova a vivere una condizione alquanto simile. E che faccia riflettere questa cosa, perché è un cerchio, è un effetto domino. Oggi A è carnefice e B è vittima; il giorno dopo B è carnefice e C è vittima, e così via.. spero che non si arrivi alla fine dell'alfabeto, spero non si "ripassi dal via", perché se succederà credo saranno ben poche le persone che potranno ancora testimoniarlo. 



Stefano Tortelli

lunedì 26 gennaio 2015

"A morte i razzisti", firmato: I razzisti

Questa non è l'immagine alla quale, nel post, faccio riferimento. Il "Questa si è integrata!" dovrebbe far quanto meno riflettere.



Vorrei capire i processi mentali che portano i razzisti ad essere i primi a scandalizzarsi, ad offendersi, a piagnucolare quando il razzismo viene perpetrato nei loro confronti. Dev'esserci qualcosa di malato, altrimenti non si spiega. Come non si spiega che questi strumentalizzino certe dichiarazioni per gettare fango su un'ideologia che, ed è risaputo, tutto è tranne che razzista, ma che, guarda caso, deve sempre fare ben attenzione quando certi suoi esponenti si lasciano andare a certe dichiarazioni. 

Ma facciamo un attimo di chiarezza, spiegando da cosa nascono queste mie perplessità e, soprattutto, queste assurde incoerenze (o almeno io le considero tali). Oggi è stata diffusa la notizia della morte di Dacia Valent, donna italo-somala di cinquantadue anni che per diversi anni è stata europarlamentare del PCI. Figlia di un diplomatico italiano e di una principessa somala, ha assistito all'uccisione da parte di un gruppo di neofascisti quando aveva sedici anni, portandola ad essere una fiera esponente dell'anti-razzismo in Italia, in un periodo, tra l'altro, in cui vedere persone aventi la pelle di un altro colore era cosa rara all'interno dei nostri confini, quasi folkloristica. Ciò che però l'ha avvicinata alla politica, in un periodo in cui, è DOVEROSO ricordarlo, il PCI era totalmente allo sbando, è stata la sua denuncia nei confronti dei suoi colleghi di polizia in seguito al loro mancato intervento quando venne aggredita con movente razziale: e si sa come funziona la politica d'immagine, quando qualcuno può portare voti per un gesto eclatante si fa a gara per portarlo dalla propria parte; senza andare troppo il sottile, senza capire se può davvero rappresentare gli ideali oltre che portare voti. Venne poi espulsa da Rifondazione Comunista quando andò al congresso di Alleanza Nazionale, desiderosa di diventarne esponente (ed ovviamente qui c'è qualcosa che non torna, no!?); finì poi anche in carcere, la Valent, con l'accusa di aver tentato di uccidere il suo convivente che aveva il vizio di massacrarla di botte. Infine, convertitasi all'Islam, ha fondato un movimento islamico considerato integralista, il quale, almeno dal nome, tutto mi fa pensare tranne che ad una posizione fondamentalista: Islamic Anti-Defamation League. 

In tutto ciò si è lasciata alla seguente dichiarazione shockante: "Italiani bastardi, italiani di merda. Che possano i loro figli morire nelle loro culle, o non essere mai partoriti". Scandalo, orrore!! Solo che queste sono le parole di una donna che: ha visto, come detto, uccidere il proprio fratello da dei neofascisti ITALIANI; è sicuramente venuta a conoscenza degli orrori e dei soprusi perpetrati nei confronti dei somali da parte degli italiani durante la Campagna Coloniale del Regio Impero Italiano; ha subito la discriminazione quotidianamente, dai banchi di scuola fino ai suoi stessi colleghi che anziché proteggerla hanno lasciato fare agli aggressori... tanto è una negra... 

Ma ovviamente cosa succede sul web, specchio più affidabile della natura dell'italiano medio e contenitore dei più beceri sfoghi, figli di mamma ignoranza e papà razzismo? "Brucia all'inferno, puttana!", giustificato da commenti ancora più vuoti ed assurdi, ma soprattutto partoriti da menti che, quando affonda un barcone tra le coste dell'Africa e Lampedusa, esultano, godono, vanno davanti allo specchio e si dicono: "Minchia che bel maschione italiano che sono! Mo me faccio 'na birra, alla faccia di quei negri di merda. E speriamo che ne affondino altri".

Perché sì, è uno schifo che qualcuno generalizzi, anche quando tutto sommato ci sarebbero tutte le scusanti del caso, ma ancora più schifo mi fa l'indignazione di chi fa gli stessi discorsi. Gli aggettivi son sempre gli stessi, cambiano i soggetti ai quali gli aggettivi sono rivolti, cambiano i soggetti che aprono la bocca. Ma quanti di questi hanno visto il proprio popolo massacrato, che so, dai "negri"? Nessuno. Quanti hanno visto il proprio fratello, figlio, sorella, quel che volete, ucciso perché a differenza degli assassini era italiano? Nessuno. Chi ha subito discriminazioni razziali, tra questi, da parte di gente di un colore di pelle o di una provenienza diversa? Nessuno.

Ecco dove sta il problema. Una generalizzazione, quando è a caldo, quando è figlia del dolore, quando è lo specchio di occhi che hanno visto orrore ovunque, è sbagliata ma ci può stare. Quando invece è figlia di una supposizione, ovviamente sbagliata, di superiorità solo perché la donna che ha male educato il proprio figlio è cittadina di un Paese ricco, allora è SEMPRE sbagliata, con l'aggravante del fatto che a voi, i neri, non hanno fatto niente. A voi, gli ebrei, non hanno fatto nulla, come non vi han fatto nulla gli islamici, i cinesi, i sudamericani e via dicendo. 

Solo che vi brucia il culo, dovete sfogarvi contro chi ha ancora meno voce di voi, che già poca ne avete (come poche sono le vostre palle), proprio perché sapete che nulla potrà farvi, perché è così debole, indifeso e non tutelato che potete dirgli e fargli quel che vi pare. 

Chiudo con il dire che trovo vergognoso avvicinare queste dichiarazioni al Partito Comunista Italiano, a Rifondazione Comunista ed al comunismo in genere: questa è semplice e becera strumentalizzazione da parte di chi sa di puzzare di odio e pregiudizio fino al midollo ma che accusa chi è mille volte superiore (ideologicamente parlando) a lui di aver sofferto di un attacco di aerofagia. 

Non capisco, fatico davvero, e forse sarebbe anche il caso, davanti a cotanta incoerenza, davanti a questi sfoggi di ipocrisia mista a disinformazione, approssimazione e, logicamente, una malata mentalità di destra, alzare bandiera bianca... 

Ma sin da piccolo canto "Bandiera bianca la vogliamo, no!", per cui resto fedele alla mia. Però davvero, certe volte verrebbe voglia di intonare un coro con Battiato.




Stefano Tortelli

Goodbye Demis, goodbye.






Stasera è decisamente difficile scegliere quale argomento affrontare per primo, tra la commemorazione della Shoah, le elezioni in Grecia, la morte di Dacia Valent (più per quel che ha suscitato che per il fatto in sé) e quella di Demis Roussos. Appena ho finito di fare lezione ai miei due studenti indiani sono salito in macchina, aspettando che la mia amica Sara uscisse dal laboratorio di falegnameria per fare due chiacchiere prima di andare alle rispettive case. Avevo da poco parlato con il direttore della scuola per sistemare gli ultimi dettagli riguardanti il progetto che sto seguendo e, visto che era ancora presto, ho deciso di telefonare a mia madre per informarla sia del colloquio con il dirigente sia delle mie ancora cagionevoli condizioni di salute. Stavo già pensando, nel mentre, a cosa scrivere riguardo la persecuzione degli Ebrei durante la Seconda guerra mondiale e la vittoria di Tsipras in Grecia, ma un'ultim'ora, direttamente comunicatami al telefono da mia madre ha soffiato via dalla scrivania della mia mente gli appunti riguardanti i sopracitati argomenti. Perché proprio sul finire della telefonata mi dice, con voce triste: "Ah, Ste, è morto Demis". "Chi?" "Demis Roussos". 

Sul momento, preso com'ero dal cercare di resistere ancora un po' alla bronchite e dagli altri pensieri mi sono lasciato relativamente scivolare addosso la cosa. Perché sì, lo ascolto, perché sì, ammiro la sua voce inconfondibile ed inimitabile, ma non è propriamente una colonna portante della mia vita musicale. Tornato a casa, però, mi son reso conto della portata enorme di ciò che era successo: non tanto a livello oggettivo, ma soggettivo. E vi dirò, un brivido di terrore mi ha percorso la schiena quando ho sentito dire da mia madre "E' morto...". Perché ero conscio che al novantanove per cento si stava parlando di un artista del mondo pentagrammato, e, benché la questione anagrafica sia l'ultima da tenere in considerazione in un universo fatto di eccessi e di vizi come quello musicale, la paura che si stesse parlando di Guccini o Cohen era concreta. Quella manifestazione di estremo timore mi ha fatto così capire lo stato d'animo di mia madre, mi ha permesso di immedesimarmi, di entrare nella sua testa. 

Forse lei ed io viviamo la musica in modo fin troppo viscerale, ma sarebbe alquanto ingiusto, limitativo e superficiale definire ciò in questo modo. Perché vedete, Guccini e Cohen non vanno a costituire un parallelo con Roussos soltanto per ciò che sono per me (anche perché sono fondamentali anche per mia madre); vanno a costituire un parallelo per un elemento ancora più profondo, che li rende, insieme a pochi altri ancora in vita (Pink Floyd su tutti) una sorta di eredità esistente tra lei e me. E per lei, Roussos, era l'eredità musicale dei suoi genitori, era i primi vinili comprati dal "su' babbo" per lei, era i commenti con mia nonna sulla beltà di Demis, era il cantarlo con entrambi. E prima poteva essere un gioco come tanti, poi è diventato passione, infine qualcosa di interiore, in grado di caratterizzare un ricordo di un momento, di un periodo, fino ad esserlo di una vita intera. 

Mi ha fatto tenerezza, oggi, vederla triste, in cerca di un abbraccio, e sentirla rimproverarmi con la voce tremolante quando, mentre era tra le mie braccia, le ho intonato We shall dance imitando con lei un ballo. Ed oltre a farmi tenerezza, commuovendo anche me, ha per l'ennesima volta palesato il fatto che certi cerchi sono bel lungi dal chiudersi: non è il cadere di un simbolo che annulla la sua essenza, il suo esserci stato e la possibilità che possa esserci ancora. E quindi non è con la morte di Demis Roussos che certi ricordi svaniscono. Anzi: in certe situazioni, soprattutto quando si parla di artisti che è un po' di tempo che si sono ritirati o che hanno caratterizzato un periodo della propria vita ormai lontano, la "morte del simbolo" fa in modo che tutto riaffiori. In modo più intenso, con un bagaglio di emozioni immenso. Ma con ancora tanto spazio, in questa valigia portatrice di ricordi, sensazioni, sentimenti. Basta trovare il modo di riempirla, e credo che oggi, insieme, un nuovo souvenir made in Roussos si sia aggiunto a questo bagaglio senza fondo.

Ps: Demis era un compagno greco, ha vissuto nel suo Paese la dittatura dei colonnelli ed è stato più volte censurato per il suo stile e per i suoi testi. Strano, anzi bastardo il destino che ha voluto proibirgli di veder germogliare il seme della speranza nella sua terra. Ma da una parte, forse, ha un significato recondito anche questo: forse, finalmente, il vecchio combattente Demis sa di poter riposare in pace, con la sua amata terra pronta ad indicare la strada all'Europa intera... tremila anni dopo...




Stefano Tortelli

sabato 24 gennaio 2015

Oniriche danze... nelle stanze della Signora Libertà, Signorina Anarchia, Donna Rivoluzione




I miei sogni sono da sempre molto condizionati da ciò che ho pensato, vissuto, letto, detto, visto il giorno prima. Come i sogni che, secondo Freud, sono tipici dei bambini, i miei prendono spunto dalle ultime esperienze e, come un abile regista, il mio subconscio crea spesso delle parodie alquanto pacchiane della realtà, altre volte la implementa di elementi fantastici che, tutto sommato, sarebbe bello esistessero, altre volte ancora, ma più raramente e come oggi pomeriggio (forse anche a causa della stessa influenza che mi porto avanti da ormai un mese e che puntualmente, nel weekend, si palesa in tutta la sua grandezza), con allegorie degne dei più grandi sceneggiatori di Hollywood o Cinecittà.

Domani ci saranno le elezioni in Grecia, c'è aria di cambiamento e rivoluzione, ma come riportavo nel post riguardante l'anniversario della fondazione del PCI non sono pochi i pseudo-compagni che sputano sentenze a sproposito su Tsipras e sul suo partito. "E' un prodotto del capitalismo!!!", "Partecipa a libere elezioni! Le libere elezioni sono democratiche! La democrazia è figlia del sistema capitalistico!!", "Tsipras non ha mai detto di essere comunista! I comunisti sono altri!", e puttanate varie (puttanate nel vero senso della parola, perché sotto sotto questi elementi, quando sono soli con una penna ed una scheda elettorale davanti, se va bene fanno la croce sul PD... se va bene... quindi sono prostitute, si vendono in cambio anche solo del poter dire: "Ohhh, sìììì! Ho vinto le elezioni", ma tra sé e sé, perché fuori dalla cabina elettorale loro hanno votato comunista): questi sono i commenti delle menti eccelse che bazzicano le pagine anarcomuniste di Facebook, gente che parla parla ma non ha mai fatto nulla, o che tuttalpiù ha partecipato a qualche occupazione con quelli dei centri sociali (gente che, per inciso, di comunista o anarchico ha ben poco). Solo che ripeto, alla gente piace mostrarsi migliore degli altri, anche quando gli altri sono come te, sono tuoi fratelli e tuoi compagni, sono quelli con i quali potresti fare la rivoluzione. Logicamente poi arriva il vero compagno di turno che si prende gli insulti da questi, ed arriva il secondo vero compagno a dire: "Beh, vi preoccupate dei fascisti, ma tanto a distruggerci ci pensiamo già noi". Tutte queste questioni evidentemente hanno condizionato il mio subconscio, che nel momento in cui è stato chiamato all'opera dall'emittente che mi fornisce i sogni quotidiani ha dato vita ad un'allegoria meravigliosa che ora proverò a raccontare.

Era pomeriggio, ero in compagnia. C'erano un paio di ragazze ed un paio di ragazzi, camminavamo per le strade di una grande città. Non era Torino, non era Bologna, non era Roma o Milano. Era una città immaginaria, senza nome, ma chiaramente moderna, caratterizzata da grandi palazzi, larghe strade e numerose insegne. Le strade erano però deserte, come quelle proprie di una città soggetta al coprifuoco, o come quelle che si possono percorrere durante degli eventi di portata mondiale che, ovviamente, vengono vissuti in solitudine davanti alle televisioni. In quel momento, comunque, la città era nostra, e le nostre parole rompevano il silenzio della via abbandonata dall'uomo. I nostri discorsi spesso erano confusi, ed a caratterizzarli, almeno agli inizi, erano i nostri modi di essere, il nostro abbigliamento, i nostri volti. I due ragazzi, come me, avevano i capelli lunghi e la barba, indossavano vestiti propri degli anni '70, della contestazione studentesca, delle lotte nelle piazze; le ragazze avevano sguardi intensi, capelli lunghissimi, una delle due era mulatta, l'altra europea ma con un abbigliamento tipico dell'America del Sud. Sapevamo che stava per succedere qualcosa di estremamente epocale, ne stavamo parlando, sorridevamo, ma allo stesso tempo eravamo tesi, inquieti: si era fatto tutto il possibile, ma chissà se quel possibile era sufficiente, chissà se si era lasciato comunque qualcosa di intentato. Si stava facendo buio in quella città senza nome, e la compagnia di cinque persone si era ridotta. Eravamo rimasti in tre: l'europea, uno dei due compagni ed io. Eravamo sotto casa del ragazzo: un palazzo altissimo, tipico delle periferie industriali, anonimo all'esterno ma ricco di particolari all'interno di ogni appartamento caratterizzanti la provenienza, le idee, le attitudini di chi lo abitava. Una volta salutato eravamo rimasti solo più lei ed io. I discorsi si stavano facendo sempre più fitti ed intensi, gli occhi di entrambi erano sempre più luminosi, un po' per le emozioni e la commozione, un po' perché se si crede a ciò che si dice, se ci si crede veramente, è impossibile nasconderlo: il fuoco negli occhi vale più di mille parole. Lei però era estremamente preoccupata, tesa, aveva paura. Cercavo di tranquillizzarla, ed ad un certo punto ecco che il sogno diventa un po' più chiaro: era il giorno prima delle elezioni politiche in quel luogo, lei aveva 29 anni e, se le cose fossero andate bene, sarebbe salita al potere. Una donna, under 30, primo ministro di uno Stato. La libertà, l'anarchia fatta persona era in procinto di sedere al vertice di una Nazione. Eravamo giunti davanti al portone del suo palazzo: "Non voglio rimanere sola stanotte, non voglio sognare da sola, non voglio svegliarmi da sola". Salivamo insieme le scale, ed il mio conscio, mentre ancora la pellicola del sogno si stava proiettando sulle palpebre chiuse, mi suggeriva che qui le cose stavano facendosi estremamente interessanti. Stavo per condividere il letto con la Rivoluzione, stavo per fare l'amore con il desiderio di Libertà, stavo per riposare al fianco dell'Anarchia. La Rivoluzione, la Libertà, l'Anarchia stavano per essere alla guida di una realtà europea grazie ai meccanismi propri della democrazia, grazie all'impegno di compagne e compagni, grazie all'unione e non alla divisione.
Era mattina ormai, ci eravamo rivestiti e, senza quasi aver chiuso occhio, dovevamo raggiungere il nostro futuro. La mia donna ed io eravamo pronti per quello che sarebbe stato il nostro compito per gli anni a venire: guidare i giovani, guidare il paese, renderlo un posto migliore, per tutti. Per gli studenti, per gli operai, per gli stranieri, per le donne e per gli uomini di ogni provenienza e "direzione", di ogni condizione economica e di ogni estrazione sociale. L'ansia non era poca, ma la voglia di vivere tutto questo era troppa per venire turbata dal timore.

Mi sono poi svegliato, colpito ed emozionato dal sogno. Ci ho pensato su, e ci sto pensando tutt'ora. Quella donna non mi ricordava nessuna ragazza che ho incontrato ultimamente o che ho vissuto in passato, come non ci son legami tra la ragazza mulatta ed i due ragazzi con la realtà. Ci son solo i paralleli nelle elezioni (ma in Grecia) e negli ideali, sempre presenti nella mia vita, che io stia dormendo o sia sveglio. Raccontando il sogno ho però chiaramente fatto riferimento alla personificazione della Libertà e dell'Anarchia propri di Fabrizio De André nella sua canzone "Se ti tagliassero a pezzetti". Ho però voluto aggiungere un terzo elemento in questa ragazza dubbiosa ma desiderosa di trionfare, con me al mio fianco: la Rivoluzione. E voglio sottolineare che la rivoluzione, prima di essere un aspetto collettivo, dev'essere individuale, dev'essere una spinta che parte dall'interno, dall'inconscio... dal subconscio.


Sarà per questo che si parla di sogni quando si desidera ardentemente qualcosa. E' il nostro subconscio che ci mostra la direzione, ma la strada da prendere e, soprattutto, la decisione di percorrerla o meno, è tutta qui, nel mondo reale, nella nostra volontà.

Ps: raramente parlo di anarchia, e mai mi sono considerato anarchico. Solo che, da più parti, dopo la lettura dell'ultimo post sono stato definito tale, non come insulto ma come elogio. Mi fa piacere ma, come per ogni etichetta, passo oltre, limitandomi a scrivere quel che più rispecchia il mio modo di pensare, di essere e di agire. Per rifugiarmi in un'etichetta ho una vita intera.




venerdì 23 gennaio 2015

Canzone di notte #2 - Ritorno a casa




Ci provo, davvero, a non essere monotematico in questo blog, almeno per quanto riguarda la musica proposta. In partenza la canzone che volevo proporre per spezzare il mio silenzio e sottolineare certi aspetti della radio era un'altra, quasi impossibile da sentire completamente sulle onde medie. Sto parlando di quel capolavoro che è The end dei Doors, impostasi nelle casse dell'auto appena acceso il motore. The end è la degna conclusione, l'apoteosi, l'orgasmo del primo album dei Doors, l'omonimo "The Doors" (1967), ma in quel caso si era presentata come incipit di una colonna sonora che avrebbe sorretto il mio ritorno a casa. Una colonna sonora che era in continuo divenire, composta da piacevoli sorprese ma anche da superflui intermezzi. E così a cadenzare il passaggio dalla periferia torinese alla prima cintura, e poi dalla provincia industriale a quella agricola si sono succeduti James Brown, i Blues Brothers, Syd Barrett, Lucio Battisti, ed altri che, per l'appunto, han fatto giusto da contorno. Ma su una decina di canzoni un buon sessanta per cento sono state delle autentiche chicche che solo la notte di Radio Capital poteva regalarmi. 

Poi ho imboccato la strada che dal mio paese porta alla frazione, cinque chilometri più in là, nascosti dalla nebbia fitta e resi scivolosi dal ghiaccio di gennaio. Tra un tornante e l'altro a volte la nebbia si diradava, lasciandomi intravedere un cielo magnifico, che se alle sei di sera, mentre andavo a Torino, era dominato da una luna sorridente, in quel momento era una pista cifrata, ricca di stelle che, se solo uno avesse la pazienza, chissà che disegno andrebbero a formare se solo si potessero unire con tratto di penna bianca. Sarebbe tra l'altro complicato decidere che numero dare ad ognuna, sarebbe lungo il lavoro da fare, sarebbe necessario un intero stock della Bic o chi per lei per compiere l'intero percorso. 

Mancavano ormai cinque curve per arrivare a casa, ed a sottolineare il fatto che ormai ero tornato, che il viaggio era finito, ecco la voce più familiare che il panorama musicale possa offrire le mie orecchie. E nemmeno con una canzone qualsiasi (che mi sarebbe andata benissimo comunque), ma con una di quelle canzoni che hanno proprio l'aria di casa: per come sono cantate, per come sono suonate, per la lingua che viene usata. Non l'italiano, non l'inglese, non una lingua straniera, ma il dialetto, la forma più eclatante per sottolineare la propria appartenenza ed il proprio legame con la terra che si vuol chiamare casa. 

Sto ovviamente parlando di De André, e la canzone è tratta da quella meraviglia che è Creuza de ma (1984). E il brano in questione, manco a farlo apposta, è il mio secondo preferito dopo la title-track: per il suo procedere lento, per il suo farsi sempre più intenso prima con la voce e poi, finalmente, con la musica. Sidun.

(e, se è come penso io, dato che già una volta mi era capitato di sentire Sidun su Radio Capital di notte, probabilmente subito dopo c'è stata La locomotiva di Guccini. Ma ormai il motore era spento, il freddo si stava facendo insopportabile... e poi volevo scrivere... La locomotiva posso sempre sentirmela tra poco).




Stefano Tortelli

mercoledì 21 gennaio 2015

1921 - 2015: il sol dell'avvenire, come gli eroi, è giovane e bello


Prima tessera del Partito Comunista Italiano, riproposta poi nel 1971 per il cinquantenario.




Il 21 gennaio 1921, a Livorno, alla fine del Congresso del Partito Socialista Italiano, la corrente della sinistra radicale si dissocia e da vita, con una scossa (propria della corrente), al Partito Comunista Italiano, ottenendo oltre tutto l'appoggio totale da parte della Federazione Giovanile Socialista, divenendo così la Federazione Giovanile Comunista d'Italia. Gramsci ha trent'anni, Togliatti ventotto. Berlinguer deve ancora nascere. 

A scrivere tutto questo sembra sia passata un'era geologica, invece sono "solo" novantaquattro anni. In sé per sé non ha particolare importanza sottolineare l'età di Gramsci e Togliatti quando nacque il P.C.I., come non ne ha mettere in luce il fatto che la FGSI appoggiò lo scisma divenendo così FGCI. Ma invece l'importanza è enorme, è un punto dal quale non si può prescindere, è un aspetto che non si può ignorare. La scissione di fatto non avvenne per motivazioni eclatanti, ma per differenze minime, di carattere ideologico-filosofico, per elementi che rasentano il futile. Il vero segnale, che poco si è compreso dagli anni '80 in poi, è un altro: i giovani, ed i giovanissimi, desiderarono dare uno strappo, andare oltre, schierarsi nell'estrema sinistra, adottare idee ancora più innovative. I giovani, ancora entusiasti, ancora puri, ancora vivi vollero provarci, mentre i più vecchi preferirono rimanere fermi sulle loro posizioni, vivere delle glorie del passato, senza accorgersi che nel seno del partito stava pian piano crescendo indisturbato il più grande nemico delle idee social-comuniste: un "ideale" reazionario, promosso da Benito Mussolini, che in poco tempo si sarebbe trasformato nel Partito Fascista che tutti conosciamo. Ma in quel momento preoccupavano di più i giovani leninisti che ammiravano la Presa del Palazzo d'Inverno, che vedevano in Lenin una guida perfetta per il Comunismo europeo, che sognavano un marxismo applicato in tutto e per tutto, non corrotto dalla sete di potere e dalla boria di chi poteva dirsi arrivato. Perché è curiosa la situazione dei partiti di centro-sinistra italiani: se a destra, bene o male, sanno che il nemico comune siamo noi, facendo così un fronte unitario e compattandosi nonostante le differenze, al di qua della barricata ci sono continui scontri, continue tensioni, che non possono far altro che portare alla divisione continua. Non avranno letto i trattati di Giulio Cesare, i vari leader di centro-sinistra, o se l'han letti hanno creduto di esser loro l'imperatore in questione, quando invece erano solo una delle divisioni volute, quando invece anch'essi erano sotto il potere. E c'è voluta una guerra persa in partenza per far sì, che dopo tre anni, il fronte comune nascesse dando vita al Comitato di Liberazione Nazionale. E comunque, dopo il '45, le cose sono tornate al punto di partenza. Come prima del Fascismo, come prima degli esili, come prima della persecuzione ideologica.

Ci siamo sempre sfaldati, dunque, e lo sfaldamento anziché portarci sempre più a sinistra ci ha portati sempre più al centro, fino a trovarci con correnti pseudo-democristiane all'interno del PCI, fino ad avere nel Partito Socialista gente come Cossiga, padre spirituale del rampante Berlusconi. 

Ed io dico: ma come cazzo si fa? Come è possibile? Poi guardo Facebook, leggo gli interventi degli attuali "vecchi" della politica di sinistra, da Rizzo a Ferrero passando per Vendola e capisco. Questi si sono presi la nostra bandiera, l'hanno fatta a stracci e se la sono ricucita addosso in una sartoria del centro di Milano, trasformandola in un abito da sera. Meraviglioso, per carità, ma è soltanto un vestito. E questi vestiti non sono nemmeno tutti uguali: c'è quello rosso rosso, c'è quello rossiccio, c'è quello arancio scuro (ah sì, questo è il buon Ingroia), c'è quello rosso papavero. E si odiano tra di loro, perché fanno a gara a chi ce l'ha più (g)rosso anziché dire: "Cavoli, a questa festa, a questo ballo mascherato, siamo gli unici ad aver scelto vestiti tendenti al rosso, gli altri sono blu, bianchi, neri, verde smeraldo, gialli. Beh, facciamo due chiacchiere tra di noi, vediamo se oltre al vestito c'è di più". Ma non si sono quasi mai parlati, non si sono mai confrontati, ed intanto i vestiti che hanno addosso cominciano a macchiarsi, cominciano a scolorirsi, cominciano a puzzare. A puzzare di vecchio, a puzzare di ingiurie e speculazione, a puzzare di stantio. 

Tutti loro però si infastidiscono quando sentono dire da altre parti che le loro idee sono vecchie, sorpassate, inutili. Hanno ragione ad infastidirsi, ma non hanno capito che se queste idee appaiono vecchie è perché i vecchi sono loro! Si comportano come la "vecchia mai stata moglie, senza mai figli senza più voglie": danno continui cattivi consigli ai loro seguaci, indottrinandoli e mettendoli innanzi tutto contro chi è simile a loro, contro chi è come loro. E trasmettono anche ai più giovani una strana malattia: la vecchiaia, la chiusura, l'essere reazionari. Rossi, ma reazionari. Una contraddizione assurda. E lo racconto per esperienza diretta: feci la tessera del PDCI (quello di Diliberto, per capirci... tra l'altro che fine ha fatto?) nel 2009, perché a scuola c'erano altri compagni come me e ne erano militanti. Ed appena entrato i primi discorsi che ho sentito fare non erano di costruzione, di rafforzamento del proprio partito; erano di presa in giro a ciò che faceva Rifondazione, alla inconsistenza di Sinistra Radicale o del PCL, e cose così. Tant'è che alle riunioni sono andato poco spesso, preferendo poi "sporcarmi" le mani facendo volantinaggio, informando, raccogliendo le firme per i referendum. Facendo politica. Non parlandone. 

Ed ora un po' capisco i giovani che hanno votato Movimento Cinque Stelle quando è nato. Perché tolto Grillo la maggior parte dei militanti erano giovani che avevano delle speranze, che avevano delle idee, che hanno fatto politica nel loro ambito, ritrovandosi poi catapultati in una dimensione troppo grande per loro, guidati oltre tutto da un personaggio che tutto era tranne che affine alle loro idee. Sbagliare ci sta, e non do contro né a chi l'ha votati né a chi di Grillo è andato in parlamento. Ma perseverare è diabolico. Ed è diabolico sia continuare a votare Grillo sia continuare a litigare ed ad "ammazzarci" a livello ideologico, oltre tutto usando le stesse armi: la falce ed il martello.

Bisogna ripartire dalla base, bisogna ricominciare a fare come un centinaio di anni fa. Fare politica in casa, al pub, tra amici; dare appoggio a noi giovani, confidare nella nostra voglia di fare, nella nostra candida inesperienza, nella nostra intatta purezza, nelle nostre enormi passioni. Perché siamo noi che ci stiamo giocando il futuro, ed è un futuro che nel peggiore dei casi durerà cinquant'anni, nel migliore chissà... Ma proprio perché sarà lungo abbiamo molto da perdere, ma tutto da guadagnare. Ed è quindi ora di riproporre lo scisma: lo scisma dai vecchi politicanti (che abbiano trenta o sessant'anni conta poco, lo stampo è vecchio), il riversarci nelle strade, l'issare le vele rosse, confidando nel nostro amico vento che continua a soffiare, continuando a cercare il sole dell'avvenire. Che, come noi, come gli eroi, è giovane e bello, grande e potente, intenso e vitale. 


Stefano Tortelli

domenica 18 gennaio 2015

Ritorno a scuola, ma dall'altra parte della scrivania




Domani si concretizzerà un sogno che da quando ho cominciato le medie mi ha sempre stuzzicato la fantasia, determinando in parte la scelta degli studi che sto portando avanti, condizionando anche il mio modo di essere nei confronto degli altri, e sotto certi aspetti anche la mia passione per i bambini ed i ragazzi. Da domani comincerò ad insegnare. Niente di eclatante: non è una cattedra, non è nemmeno un contratto a tempo determinato, non avrò neppure una classe. Ma non c'entra nulla, non ridimensiona affatto quello che andrò a fare, non condizionerà in alcuna maniera l'impegno che ci metterò per farlo al meglio. Saranno quattro ore a settimana, per sei settimane, di corso d'italiano per due ragazzi indiani, che a causa dell'apparente incompatibilità tra la cultura italiana e quella indiana hanno avuto non pochi problemi ad inserirsi nell'ambiente nostrano. E non è una questione di scuola, di incapacità di fornire degli stimoli da parte dei miei futuri colleghi, non è nemmeno disinteresse da parte dei due ragazzi. E' solo un ennesimo fallimento del sistema emergenziale italiano, che preferisce la cura alla prevenzione. Nelle falle del sistema succedono queste cose, e sempre nelle falle del sistema operano le persone come me, che studino o meno Comunicazione interculturale o corsi affini. 
E' un punto di partenza estremamente stimolante, che mi vedrà rientrare in una scuola, che mi farà tornare in aula. Cambia solo la prospettiva con la quale la osserverò: e se ci si pensa sarà una continua interrogazione, sarà un continuo esporre le mie conoscenze, e non sarà un voto a determinare il mio rendimento, ma l'efficacia di ciò che esporrò, del suo meraviglioso potere di trasmettere le mie conoscenze ai ragazzi. Ed ammetto che sono estremamente emozionato, perché nonostante il corso di italiano per stranieri e della mia propensione a voler condividere la mia conoscenza con gli altri, sarà comunque un qualcosa di totalmente nuovo, un'incognita, un campo minato nel quale dovrò sapermi destreggiare al meglio.

In questa mia personalissima vigilia sento il bisogno e la voglia di ricordare chi più di tutti mi ha trasmesso questa passione. Sto parlando della mia professoressa di lettere delle medie, Margherita Aimar, che non solo mi ha insegnato la maggior parte delle cose che so relative all'italiano, alla storia ed alla geografia, ma che ha saputo infondermi la passione per la conoscenza, la curiosità, il desiderio di spiccare il volo sulle ali del sapere, che possono essere grandi come l'universo se solo lo si desidera. Mi ha insegnato ad essere mai sazio, a non accontentarmi mai, a puntare sempre al massimo in barba all'invidia degli altri. Mi disse anche sebbene il dantesco "non ti curar di loro ma guarda e passa" sia un'ottima via per essere superiori, il rispondere "Perché tu queste cose non le sai?" a chi invece domanda "Perché sai queste cose?" è la cosa migliore. Si può passare per saccenti, si può passare per boriosi, ma allo stesso tempo, forse, si stimola l'altro a darsi una risposta, a migliorarsi, a farsi eventualmente spiegare ciò che non sa. Ultimamente le sto rivalutando parecchio queste parole, perché la situazione è peggiorata in questi ultimi dieci anni, perché l'ignoranza è dilagante, ed innanzi tutto questa domanda spesso me la pongo da solo: "Perché non sanno?". 

Margherita, come avevo scritto in qualche post passato, da più di due anni non c'è più. Se n'è andata nel dicembre del 2012, lasciando un vuoto enorme. Si è ammalata dopo essere andata in pensione, lasciandosi andare alla depressione, ai suoi vizi, e si sa, le malattie fanno presto ad arrivare con questi presupposti. La vidi per l'ultima volta una ventina di giorni prima che morisse, e già capii... 
Di seguito voglio riportare la mia lettera aperta a lei indirizzata, scritta il 14 dicembre del 2012, la notte prima del suo funerale. Fece male, e fece incazzare, vedere solo altre tre mie compagne, in chiesa con me.. Ma va bene così, Margherita, io ti ricordo, Stefano ti ricorda, Chiara ti ricorda... e non ci crederai, ma spesso parliamo di te...

Ciao Margherita. Ho saputo che te ne sei andata all'improvviso, come un lampo a ciel sereno che quasi abbaglia.
Mi immaginavo sarebbe successo presto, ma speravo non così presto. Speravo di poter tornare a suonare il campanello di casa tua e prendere quel té che ci eravamo promessi di bere insieme. 
Avrei voluto raccontarti tante cose, di me. Ma soprattutto di quanto sei stata importanet, per me.
Mi stupisti già il primo giorno di prima media, durante le presentazioni. Me lo ricordo ancora, era il 18 settembre del 2001, e Stefano, che era tra i primi dell'alfabeto, presentandosi disse: Io mi chiamo Stefano... subito lo fermasti e lo correggesti: No, Ambrogio. Tu non ti chiami Stefano. Tu SEI Stefano. Una correzione di forma, un dettaglio quasi ininfluente, ma che mostrava il tuo carattere, quello che era il tuo essere (che è ancora vivo in chi ti ricorda), ciò che sei stata: per te la persona, l'individuo, erano fondamentali. L'essere in sé veniva prima di come si viene considerati, "chiamati", dagli altri. E lo capii ancor di più giorno dopo giorno. Per dirne una, te ne fregavi totalmente dei voti... e forse è anche per questo che siamo sempre andati d'accordo. Capivi il mio disagio ne fare qualcosa di istituzionalizzato dalla società, con il fine di omologarci e renderci più controllabili. Fosse stato per te son sicuro che di voti non avresti mai voluti dare, ed ecco perché ce ne davi così tanti... l'abbondanza, l'opulenza, rendono le cose meno importanti, superflue.
Ed apristi totalmente gli orizzonti della mia mente: acquisii una logica ed una capacità di scrivere immense, mi portasti a fare ragionamenti così contorti da essere banali se spiegati a chiunque (del resto è un circolo, è un cerchio, qualcosa di estremamente contorto è quasi elementare...); mi mostrasti quella che poteva essere la mia strada, avevi il piacere, condiviso, di parlare con me del più e del meno, tant'è che molti intervalli ho preferito passarli con te anziché a giocare... 
Ed anche oggi non è molto cambiata la cosa: preferisco di gran lunga divertirmi con la mente, mia ed altrui, che calarmi in situazioni estemporanee che lasciano il tempo che trovano, e nelle quali mai totalmente mi sento a mio agio. E non sai quante ragazze ho conquistato grazie a te, quante persone mi stimano per i ragionamenti che TU mi hai insegnato a concepire e partorire.
Avrei voluto dirti tutto questo e molto altro, ma non ce n'è stato il tempo... Ma penso tu lo sappia, perché se c'è un'altra cosa che è da te che ho imparat è il capire al volo gli altri... anche solo con uno sguardo. ed io il 22 novembre avevo capito, vedendoti per pochi minuti, che la tua ora stava per arrivare... 
Un abbraccio enorme mia cara amica e maestra di vita quotidiana.. Verrò a trovarti presto.

Grazie davvero Margherita, domani sarai con me... più del solito.


Ti dedicai quel giorno questa canzone, la dedicai ad un'altra donna che mi ha segnato finché c'è stata e che, son sicuro, ti avrebbe adorata (tu e mia nonna eravate decisamente simili, per tante, troppe cose) e con te avrebbe chiacchierato per ore intere... questa è la vostra canzone...
Ora preparo la cartella, che domani devo andare a scuola. 


Stefano Tortelli

Riflessioni su "L'arte d'amare" di Erich Fromm




Ieri sera avevo preannunciato che i post sul tema amore-politica sarebbero stati due, e benché contassi di scrivere le prossime righe ieri stesso, mi trovo a farlo ora. Il tutto verterà principalmente su un libro che lessi circa un anno fa ed alcune mie riflessioni sull'amore, sul suo manifestarsi, sulla sua natura, ed anche sul suo apparente finire. In verità, superficialmente, di politica qui ce n'è poca, in quanto il discorso sarà più sulle meccaniche individuali o comunque circoscritte, ma è la natura del libro in sé e tutte le varie mie considerazioni ad esso relative che avvicinano alla politica ciò che seguirà.

L'amore, nella sua forma matura, implica fede, attività, umiltà, coraggio, ed è l'unica risposta veramente sana alle contraddizioni dell'esistenza umana. In questo volumetto, Erich Fromm, forse il massimo esponente dei post-freudiani, illustra, nella teoria e nella pratica, un'arte dell'amore, il modo in cui si può apprendere tale arte, l'infinita pazienza e l'incessante pratica attiva che, come tutte le arti, esige che l'amore non sia frainteso e scambiato per qualche oggetto da barattarsi al supermercato delle merci o dei simboli di prestigio della nostra civiltà, la quale, del resto, non potrebbe sopravvivere un giorno di più senza l'amore: questo è ciò che è riportato sulla quarta di copertina dell'edizione "Il saggiatore" (1963) de "L'arte d'amare. E' possibile l'amore nella civiltà repressiva?", che presenta e sintetizza alla perfezione il contenuto di questo volumetto che supera di poco le 150 pagine. E' una lettura breve ma estremamente intensa, ricca di spunti di riflessione. Mi ricordo i giorni in cui lo lessi: era difficile, in certi punti, andare avanti senza che mi venisse il groppo in gola dalla commozione, da ricondurre principalmente a due fattori. Innanzi tutto era per me un'emozione enorme ritrovarmi a leggere concetti e riflessioni che molto rispecchiavano la mia conoscenza teorica e l'applicazione pratica dell'argomento, soprattutto dopo due anni di volontaria autoanalisi sul tema. Perché dopo circa sei anni passati ad innamorare ed innamorarmi con estrema facilità, anteponendo sempre la Lei di turno a tutto il resto e mettendo così a rischio amicizie, rapporti con genitori e parenti ed anche la mia salute psico-fisica, avevo sentito la necessità di staccare la spina per un po', concedendomi eventualmente qualcosa di passeggero (cosa che non sono evidentemente in grado di fare, perché anche quando ce n'è stata la possibilità l'ho dopo poco rifiutata, per non prendere e per non prendermi in giro). Di conseguenza ritrovare la mia autoanalisi racchiusa in un libro di sessant'anni prima rappresentò qualcosa di meraviglioso per me, era come ripercorrere quei 20 mesi parola dopo parola. E poi a farmi arrivare al punto di chiudere il libro in un bar per non commuovermi davanti al resto delle persone era l'abilità di Fromm (e del traduttore) di passare da un argomento all'altro con estrema disinvoltura, creando una rete di collegamenti fittissima ma estremamente perfetta ed inequivocabile, cosa che ho sempre cercato di fare anche io, sebbene con risultati alterni. 

Ora, lungi da me fare un'analisi del testo in questione, perché tutto sarebbe tranne che oggettiva, perché non rispecchierebbe il significato in primis dell'autore, e probabilmente nemmeno di molti altri che l'hanno letto. Perciò voglio dargli un'interpretazione, sfruttando miei pensieri scaturiti prima di leggerlo (di alcune cose ne parlavo anche alle superiori con la mia ragazza d'allora), altri nati leggendolo, altri ancora frutto di discorsi che l'hanno riguardato direttamente o indirettamente, fatti con la persona della quale mi sono innamorato durante e dopo la lettura ed anche recenti, ora che questo amore ha perso ogni sua espressione tangibile. 

Innanzi tutto sarebbe da comprendere cosa sia l'amore. Fromm lo suddivide in diverse categorie, che se analizzate profondamente mostrano il loro essere un blocco monolitico, che presenta differenze sì importanti ma non discriminanti. Parte dall'amore per se stessi, condizione fondamentale per poter provarlo verso l'esterno: quante volte abbiamo sentito dire che per stare bene con gli altri bisogna stare innanzi tutto bene con se stessi? Il paradosso è che invece ai più viene molto più semplice delegare agli altri il compito di farci stare bene, di amarci, di metterci nella condizione di dire, a posteriori, di stare bene con se stessi. Niente di più falso: non sono gli amici che possono darci i mezzi per amare noi stessi, non lo sono i partner, non lo è Dio, non lo sono i genitori. Noi siamo gli unici a dover dar vita ai meccanismi che ci possano permettere di sentirci bene con noi stessi; altrimenti è un grosso problema, altrimenti si arriva a fraintendimenti, altrimenti ci si mette nella condizione di distruggerci o distruggere chi ha provato a sostituirsi a noi stessi in questo compito. E scrivendo ciò mi viene da pensare a quante persone hanno dedicato "La cura" di Franco Battiato alla persona che amano. E sono due le riflessioni che ne derivano: una, è quanto veramente questo desiderio di curare non celi un bisogno di essere curati, mettendo in pratica un meccanismo alquanto complesso che promuove il bisogno di curare per curare se stessi, e quindi gratificarsi (un egoismo alquanto mascherato, ma sempre egoismo è... penso ad esempio a chi vive con eccessivo zelo il proprio rapporto con gli animali, paventando estreme carenze in quello che è invece il rapporto con gli umani... e casualmente i cani ed i gatti che sono oggetto di questo amore tutto sono tranne che equilibrati, ma meglio soprassedere); l'altra, è l'automatico porsi al di sopra della persona alla quale si dedica questa canzone, palesandone tutte le debolezze e l'inferiorità psichica ed ergendosi al ruolo di medico, di infermiere, di esperto in materia, quando invece, nella maggior parte dei casi, si tenta di costruire un qualcosa che possa dar vita ad un meccanismo di dipendenza attraverso il quale chi si convince di essere la parte debole necessita di quella apparentemente forte... solo che poi, finita la relazione, la realtà viene a galla, ed il medico non ne esce più, perché nel curare si è dimenticato di imparare come farlo, in primis, con se stesso. Ci sarebbe poi da aggiungere un dettaglio non irrilevante: Battiato ha scritto questa canzone non per la persona che amava, non per la madre, non per una sorella in difficoltà, e nemmeno per un'amica; Battiato, La cura, l'ha scritta per se stesso, l'ha scritta per la sua anima. Personalmente, preferisco di gran lunga dedicare "E ti vengo a cercare": molto più umile, molto più vera, ma soprattutto paritaria. 

E quindi, amando se stessi, si può realmente amare tutto il resto. Spesso mi è stato detto che sono egocentrico, ricco di autostima, che mi sopravvaluto, e cose così. Forse hanno ragione, forse in questo c'è anche un'ammissione di stima estremamente celata. Io mi limito a dire che sì, ho autostima. Ma autostima cosa significa? Autostima significa stimare se stessi, di conseguenza essere consapevoli di se stessi, sapersi dare un valore coerente a quello che si è. Autostima significa sapere da dove si parte, che basi si ha per poter eventualmente migliorare. Ed autostimarsi, darsi il giusto valore, implica un amarsi, sottintende un tenere al proprio essere. Ed eventualmente, se non ci si va bene come si è, impegnarsi a migliorarsi. Solo che è un concetto difficile da spiegare, bisogna sentirselo dentro, bisogna soprattutto imparare a covarlo per poi farlo proprio una volta uscito dall'uovo. Ed è necessario, altrimenti ci si frega e si frega chi ci circonda (diffidare dei falsi umili è una delle cose che mi hanno insegnato i miei genitori, ed hanno ragione, hanno assolutamente ragione). Ma, supponendo anche che possano aver ragione loro, a questo punto mi chiedo perché un altrettanto numero di persone abbiano desiderato sottolineare, anche solo dopo poche ore dall'avermi conosciuto, che sono una delle persone più intense che abbiano incontrato, se non la più intensa. C'è anche chi ha ammesso che mai sarebbe stato in grado di trovare tutto ciò che io racchiudo in una sola persona, ma tant'è, evidentemente non è sufficiente, e va bene così.

E qui si arriva alla parte finale del libro, alla disintegrazione dell'amore nella società moderna. Sul post riguardante la bellezza ho implicitamente trasportato dall'amore a, per l'appunto, la bellezza, concetti propri di quest'ultima parte del libro, ma per quanto riguarda l'amore il discorso è ben più complicato, ed onestamente mi infastidisce molto di più. Perché ormai l'amore vero è assoggettato a mille altre questioni che possono martoriarlo, cessarne la sua espressione (ma non la sua esistenza, tra l'altro più da parte di chi ha lasciato o evitato che da parte di chi è stato lasciato o è stato evitato), addirittura portare a credere che l'amore non esiste. L'amore invece esiste, resiste, solo che spesso viene scambiato per altro, solo che altro spesso viene scambiato per amore. Come è riportato in quelle righe di presentazione del libro, sono tempi di crisi per l'amore, e se sessant'anni fa erano teorizzabili ed appena percepibili, ora credo che chiunque possa rendersene conto. L'amore è schiavo del denaro, è schiavo della convenienza, è schiavo della paura di spiccare il volo sulle sue ali, è schiavo delle catene dettate da ciò che ci circonda o ci ha circondato. Ed ogni scusa è buona per rifiutarlo, in nome di altre cose che sono apparentemente più importanti, più necessarie, che hanno la priorità. Solo che poi, a conti fatti, senza l'amore non si va da nessuna parte. Tutti vogliono amare, ma troppi lo rigettano quando si presenta nella sua forma più limpida, meno corrotta, più autentica. Sarà che ormai ci si è convinti che può esistere solo nelle canzoni e nei romanzi... ma voglio dirvi una cosa: ciò che si può cantare o scrivere come minimo è immaginabile; e tutto sono le canzoni d'amore o i romanzi che lo glorificano, ma sicuramente non fantasia. 

L'amore c'è, l'amore esiste, l'amore è ovunque. L'importante è amare se stessi e volersi donare a chi ama se stesso a sua volta, l'importante è unire questi due amori in una sola cosa. L'amore puro esiste, gente, non abbiate paura che sia morto. E' come il comunismo: se ci si convince che può tornare a splendere del suo rosso più intenso, e ci si convince in tanti che può essere così, allora tornerà a trionfare, senza corruzione, senza limiti, senza interferenze. 

E poi venitemi a dire che il rosso non è un colore meraviglioso...

Dato che l'ho citata, e dato che Battiato ancora non è entrato nella playlist del blog, voglio mettere come sottofondo E ti vengo a cercare, nella versione in compartecipazione con i CSI. Continuo a cercarti, Amore, in qualche modo, che sia in sogno o che sia nella realtà, dietro un angolo della strada o su appuntamento, ti troverò. O mi troverai. L'importante è che continuiamo a cercarci, prima o poi ci (ri)troveremo.


Stefano Tortelli

sabato 17 gennaio 2015

Red is the colour - L'arte della lotta, l'arte dell'amare

Nilde Iotti e Palmiro Togliatti: compagni di lotta, compagni di vita. 



Attenzione, allontanate dal computer i fascisti, distraete i capitalisti. Questo post ed il prossimo andranno a toccare tematiche a loro sconosciute poiché le temono più d'ogni altra cosa al mondo: i prossimi due post saranno a luci rosse! Rosse d'amore, rosse di passione, rosse di emozione, rosse di lotta. 

Avevo già parlato del Rosso colore, del suo ruolo fondamentale nella mia vita, sviscerandone ogni sua sfumatura, attribuendo ad ognuna di esse un particolare ruolo nella mia quotidianità. Voglio però ora soffermarmi sui due elementi portanti, che tanto possono sembrare lontani a prima vista ma che, con un piccolo sforzo, possono sovrascriversi, mischiarsi, unificarsi: il rosso dell'amore ed il rosso della politica. Lo so, sono quasi bitematico, ma leggendo dall'inizio questo blog è possibile capire, senza leggere questo post, quanto tutto sia strettamente correlato, fortemente interdipendente, estremamente destinato a dar vita ad un circolo virtuoso (se ben applicato, se alimentato da una coerenza di fondo). 

Più volte ho citato artisti come De André, Guccini, Finardi e Bertoli, ed anzi, ad ognuno di loro ho dedicato un intero post, sottolineando di tutti e quattro (e ciò vale per tanti altri artisti a me cari) la loro estrema intensità, la loro estrema passione, la loro irriducibile capacità di emozionare, che si parli di amore o di politica. Io sono un aspirante sociologo, oltre che, a detta di molti, un poliedrico artista (c'è chi mi ha dato del poeta maledetto, chi mi reputa un musicista/cantante, chi un abile parlatore, chi un inconsapevole profeta; a scanso di equivoci, ringrazio ed allo stesso tempo mi dissocio, limitandomi a dire che cerco di esprimermi al massimo delle mie possibilità, percorrendo le strade che meglio conosco per farlo), ed alla luce di ciò mi trovo a rimbalzare da una parte all'altra: sono sì il soggetto che cerca di analizzare, ma anche l'oggetto dell'analisi. Che poi, se ci penso un attimo, ogni cantautore, ogni poeta, ogni scrittore ha in sé l'arte della sociologia: per scrivere un componimento, soprattutto se analitico, bisogna avere le capacità di vedere ciò che attorno succede, e questo vale anche per un pittore che dipinge un quadro, tanto più se astratto, quindi bene o male questo doppio ruolo non è poi così assurdo. Da sociologo, in ogni caso, mi son ritrovato più volte a cercare di capire come possano coesistere l'intensità nel parlare d'amore e l'intensità nel parlare di lotta, di politica, di riscatto, proprie dei cantautori sopracitati, e che si può allargare anche a scrittori come Pasolini e Tondelli, a psicologi e sociologi come Lorenz (che, tra l'altro, è soprattutto conosciuto per essere stato premio Nobel per la medicina) e Fromm.

A dirla tutta una spiegazione totale non sono mai riuscito a trovarla, e forse è anche un bene così, ma credo che alla base di tutto ci sia sostanzialmente una forte passione, una forte capacità di emozionarsi, oltre ad un'enorme empatia, una inestimabile voglia di condivisione, di puntare al massimo, di esaltare la propria condizione, senza isolarsi ma, anzi, vivendo sempre più in mezzo alla gente, amandola e scrivendola, stimolandola e cantandola, respirandola e parlandoci assieme. Perché prima di tutto, prima di ogni specializzazione dovuta all'aver cavalcato i propri talenti e le proprie passioni, ognuno di loro è stato un individuo ricco di energia e di voglia di dare, prima che di ricevere, consapevole di quanto sia difficile mettere tutto ciò in pratica nel fare quotidiano in un mondo dove ci si chiude sempre di più in casa, ci si proibisce il confronto, ci si limita sicuramente le incazzature, ma per contro anche i grandi piaceri scemano. Ed allora l'unico modo era entrare nelle case: attraverso i libri, attraverso le radio, con teorie valide che finiscono sui giornali, con poesie da dedicare e da ricevere. Ed a questo punto diventa anche complicato capire cosa ci sia alla base e cosa sia venuto dopo: è nato prima lo spirito di lotta o quello dell'amore, espressi entrambi attraverso la propria arte? C'è chi come De André ha sottolineato come mai si sarebbe sognato di scrivere un album politico, commentando l'uscita di Storia di un impiegato... dimenticandosi però che tutto ciò che aveva pubblicato prima era politico allo stesso modo, da La buona novella a Non al denaro non all'amore né al cielo passando per Tutti morimmo a stento e canzoni come Carlo Martello o La ballata dell'eroe; Finardi ha cominciato come cantautore impegnato per poi scrivere canzoni d'amore meravigliose come Un uomo, Patrizia ed Amore diverso; Guccini ha sempre fatto convivere questi elementi, a partire da Folk Beat n.1, dove convivevano nello stesso album canzoni d'amore e canzoni di protesta; Bertoli addirittura si è trovato a scrivere una canzone intitolata Per te nella quale affermava come nel suo cantare di lotta cantava anche di amore, e di amore non in generale ma per la persona che amava. 

Quindi capire quale sia Adamo e quale sia Eva, tra il rosso dell'amore e il rosso della politica, è un gran casino. Certo è che se c'è uno dei due elementi prevaricante sull'altro, il secondo non è più debole, solo è nella penombra, pronto a colpire quando meno ce lo si aspetta. Ed è anche un po' il meccanismo che mi ha portato ad avvicinare ed ad avvicinarmi, ad innamorare ed ad innamorarmi, salvo poi trovarmi incapace di essere efficace in entrambe le sfere nel momento in cui quella dell'amore cominciava ad assomigliare ad un uovo, subendo le pressioni interne ed esterne alla coppia, alla Lei, all'Io di quel momento. 

Però di una cosa sono consapevole: so di aver lasciato un segno in ogni persona che con me è stata coprotagonista di una relazione, ma anche di un'amicizia, che ora è andata perduta, o che, soprattutto per quanto riguarda le relazioni, non si è mai potuta realmente vivere. Scrissi una canzone tempo fa che faceva leva soprattutto su questo: bisogna saper lasciare il segno sulla terra, incidere il proprio nome nel cuore di una persona, sopravvivere nelle memorie altrui. Tutto il resto conta poco, tutto il resto è un avere o un aver avuto. Ma l'aver lasciato, l'aver segnato, l'essere quindi stato, è lo scopo fondamentale di ogni esistenza. Ed è l'obiettivo primario della mia. 

A riassumere tutto questo voglio postare una canzone che sviscera con estrema semplicità, la quale viaggia a pari passo con l'intensità, questo mio lungo discorso: è un brano di Fausto Amodei, cantautore molto famoso in Piemonte che si è sempre schierato in prima linea durante le lotte operaie e studentesche degli anni '70 e che, ancora oggi, continua a lottare (cambiano i nemici, ma la necessità della lotta è sempre attuale)... allo stesso tempo ha saputo scrivere questa canzone d'amore meravigliosa. Una prova in più alla mia tesi, un'ulteriore conferma che l'amore è amare, ma anche lottare. Del resto il plurale di lottare è lottiamo, di resistere è resistiamo... anche l'italiano è dalla mia parte! 



Stefano Tortelli

venerdì 16 gennaio 2015

Coherence, where art thou?




Mi risulta sempre più difficile capire i meccanismi attraverso i quali le persone analizzano e giudicano ciò che attorno a loro accade. O meglio, diventa sempre più difficile notare un filo conduttore tra un'epifania e l'altra di una data persona, che sia un amico, un conoscente, un politico, un docente, ed ho come l'impressione che siamo solo all'inizio, che tutto questo non potrà che peggiorare. Anche perché spesso chi ha questo bel vizio di lasciarsi sballottare dai venti mediatici è anche il primo a volersi affibbiare un'etichetta, che sia questa politica, ideologica, religiosa, auto-proclamandosi esponente di un dato modo di pensare, stravolgendone così il reale significato, annacquandolo, distorcendolo, fino a distruggerlo. Ed è un po' il principio attraverso il quale, dopo la morte di Berlinguer, c'è stata un'enorme confusione nello schieramento comunista; confusione che si è poi trasformata in caos, evolutosi in distruzione, manifestandosi poi nella definitiva eliminazione. E non c'è da stupirsi che sia andata così, e non c'è da cercare colpevoli all'infuori del PCI: nei miei anni di analisi dei processi comportamentali, sia in dimensione macrosociale sia in dimensione microsociale (anche solo analizzando me stesso o un singolo individuo), ho notato che quasi sempre non si può parlare di esplosione provocata da agenti esterni, ma che si deve parlare di implosione, di autodistruzione. O, se proprio si vuole scaricare la responsabilità all'esterno, beh, l'esterno spesso è il prodotto del nostro agire, o dell'agire della nostra comunità, del gruppo d'appartenenza al quale ci sentiamo legati (la famiglia, la coppia, il sistema universitario, la Nazione). C'è poco da fare, e gli eventi sismici ne sono il più grande esempio nella natura (e non per nulla i terremoti vengono spesso usati nelle metafore: la lingua, soprattutto quella italiana, tutto è tranne che illogica): se c'è un forte terremoto a cadere per prime sono le costruzioni più fragili, che possono anche esser state appena costruite, ma se si risparmia sul materiale e sulla qualità del lavoro, il destino è segnato... si da poi la colpa al terremoto, ma intanto le chiese di 600 anni rimangono in piedi, chissà perché...

Questa introduzione è giustificata dal fatto che sempre più trovo incoerenza ed estrema facilità nello slegarsi da quelli che si professano come i propri ideali di riferimento, ed è una condizione alquanto bipartisan ma che ovviamente nella sinistra mi da estremamente fastidio (ed è per questo che ho voluto portare avanti l'esempio del PCI, ma volendo potevo parlare del PDL, del Fascismo, della monarchia francese). Teoricamente dovremmo essere quelli lucidi e razionali che sanno incanalare le proprie emozioni per dar vita ad un modo di agire estremamente propositivo, positivo e rivoluzionario, ma invece mi trovo ad assistere ad un disperdersi di questo processo, oltre che ad un suo rallentarsi, oltre che ad un suo rendersi sempre più raro. 

Ed un'altra volta il tutto si è palesato con la totale incoerenza che ci è stata nel reagire prima alla morte dei compagni di Charlie Hebdo e poi alla liberazione delle due volontarie che erano state rapite in Siria. In pochi si scandalizzano nello scoprire che Charlie Hebdo ha visto centuplicarsi il numero di abbonati dopo l'attentato subito, in tanti si scandalizzano nello scoprire che sono stati pagati 12 milioni di dollari come riscatto per le due ragazze. E mi chiedo come possano coesistere queste due reazioni nello stesso individuo. "Ecco, con quei 12 milioni ora i terroristi potranno comprare nuove armi", "Chi ha chiesto loro di andare in Siria? Sapevano i rischi che correvano", "Ma poi siamo sicuri che non fossero collaborazioniste anziché volontarie andate là per aiutare i profughi?". Sticazzi, gente! Sticazzi! O meglio, io posso accettare questi discorsi da chi prende posto dall'altra parte della barricata, ma da voi proprio no. Anche perché non più di qualche anno fa piangevate Arrigoni, ucciso in Palestina dagli Israeliani mentre, anche lui, si prodigava nell'assistere i più deboli, quelli in difficoltà, quelli che erano rimasti senza nulla, che fossero arabi od ebrei. A lui chi l'ha fatto fare? Lui non era consapevole dei rischi che avrebbe potuto correre? E fosse stato rapito, cosa avreste detto? Come allo stesso tempo mi chiedo: se queste due ragazze fossero state uccise ci scommetto le palle che le avreste piante, dicendo: "Ecco, lo Stato non ha fatto nulla per aiutarle". Ragazzi, veramente, curatevi, fate pace con il vostro cervello, aspettate un attimo a scrivere o parlare, ragionate su come avete agito in situazioni analoghe, perché altrimenti si mette veramente male. Per voi, per noi, per le nostre idee. Perché nella vostra incoerenza si manifesta la mancanza di credibilità, ed a quel punto c'è poco da stupirsi se la gente vota Cinque Stelle o PD. Ed onestamente, alla luce di certi discorsi che fate, io come posso fidarmi quando dite: "I partigiani sono stati degli eroi"... perché seguendo un ragionamento logico, anche a loro nessuno ha chiesto di armarsi contro il nazi-fascismo e liberare l'Italia. Come non è stato chiesto a Che Guevara di fare rivoluzioni in mezzo mondo, come non è stato chiesto ai bolscevichi di dar vita alla Rivoluzione d'Ottobre. 

Siete incoerenti, oltre ad essere dei politicanti da tastiera, dei radical chic che "Sìsì, facciamo la rivoluzione, ma vediamo di non sporcarci le mani", perché per l'appunto, se ragionate così, nel momento in cui vi troverete con le mani sporche vi chiederete "Ma chi me l'ha fatto fare?" e ve ne tornerete a casa, vi laverete biblicamente le mani e pace, potrete sempre giustificarlo come un errore di gioventù. 
Però davvero, così non andiamo da nessuna parte. E non sorprendetevi se continuiamo, dopo essere stato il Paese occidentale con il più grande partito comunista a non avere un punto di riferimento unitario che sia in grado, anche solo lontanamente, di riempire quel vuoto lasciato dai grandi padri di nome Gramsci, Togliatti e Berlinguer. Perché in molti, probabilmente, se ne vedranno bene prima di raccogliere questa patata bollente rappresentata dalla vostra estrema confusione, dal vostro estremo lasciarvi traviare, dalla vostra inestimabile incoerenza.

Voi, voi siete quelli del "Prendiamo tempo e non vediamo l'ora". Ma l'ora davvero non la vedete, e quella formula sta perdendo ogni suo significato più profondo, la state facendo valere per quello che grammaticalmente è. E non credo di meritarmelo, non credo se lo meritino i giovani compagni che si stanno avvicinando alla vita politica, non credo se lo meritino le idee che vogliamo rappresentare... e non credo che nemmeno voi ve lo meritiate. Però ora è tempo di aprire gli occhi, le orecchie e la bocca, e farlo consapevolmente, quotidianamente, in ogni gesto, in ogni tipo di relazione che instaurate, in ogni momento delle vostre giornate. E soprattutto con coerenza, e soprattutto non confondendo le idee con i vostri istinti. 

Poi fate come volete. Ma sono stanco di sentire lamenti inutili. La possibilità di prendere ciò che stiamo desiderando c'è, perciò allunghiamo la mano e facciamo nostro l'oggetto del desiderio, senza rifugiarci nei famosi "Vorrei ma non posso". Queste cose lasciamole a chi vuol soltanto sopravvivere.


Ed a proposito del "Prendere tempo e non vedere l'ora", voglio postare questa canzone che contiene il verso da me riportato, scritta da chi è sempre stato coerente, fedele alla linea. E dedicata a chi è come loro, ma che ora non c'è più 


Stefano Tortelli

lunedì 12 gennaio 2015

Canzone della sera #5 - Meravigliosa Janis




Ed a proposito di bellezza, voglio con voi condividere una canzone che, ogni volta che la sento, mi travolge totalmente. E' uno di quei pezzi di Janis Joplin che è rimasto un po' offuscato dall'enorme successo di brani come Piece of my heart, Mercedes Benz e delle sue interpretazioni di Me and Bobby McGee e Summertime, ma che più dei sopracitati incarna l'essenza di questa meravigliosa artista. Che, per i canoni di bellezza esteriore odierni, non è considerata bella, ma trovatela un'altra anima così intensa ed in grado di provare e donare emozioni così forti.
Questa è una canzone di estrema sofferenza, una canzone della quale giusto per sfizio ho voluto leggere il testo, dato che si evince semplicemente dall'interpretazione ciò che quelle parole significano. Una canzone di estrema sofferenza, di estrema rabbia, di totale sconforto. Uno sfogo indomabile. Tempo fa usai questa canzone come perfetta esemplificazione del verso meno famoso dell'ultima strofa di Via del campo di Fabrizio De André: "piangi forte se non ti sente (l'amore ndr)". Credo sia la miglior recensione possibile per questo brano. 

Ad avercene, comunque, di donne "brutte" come lei.. ci troveremmo a vivere in un mondo meraviglioso, emozionante, estremamente intenso, traboccante di passione. 



Stefano Tortelli

La disintegrazione dei significati - Bellezza 2.0



Butta male, gente. Butta decisamente male. 

E credo che alla base di tutto ciò ci sia, per l'ennesima volta, l'incapacità totale di comunicare. Ci è stata imposta, non c'è dubbio, ma non si può considerare questa una giustificazione. Un seme, per crescere, deve trovare terreno fertile; un amore, per nascere, deve essere corrisposto; per dar la vita bisogna essere in due. E quindi se un certo modus vivendi et operandi ha avuto così successo vuol dire che la colpa è stata anche nostra. Soprattutto nostra. Li abbiamo lasciati fare, ci siamo lasciati affascinare, abbiamo voluto credere.

Ma alla fine ci hanno preso tutto. E non sto parlando di beni materiali, poiché anche la necessità di possedere ci è stata inculcata. Tolti il cibo, l'acqua, un tetto e dei vestiti, ben poche altre cose sono realmente fondamentali (e non per niente, teoricamente, sono diritti inalienabili di ogni individuo). Io parlo invece della nostra essenza, della nostra capacità comunicativa, della curiosità, della sete di sapere, della fame di conoscenza. "Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza", ma forse le cose sono cambiate dai tempi di Dante. Solo che mi rendo conto che ormai manca la capacità di riconoscere il bello, il buono, il giusto, il vero, ed anche il saper definire in modo appropriato ciò che ci circonda, di conoscerne ed interpretarne il significato. 

E' in questo, più che in ogni altra cosa, che stanno vincendo loro. Ma soprattutto è stata la prima battaglia che hanno intrapreso, dalla quale scaturiscono poi tutte le altre. E ci ritroviamo sì, ora, a viver come bruti. Profumati, con i soldi in tasca, vestiti dai più famosi stilisti e marchi, con sotto il culo l'ultimo modello di automobile e con la speranza di una bella donna o un bell'uomo al nostro fianco, anch'esso con il portafoglio pieno, e possibilmente più del nostro, perché sì, abbiamo, ma poter avere di più ed in cambio del nostro "amore" (dio, mi sento uno schifo a scriverlo in questo contesto) fa sempre comodo, non si sa mai come vanno le cose, ed un buon paracadute è sempre ben accetto. Anche perché è gratis, cosa si può volere di più? 

Il problema è che l'uomo comune vuole continuamente, vuole di più: l'uomo comune accumula, ammassa, lascia ad impolverarsi oggetti, persone, amori, passioni, consapevole che tanto basta soffiarci sopra per riprenderli quando se ne sente la necessità. Ma solitamente non succede, restano lì, ad occupare spazio e lasciandone sempre meno, e quindi "donandogli" l'esigenza di averne di più. E sebbene l'abbondanza e l'opulenza (ok avere, ma bisogna mostrare ciò che si ha, altrimenti si è dei poveracci quanto il senzatetto di Porta Nuova) siano i must della nostra società moderna, questi sono stigmatizzati ed osteggiati quando, anziché materializzati, acquistabili, tangibili, sono mentali, propri dell'essere, propri dei sentimenti. E mai sia che tutto ciò porti addirittura a cedere qualcosa di materiale! Che blasfemia, che assurdità, che anti-modernità, che atto sovversivo. Probabilmente è un rapporto inversamente proporzionale: più si ha, meno si è, e meno si ha i mezzi per provare a dimostrare di essere. Perché a fronte di una ricchezza materiale si palesa una povertà in termini culturali, linguistici, intellettivi. E questo si evince quando il termine "bello" viene esteso a decine di campi semantici, portandolo ad essere il sostituto di tanti altri aggettivi più appropriati. Ora, forse non c'entra nulla la parentesi che sto aprendo, e nel caso vi chiedo scusa, ma credo che possa essere utile: mi è capitato più di una volta di far ricorso ad una metafora che un giorno, ascoltando la canzone Diamanti e carbone di Cisco, si è materializzata nella mia mente. "I diamanti sono di inestimabile valore in quanto rari, in quanto frutto di processi fisici estremamente complicati ed impossibili da riprodurre artificialmente. Se così non fosse, sarebbero cristalli qualsiasi, privi di ogni loro particolarità, privi del loro innato valore". E per cui mi chiedo: che valore ha il concetto di bellezza se lo si sperpera continuamente? Da quando la bellezza è sinonimo di utilità, di convenienza, di comodità, di funzionale? Come si fa a definire bello essere ricchi? Come si può considerare bello uno strumento come il denaro, che fa stare in pena miliardi di persone? Come si può dire che è bello, per esempio, un computer, che solitamente è nero, fatto di materiali tutt'altro che raffinati, e che di per sé ha isolato le persone convincendole che sono sempre in stretto contatto?

Per me bello è un sorriso regalato da un passante, per me è bella una canzone, una poesia; per me è bello un gesto di solidarietà, per me è bella la persona che incarna ciò che cerco. L'intelligenza è bella, lo sguardo intenso di una donna è bello, la voce decisa di un cantante è bella. L'amore è bello. Bello è tutto ciò che dona emozioni, e qui posso venir contraddetto da chi può sostenere che il denaro è bello perché con esso si comprano emozioni. Sì, vero, ma è un mezzo, e se l'emozione, alla luce dell'accumulo, è data dallo spendere e dall'avere e non dall'empatia, e quindi dall'essenza che proviene da ciò che si compra. E mi si può anche dire che chi ama un oggetto da vita al bello: può darsi, ma qui si gioca nel vostro stadio, non nel mio, non ho assolutamente idea di ciò che significhi.

Ed alla luce di questo mi metto per primo in gioco io: forse sono io che sbaglio, forse la bellezza è davvero ovunque ci sia un'etichetta, ovunque vi sia un servizio o un bene che soddisfi un bisogno, possibilmente istantaneamente, possibilmente in offerta 3x2. Ed è forse anche per questo che, quando credo di donare della bellezza attorno a me, rimango facilmente deluso, o comunque trovo stupore ed interdizione. E mi viene da pensare, scrivendo ciò, a quando con la mia ragazza d'allora, ad aprile dell'anno scorso, diedi la nostra ultima sigaretta ad un mendicante a Torino: lui che non la voleva assolutamente, lei che era rimasta spiazzata davanti a questo gesto, ed io che insistevo perché la prendesse, sebbene avesse una sciarpa del Milan che un po' mi turbava. O quando mi viene automatico sorridere ad un bambino in braccio alla madre: gli sorrido, ma sempre con circospezione, perché questo è un mondo malato, perché la madre facilmente si indispettisce e chissà cosa crede. O quando su un pullman le persone strabuzzano gli occhi se vedono me o altre persone far sedere un anziano. 

E' proprio vero. Butta proprio male. A forza di espandere i termini che tanto ci fa piacere sentire non sappiamo più riconoscerne il senso, ma soprattutto non sappiamo più apprezzarne la reale manifestazione, che è l'unica veramente degna di esser definita tale. 

Ho voluto utilizzare il concetto di bellezza per spiegare tutto questo, ma avrei potuto usarne tanti altri (l'amore, ad esempio, è un altro termine estremamente inflazionato, così tanto da essere calpestato quando veramente ci si trova ad ammirarlo davvero... perché le meccaniche della società impongono ciò; se Romeo e Giulietta non hanno potuto godere del loro vero amore a causa dello scontro tra le famiglie, ora non potrebbero perché probabilmente o Romeo o Giulietta andrebbero a trovare una soluzione di comodo, di convenienza, definendo il tutto poi come amore, come bellezza.. ma con un vuoto enorme, che in cuor loro sanno di non poter colmare). Però ecco, la bellezza è forse il concetto che più si vuole espandere e traviare, fino a vanificarlo, proprio perché è il più legato alle emozioni, è più legato ai sogni, è più legato alle speranze. Ed è quello che più può smuovere i sederi anestetizzati delle masse.

Ma finché questo non sarà chiaro a tutti, finché la nostra società sarà impostata in questo modo, tante sedie continueranno ad essere calde ed appiccicose, e tanti sederi continueranno ad essere insensibili... occhio però, queste sono le circostanze più favorevoli a ritrovarsela in quel posto da chi sta sopra... ovviamente, senza che ce ne si accorga... 

Ps: la foto sopra è stata scattata da mia madre, a mio padre e me, quando neanche avevo compiuto un anno. Credo sia la più bella foto che io abbia mai ammirato, e non perché ritrae me, la mia famiglia, non perché l'ha fatta mia madre, ma perché è ricca di emozioni, perché ritrae il frutto di un'emozione, perché ritrae due fonti di emozioni, perché è stata scattata da una madre di emozioni. Questa è bellezza. 



Stefano Tortelli