Ci provo, davvero, a non essere monotematico in questo blog, almeno per quanto riguarda la musica proposta. In partenza la canzone che volevo proporre per spezzare il mio silenzio e sottolineare certi aspetti della radio era un'altra, quasi impossibile da sentire completamente sulle onde medie. Sto parlando di quel capolavoro che è The end dei Doors, impostasi nelle casse dell'auto appena acceso il motore. The end è la degna conclusione, l'apoteosi, l'orgasmo del primo album dei Doors, l'omonimo "The Doors" (1967), ma in quel caso si era presentata come incipit di una colonna sonora che avrebbe sorretto il mio ritorno a casa. Una colonna sonora che era in continuo divenire, composta da piacevoli sorprese ma anche da superflui intermezzi. E così a cadenzare il passaggio dalla periferia torinese alla prima cintura, e poi dalla provincia industriale a quella agricola si sono succeduti James Brown, i Blues Brothers, Syd Barrett, Lucio Battisti, ed altri che, per l'appunto, han fatto giusto da contorno. Ma su una decina di canzoni un buon sessanta per cento sono state delle autentiche chicche che solo la notte di Radio Capital poteva regalarmi.
Poi ho imboccato la strada che dal mio paese porta alla frazione, cinque chilometri più in là, nascosti dalla nebbia fitta e resi scivolosi dal ghiaccio di gennaio. Tra un tornante e l'altro a volte la nebbia si diradava, lasciandomi intravedere un cielo magnifico, che se alle sei di sera, mentre andavo a Torino, era dominato da una luna sorridente, in quel momento era una pista cifrata, ricca di stelle che, se solo uno avesse la pazienza, chissà che disegno andrebbero a formare se solo si potessero unire con tratto di penna bianca. Sarebbe tra l'altro complicato decidere che numero dare ad ognuna, sarebbe lungo il lavoro da fare, sarebbe necessario un intero stock della Bic o chi per lei per compiere l'intero percorso.
Mancavano ormai cinque curve per arrivare a casa, ed a sottolineare il fatto che ormai ero tornato, che il viaggio era finito, ecco la voce più familiare che il panorama musicale possa offrire le mie orecchie. E nemmeno con una canzone qualsiasi (che mi sarebbe andata benissimo comunque), ma con una di quelle canzoni che hanno proprio l'aria di casa: per come sono cantate, per come sono suonate, per la lingua che viene usata. Non l'italiano, non l'inglese, non una lingua straniera, ma il dialetto, la forma più eclatante per sottolineare la propria appartenenza ed il proprio legame con la terra che si vuol chiamare casa.
Sto ovviamente parlando di De André, e la canzone è tratta da quella meraviglia che è Creuza de ma (1984). E il brano in questione, manco a farlo apposta, è il mio secondo preferito dopo la title-track: per il suo procedere lento, per il suo farsi sempre più intenso prima con la voce e poi, finalmente, con la musica. Sidun.
(e, se è come penso io, dato che già una volta mi era capitato di sentire Sidun su Radio Capital di notte, probabilmente subito dopo c'è stata La locomotiva di Guccini. Ma ormai il motore era spento, il freddo si stava facendo insopportabile... e poi volevo scrivere... La locomotiva posso sempre sentirmela tra poco).
Stefano Tortelli
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