Sandro e Marino Severini: l'anima dei Gang
La condizione del popolo italiano è alquanto paradossale, se ci si ferma un attimo a pensarci. Ci ritroviamo con un patrimonio culturale immenso, abbiamo avuto eccelsi pensatori, grandi statisti, tanti personaggi degni di essere chiamati eroi, con tutti i requisiti necessari per entrare a far parte di un personale Pantheon che, come tutto ciò che parte da una presa di posizione individuale, può allargarsi ad un intera comunità, fino ad esser proprio di un'intera Nazione. Ma, nel bene e nel male, rivolgiamo il nostro sguardo al di là delle Alpi, sulle altre sponde del Mediterraneo, rifugiandoci nell'Estremo Occidente o nell'Estremo Oriente. E chissà, forse collocare gli esempi da seguire, i miti da elogiare e le speranze lontane dai nostri occhi fa sì che si abbia sempre la scusa buona per non comportarsi in modo tale. "Sai com'è, là funziona in modo diverso"; "Qui non ci sono i presupposti per agire in quel modo, anche se sarebbe bello"; quante volte ho sentito dire queste cose, quante persone si nascondono dietro scuse simili per non provarci, manifestando però anche un'incapacità di importare, interiorizzandoli, questi loro meravigliosi stereotipi. Dall'Estero, a conti fatti, quel che meglio abbiamo saputo interiorizzare, importare e riproporre, è solo il peggio: il capitalismo americano, la corruzione nelle alte sfere politiche e societarie, il nepotismo, il razzismo. E sul razzismo mi viene da sorridere sempre, perché è in assoluto ciò che più affossa e massacra le radici del grande popolo che siamo (o eravamo): siamo tutti dei bastardi, biologicamente parlando, abbiamo il sangue più ricco di miscugli a livello mondiale grazie all'espansione dell'Impero Romano, alla centralità che ha avuto Roma durante il Medio Evo, al mecenatismo italiano che non aveva eguali durante il Rinascimento. Ed antropologicamente parlando l'esogamia, l'arricchire il sangue della propria terra con quello di mondi lontani è la via migliore per l'evoluzione, per il dar vita ad una specie più forte, più resistente, più intelligente. Tant'è che gli italiani, insieme ai greci, sono tra i più dotati fisicamente ed intellettualmente a livello europeo. Certo, che poi non si esprimano è un'altra questione, riconducibile all'importazione del peggio dall'estero.
Ma per non tergiversare troppo, per non discostarmi eccessivamente da ciò che voglio qui esporre (sebbene la premessa sia totalmente inerente, ed allo stesso tempo estremamente dilatabile, ma mi fermo qui, altrimenti finisce il disco), non è assolutamente necessario rivolgersi all'Estero per trovare un gruppo che sappia fondere il rock a testi politicamente e socialmente impegnati, intrisi di nobili ideali e della voglia di lottare, di cambiare il mondo, anche grazie ad una chitarra ed una voce graffiante. Che poi il rock non era questo, agli albori? Il rock n' roll fu il primo negli Stati Uniti ad avvicinare, ad unire i neri ad i bianchi: sonorità proprie sia degli afroamericani sia degli anglosassoni si incontrarono in una cantina, su un pentagramma appena abbozzato, per dar vita a quello che è senza dubbio il genere musicale che più ha contraddistinto la seconda metà del XX secolo. E su quell'amalgama, che già di per sé era una sfida all'ordine costituito, venivano cantati testi di ribellione, di emancipazione, di riscossa, di protesta.
I Gang, fin troppo in sordina per quello che è il loro reale valore, stanno facendo tutto ciò da più di trent'anni, cantandoci l'Italia che resiste alle oppressioni, ai soprusi, alle malefatte della politica e degli interessi economici che sempre più vanno a braccetto, narrandoci le storie dei partigiani caduti sotto i colpi dei nazi-fascisti per darci la possibilità di esprimerci, di scrivere, di amare, di respirare, di pensare. Ed a differenza della maggior parte degli artisti italiani che hanno scelto di far cavalcare la musica da parole rivoluzionarie, loro non si sono affidati esclusivamente all'acustico, al folk, al cantautorato. Loro hanno legato a doppio filo i loro gridi di lotta al distorcersi di chitarre elettriche, a batterie martellanti, a bassi incalzanti, importando, interiorizzando, riproponendo nella nostra Penisola gli insegnamenti dei vari Jimi Hendrix, Rolling Stones, The Who, passando per i Clash ed i Sex Pistols, fino ad arrivare ai loro contemporanei ed omologhi americani Pearl Jam e Bruce Springsteen.
E sì, forse sono stati esterofili, anche loro hanno avuto i loro miti al di là dei nostri confini... ma nel loro riportare a casa gli esempi provenienti da terre lontane hanno deciso di appropriarsene, di ripercorrere i passi dei loro Dei musicali, dando così all'Italia un qualcosa di nuovo, di ancora mai proposto, perché evidentemente nel tragitto tra l'estero e la nostra terra la voglia di ricreare qui ciò che di stupendo si è trovato all'estero è morta durante il viaggio di rientro, annegando in mare o sbattendo la testa contro le montagne.
Ed i Gang, probabilmente senza volerlo, sono diventati esempio per molti altri artisti in questi trent'anni di loro agire, di loro cantare, di loro suonare, di loro vivere, di loro essere. Dai Modena City Ramblers ai Del Sangre, dalla Bandabardò ai Vad Vuc, tutti si sono passati i dischi dei Gang nelle orecchie, sono stati ai loro concerti, hanno respirato la loro aria. Ed hanno deciso di contribuire a farla soffiare, a darle più forza, a darle continua linfa vitale.
E devo tanto anche io ai Gang, alla loro energia, alla loro intensità, ad alla loro voglia di non fermarsi mai.
Grazie ragazzi, restiamo tutti vivi, restiamo tutti svegli. E continuiamo sulla nostra strada. Consapevoli delle nostre radici ed armati di ali rosse e melodiose.
Stefano Tortelli
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