martedì 30 dicembre 2014

Canzone di notte #1



Manca il sonno anche stanotte, e sto cominciando a maledire le feste e l'influenza dei giorni passati che in perfetta sinergia hanno minato il ritmo che tra università, volontariato ed uscite con gli amici mi dava la possibilità di svegliarmi presto ed addormentarmi tardi, sfruttando a pieno quelle quattro-cinque ore di sonno che mi concedevo la notte. Dopo Capodanno dovrò assolutamente riprendermi: c'è da studiare, c'è da preparare il programma di italiano per la scuola, c'è da incrociare le dita per un'altra possibile e meravigliosa opportunità. E ci sarà da cantare e suonare. 
Tra i vantaggi che ha il vivere in aperta campagna, in una cascina che vede tra la camera tua e quella dei tuoi ben quindici metri di distanza e diversi muri a dividerle, ci si può permettere il lusso di suonare sotto le coperte, cantando però a bassa voce, cercando di limitarne il più possibile l'intensità. 
Che poi mi è stato detto in passato che per quanto io possa cercare di fare piano mi si sente... ma confido nel sonno pesante dei miei, nella loro televisione accesa di notte e nell'aria umida della campagna piemontese. Forse forse riesco a non fare danni! 
Tra i vari spartiti che ho qui sul pc ne ho diversi di De André, e stanotte, con la mia sei corde, sto vagando tra tende capovolte, cani e fumo... gli indiani hanno perso, ma il loro onore, la loro storia, la loro cultura un po' stanno rivivendo anche qui.


Stefano Tortelli

lunedì 29 dicembre 2014

Le canzoni

Guccini a Barolo, prima d  firmare il suo ultimo libro ed il suo primo vinile ad un certo Stefano



Sto guardando alla TV un documentario su Francesco Guccini. La musica, oltre a film particolarmente a me cari, è una delle pochissime cose che possa far sì ch'io decida di accenderla, o meglio ad andare sul sito della Rai.
Per Guccini tutto è tranne che un peccato dare uno strappo al mio ostracismo nei confronti della televisione, perché ne vale decisamente lo sforzo, ne vale decisamente la pena. Avevo già visto questo documentario, ma come certi film, come certi libri, come certe canzoni ogni volta che lo guardo da nuove sensazioni, nuove ispirazioni, nuove idee. E la consueta commozione.
In un'ora e mezza è stata ripercorsa la carriera di quello che per me è uno zio, di quelli che sotto banco ti passano un pezzo di pane in più, di quelli che la sera ti prendono con sé ed in barba al coprifuoco ti tiene sveglio a raccontarti le sue storie, le mille avventure della sua gioventù, ma anche mondi lontani, eventi distanti, emozioni ancora da provare. 
Ed ascoltando questo zio ti ritrovi a materializzare nel cervello ciò che racconta: vedi il mondo post atomico in cui il Vecchio racconta al Bambino quello che è il nostro, di mondo, sempre più minacciato dagli abusi sull'ambiente; vedi il giovane e bel macchinista ferroviere lanciare la sua locomotiva contro l'ingiustizia ed il potere, in nome della giustizia proletaria; vedi la casa di quella amata donna lontana dove puoi respirare l'odore della salvia e del rosmarino, dove puoi parlare con i suoi amici come se amici foste sempre stati. 
Lui, lui più di tutti sa fare ciò. Non De André, non Bertoli, non Finardi. Nessuno. Ed è forse anche per questo che cantarlo, dare la giusta interpretazione, far dire a qualcuno: "Cavoli, stai cantando come se l'avessi scritta tu", è quasi impossibile. 
Per cantare Guccini bisogna vivere come Guccini, pensare come Guccini, guardare, sentire, respirare come Guccini. Non c'è storia, e credo che io stesso facilmente mi rifiuterò di cantarlo in futuro su un palco, a meno che non mi senta anche io in quei panni che lui è solito portare. 
Il documentario ora è finito, ma mentre si stava raccontando, e stavano raccontandolo, ho messo giù un po' di righe riguardanti in primis le sue canzoni, ma anche tutte quelle che appena le sento rievocano, ricreano, ripercorrono. Rivivono. 
Perché le canzoni hanno questo strano potere di far coesistere in circa quattro minuti tutto il passato, il presente e sprazzi di futuro.
E come le canzoni null'altro c'è.

Le canzoni sono come fotografie,
a volte di un proprio vissuto, a volte di realtà astratte.
Le canzoni sono come aprire una finestra su un mondo nuovo,
o sul proprio passato, sul passato dell'uomo.
Vedi te da piccolo, vedi il tuo mondo, vedi i grandi uomini che, come te, hanno camminato su questo pianeta.
Le canzoni sono come un viaggio, 
nelle terre di ieri e nei mondi lontani, nella propria patria e tra le proprie radici.
Ed accarezzi le bandiere di Stati a te estranei,
assapori frutti esotici, solchi mari lontani, baci donne mai conosciute.
Le canzoni sono come un sogno, 
cullato dal troppo alcool o scaldato dall'amore, o infine travagliato come la realtà.
E tutto convive in questi sogni,
chi c'era, chi c'è, chi ci sarà. La vecchia casa, quella nuova, quella di un domani.
Le canzoni sono delle ispirazioni, 
fanno guardare oltre, fanno sentire il nuovo, fanno provare emozioni finora lontane.
Sono esplorazioni, sono proiezioni.
sono un vestito, sono un arredo, sono un mezzo di trasporto, sono un cibo prelibato.
Le canzoni sono la vita,
la nostra, quella dell'autore, quella del soggetto del testo.
Le canzoni sono ogni giorno, le canzoni sono lo ieri, l'oggi, il domani.
Le canzoni sono canzoni.
Le canzoni sono tutto, ma nulla è una canzone.


Grazie Francesco, grazie davvero. Te l'ho detto cinque mesi fa ed ora te lo ripeto. Un giorno valicherò l'Appennino che divide la mia Garfagnana dalla tua Emilia, e verrò a trovarti. E se lì non ti troverò, farò un salto in Via Paolo Fabbri 43...


Stefano Tortelli

domenica 28 dicembre 2014

Castelli in aria sotto un letto di nuvole

R. Magritte, "Il castello dei Pirenei"



E' usanza comune collocare in luoghi familiari concetti astratti o elementi fantastici. Ed ecco che progetti fantasiosi e mirabolanti diventano dei castelli in aria, i sogni abitano i cassetti dei nostri comodini, i mostri si nascondono sotto i nostri letti. Dev'esserci qualcosa di ancestrale in questo meccanismo psicologico che si attua poi a livello linguistico: del resto ogni cosa che non è stata spiegabile (o non lo è tutt'ora), si riconduce a qualcosa che è sì trascendentale, ma che ha riferimenti propri del nostro vivere quotidiano, in modo da poterci autoconvincere di capirla, visualizzarla, infine accettarla. Basta pensare alle centinaia di allegorie contenute nei testi religiosi, ai luoghi in cui gli Dei vivono (il Monte Olimpo per Zeus, le profondità del mare per Poseidone, la caldera di un Vulcano per Efesto): tutto viene spiegato, ricondotto a ciò che noi conosciamo, ma allo stesso tempo collocato in luoghi a noi comunque irraggiungibili. Il Dio c'è ma non si vede, è un trucco, è una magia.
Quando avevo circa sette-otto anni mi ritrovai ad avere un castello in aria sotto il mio letto. Era per me è un mostro terribile, che ogni volta che mi si presentava davanti mi inquietava, mi terrorizzava, mi metteva nella condizione di dover subito fare in modo che la presenza scomparisse al più presto. Sto parlando di un famoso quadro di Magritte, "Il castello dei Pirenei": una sua stampa era contenuta nel libro di letteratura delle elementari, e quando per la prima volta sfogliai il libro e capitai sulla pagina che lo proponeva mi spaventai tantissimo, neanche avessi appena letto "IT" di Stephen King o visto un film sugli alieni (che da piccolo erano il mio incubo più grande, mentre ora ne sono totalmente affascinato). 
Presi il libro e lo nascosi: del resto chi ha frequentato le scuole negli ultimi anni sa bene che di 300€ di spesa in testi scolastici più del 70% rimane inutilizzato, ed anche se allora c'era ancora la Lira la questione non era diversa, perciò non mi privai di un elemento fondamentale per le lezioni a scuola o lo studio a casa. Lo nascosi, ma allo stesso tempo sapevo bene dove l'avessi riposto (a differenza dell'unico album di figurine dei calciatori che ho finito e che non ho la minima idea, ancora ora, di dove sia), e per cui periodicamente lo riprendevo in mano, attirato dalla visione di quel quadro. Ne avevo paura, ma non potevo farne a meno; sapevo che l'avrei nascosto ancora, ed ancora, ed ancora, ma dovevo vederlo, dovevo guardarlo. Probabilmente era un po' come la malsana necessità di alcune persone di dover guardare i film del terrore sapendo benissimo che poi se li sogneranno per tutta la notte: non puoi assolutamente esimerti, è più forte di te. Ogni volta era la stessa tiritera, ogni volta trovavo un nuovo nascondiglio, ogni volta mi spaventavo terribilmente e giuravo a me stesso che non l'avrei mai e poi mai tirato fuori. Ma i miei erano giuramenti vani, erano promesse puntualmente non mantenute, ero l'ultima persona di cui potevo fidarmi. 

Un giorno però, dopo l'ennesima tentazione, cambiai strategia, decisi che questa cosa doveva finire, decisi che dovevo combattere quel mostro sotto il letto. Presi il libro, lo aprii, cercai quella dannata pagina. La fissai per un po', poi presi il libro, ancora aperto, e lo misi sul davanzale, con il castello in aria ben in vista. Rimase lì per diverse ore, gli passai davanti innumerevoli volte, ed ogni volta lo spavento diminuiva, le palpitazioni si facevano meno frequenti, la paura scemava lasciando spazio alla curiosità, a ciò che ogni volta faceva sì che io mi ricordassi il nuovo nascondiglio, a ciò che era l'attrazione che fino ad allora aveva ceduto alla repulsione.
Da allora quel quadro mi ha sempre affascinato, tanto da scrivere in inglese, un paio di anni fa, un breve raccolto in esso ambientato; ed ogni volta che mi ritrovo ad aver paura di qualcosa che mi affascina cerco di ripercorrere mentalmente il mio difficile rapporto tra quel castello in aria sotto il mio letto ed il mio terrore, facendo in modo che ogni volta il processo di avvicinamento sia meno lungo, meno difficile, meno doloroso.

Ci va sempre un po' di tempo a smontare certi schemi ed ad abbracciarne di nuovi, più ampi, più ricchi, con sbocchi su ogni nuovo mare del sapere, ma a costo di qualche spavento, di qualche pianto, di qualche emozione negativa, è sempre meglio tenerli sul davanzale ed osservarli piuttosto che rigettarli sotto il letto. 
Perché tanto, prima o poi, la voglia di mettere la testa sotto le doghe viene, e quindi tanto vale non aver paura, tanto vale provarci, tanto vale vivere ogni emozione subito. Perché poi il resto (e spesso il resto equivale al meglio) vien da sé.

Parlando di sogni, incubi e mostri questa canzone viene subito alla mente. Una ninnananna differente, un nuovo ruolo per gli orchi e per le streghe.




Da Valle Re ai Campi Rossi




Quelle che andrò a raccontarvi sono due storie a me molto care, e tutto sommato è superfluo sottolinearlo, poiché non fosse così non scriverei a riguardo; ci sono tante cose che apparentemente o effettivamente sono superflue in senso assoluto, tante altre lo sono in senso relativo, e non è da me scrivere tanto per scrivere, parlando di ciò che non mi interessa, di ciò che non sento mio, di ciò che non mi rispecchia.
Oggi è l'anniversario dell'eccidio dei sette Fratelli Cervi: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore. Avevano dai 22 ai 42 anni la notte che vennero uccisi brutalmente settantuno anni fa. Erano contadini, lavoravano la terra con il padre Alcide a Gattatico, una località della campagna emiliana non tanto lontana da Reggio Emilia. L'Emilia Romagna ha dato i natali a grandi militanti politici di sinistra, e loro non erano da meno: ogni giorno avevano a che fare con i simboli dei loro ideali, la falce ed il martello, condividevano nella loro casa il pane, si riunivano attorno al focolare a raccontare storie, a ballare, a sorseggiare il vino che loro stessi producevano. Erano una famiglia come tante, ma ciò che a loro ha regalato l'immortalità nella storia dell'Italia anti-fascista è anche la croce che ne ha abbracciato gli ultimi respiri. Perché durante la seconda guerra mondiale, quando il partito cominciava a vacillare sotto i colpi delle penose sconfitte in campo militare, l'economia che di conseguenza era andata in crisi, la repressione da parte dei fascisti e dei tedeschi portarono ad un sempre più forte movimento di persone, ideali ed armi. E tutto ciò andava nascosto, questo movimento, per rimanere implacabile, doveva nascondersi, agire clandestinamente, con tanta attenzione quanta determinazione. E la casa dei Fratelli Cervi divenne così un nascondiglio per i partigiani, un punto di ristoro per le staffette, un'oasi sicura ma sempre all'erta nella quale esprimere liberamente le proprie idee, i propri sogni, le proprie speranze, da allargare all'intera Emilia, all'intera Italia. 
Ma dopo Natale, in seguito all'uccisione di un fascista in un paese limitrofo, il 28 dicembre fu eseguito l'ordine di fucilazione per rappresaglia dei Sette Fratelli Cervi, i figli della Pianura, dopo essere stati catturati un mese prima, tra il 24 ed il 25 novembre dopo uno scontro a fuoco avvenuto nella loro casa. Sette fratelli, una famiglia intera spazzata via dall'odio, dalla repressione, dalla più triste pagina della storia millenaria della nostra penisola. Sette figli di un padre che per ancora alcuni giorni si è trovato solo, rinchiuso in una prigione, senza sapere che il sangue del suo sangue era stato lavato via dal nero piombo fascista. Ma una volta fuggito di prigione dopo un bombardamento alleato, Alcide ancora ha portato avanti i suoi ideali, le sue battaglie, i suoi sogni. In suo nome ed in nome dei figli, fino all'età di 95 anni, quando si è spento con accanto i suoi nipoti e le sue nuore, ed altri 200.000 italiani ai suoi funerali. 

Settantuno anni fa cominciò questo primo racconto che ancora oggi andrebbe riportato nei libri di storia, nelle pagine dei giornali, per le vie delle città. E fortunatamente tutto ciò avviene, con scuole, piazze e strade a loro dedicati dal Nord al Sud Italia passando per la Sardegna. Ed io ho avuto l'onore di ascoltare la nipote di Alcide parlare a me ed ad altri giovani in quello che ora è il Museo Cervi, in quella che allora era la casa dei suoi zii. Respirare quell'aria fu assolutamente particolare, perché mi ricordava quella che è propria della mia casa: i campi rigogliosi del maggio padano, la brezza primaverile che se qui è figlia della Alpi lì è generata dagli Appennini, i grandi alberi ed il silenzio a circondare i muri di quella cascina di campagna. Ma in quell'aria c'era ben di più: c'erano i ricordi, c'era il sangue, ma c'era anche la speranza di un mondo migliore, il desiderio di uguaglianza, fratellanza, libertà, tutti sentimenti propri di ogni luogo se solo qualcuno in quel momento li sta portando avanti con tutto se stesso. E quel giorno, quel 19 maggio del 2007, eravamo in trenta a voler continuare questa lotta, ad indossare quelle famose scarpe rotte, a voler trasformare l'aria in vento. A voler far rivivere con noi Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore... ed Alcide.

Quella mattina vedemmo diversi cimeli nella Casa Museo Cervi: il trattore che comprarono dopo tanti sforzi per poter arare i campi, il mappamondo tanto caro ad Alcide, la simbolica rappresentazione di un albero genealogico sotto forma di quercia con sette rami. E vedemmo un breve documentario riguardante la loro storia, con alcune scene tratte dal film "I sette fratelli Cervi" del 1968, chiusosi con una canzone che inevitabilmente mi riporta a quel giorno, in quel luogo, con tutti i compagni accanto a me a cantarla ancora una volta. Ed a commuovermi, di nuovo. Perché come cantano i Gang nei loro ultimi versi: "E in quella pianura, tra Valle Re e i Campi Rossi, noi ci passammo un giorno e in mezzo alla nebbia ci scoprimmo commossi".


Stefano Tortelli

sabato 27 dicembre 2014

La notte porta grazia



E un'altra volta è notte, e scrivo...

Quest'influenza, che si era nascosta tra i regali di Natale sotto l'albero, sta sballando i ritmi che faticosamente ero riuscito a prendere negli ultimi due mesi. Il ciclo veglia/sonno di nuovo non procede di pari passo con quello giorno/notte, ma è la storia della mia vita: già da piccolo passavo le nottate a guardare Videomusic, poi All Music ed MTV (sì, quando ancora MTV faceva vedere videoclip... sono vecchio, lo so!), sfogliando alcuni libri o giocando con il "simil" Nintendo da 29.000 lire sul piccolo televisore di quella che era, allora, la mia cameretta. Non so perché ma ho sempre amato rimanere sveglio quando il resto del mondo dorme, e nel corso degli anni, crescendo, le attività sono cambiate. E capita che il mio vegliare il passaggio della Luna da est ad ovest non sia in solitudine, ma con amici anche loro desiderosi di scoprire dove va a nascondersi il nostro satellite una volta giunta l'alba, o con le ragazze con cui ho condiviso parte della mia vita, ed anche il desiderio di posticipare, di ora in ora, il momento di spartirci il cuscino e la porzione del letto adibita al dormire. Perché son troppo grandi i letti matrimoniali quando ci si ama: meno spazio c'è e meglio è, soprattutto se il clima contribuisce all'avvicinarsi, al donarsi calore sotto forma di carezze, di amore, di respiri ansimanti.
Ma ora, solo, con la chitarra che dopo un po' di tempo è tornata a prendere posto alla mia sinistra, sul materasso opposto al comodino ed all'abat jour, mi ritrovo a sfruttare questo tempo nei modi che più possono rendere onore a questi istanti, questi secondi, questi minuti che si susseguono ed, accumulandosi, vanno a formare il mio passato, i miei ieri.. le mie storie di ieri. Scrivo, e questo è palese, ascolto i Per Grazia Ricevuta, e, dopo aver visto i Blues Brothers con i miei genitori per l'ennesima volta, mi sto facendo solleticare dall'idea di vedere il film che porta il nome dello stesso gruppo che sto ascoltando. Gran film, Per grazia ricevuta, grandi artisti, i Per grazia ricevuta... se due indizi fanno una prova, questo è un nome di sicura qualità. 
E la cosa curiosa è che tutto sommato i protagonisti di questi due referenti, che rispondono allo stesso segno, hanno due storie diametralmente opposte, ma tutto sommato simili come meccaniche: Giovanni Lindo Ferretti, leader del gruppo, ed in passato guida dei CCCP Fedeli alla Linea e dei CSI, dopo una carriera musicale nella quale ha portato avanti i suoi ideali politici comunisti, si è ritrovato ad intraprenderne una nuova in cui è invece il Divino a farla da padrona, dopo la sua personale conversione sulla via di Damasco su un letto di ospedale durante la lotta contro una pericolosa malattia; e Benedetto, interpretato dal grande Nino Manfredi (anche regista del film), che, nato in un paesino del Sud fortemente condizionato dalla religiosità, nel quale addirittura viene, secondo la popolazione del paese, miracolato da Sant'Eusebio, e poi cresciuto in un convento di frati, una volta catapultatosi nella realtà degli anni '70 abbraccia gli ideali comunisti, insegnatigli dal padre della sua ragazza, un meraviglioso farmacista filosofo, amante della notte, orgoglioso di vivere quando gli altri dormono, interpretando i suoi gesti come una lotta ad un ritmo imposto dalla società, e quindi dalla religione, e non per forza proprio della natura umana. 
Vidi questo film tra la notte di Natale dell'anno scorso, scoprii questo gruppo nel 2009, dopo aver assaggiato i CCCP ed i CSI.. e probabilmente stanotte si incontreranno in quel mucchio di attimi passati che si susseguiranno di qui alle prossime ore. 
Del resto pensare che tutto sia statico, imposto ed incontrovertibile è la morte del pensiero, è la morte dell'agire, è la morte della speranza, delle pulsioni, delle passioni, delle emozioni.

Questa vita, e prima o poi tutti lo capiremo, è un continuo Divenire. E che qualcuno ci faccia la grazia, che qualcuno lo mostri al mondo che nulla è immutabile. E che lo dica soprattutto a chi si crede già grande, perché l'augurio migliore che si possa fare è non diventare grande mai, ma restare fanciulli sempre, solo più adulti, più esperti, più ricchi di esperienze, più consapevoli di ciò che ci circonda. Ma mai domi, mai stanchi di curiosare, di girovagare, di esplorare, di assaggiare, di assaporare, di toccare, di provare.


Stefano Tortelli



venerdì 26 dicembre 2014

Happy Christmas, Yoko. Happy Christmas, John



Dovrebbe essere Natale tutti i giorni. 

Non perché a Natale, slogan pubblicitario alla mano, si è tutti più buoni. Ma perché a Natale probabilmente ci ridimensioniamo, ci svestiamo dei panni da super esseri viventi, da semi-dei mancati, da insensibili macchine razionali che aspirano al successo ad ogni costo. Torniamo ad essere animali, a Natale, ci circondiamo degli affetti più cari, ci riavviciniamo a chi per il resto dell'anno abbiamo dimenticato, che sia fisicamente o mentalmente... o attraverso una telefonata o un messaggio. Ma si torna ad essere quell'animale sociale che invece, nell'arco del resto dell'anno, ha anteposto una A alla sua essenza pur di sopravvivere in questo mondo che, alla faccia della tanto sbandierata globalizzazione, dell'essere costantemente tutti in contatto, dell'avere i social network, Whatsapp, del cellulare con il 3G e della possibilità di spendere in qualsiasi momento della giornata, ci vede soli in mezzo all'apparente tutto che invece è il nulla più totale. Perché l'umanità si sta perdendo, si stanno perdendo le più elementari basi di convivenza, di coesione, di collaborazione, si stanno perdendo le dinamiche proprie del relazionarsi tra simili, sia nel bene sia nel male: ci si nasconde dietro i silenzi perché si sono perse le capacità di dire e di sentire, di scrivere e di leggere, di provare emozioni e di far provare emozioni. 
Ed il paradosso è che ci si ragiona, su questi meccanismi, si ragiona su come essere ancora più inscalfibili, ancora più insensibili, ancora più asettici, ancora più distaccati. Ed ancora più grande è il paradosso che tutto ciò si fa in preda ad un'enorme emozione negativa, ad un'arma di distruzione di massa, al più grande deterrente possibile ed immaginabile di ogni rapporto umano: la paura. E' la paura che nega tutto ciò che è proprio del nostro essere donne e uomini, del nostro vivere in pace e solidarietà, amandoci e rispettandoci, dando tanto quanto riceviamo, vivendo gli spazi che la natura ci ha dato in armonia, in totale serenità, rispondendo soltanto ai nostri migliori istinti. Perché i peggiori, quelli che nell'uso comune si etichettano come bestiali, tutto sono tranne che propri del nostro essere animali, del nostro essere Esseri viventi. Sono costruzioni, sono elementi antropopoietici, sono un superstrato dato da una società che di società non ha più nulla, essendo ora non più al servizio delle persone, ma le persone al suo servizio. 
E per cui siamo qui, a leggerci, a parlarci, ad ascoltarci, ma non ci capiamo. Parliamo tutti lingue diverse, in una Babele che conta sette miliardi di individui parlanti sette miliardi di idiomi differenti, con una previsione di crescita ovviamente enorme di entrambi i dati. E questo avverrà finché non ci si ritroverà, finché non ci fermeremo davanti allo specchio, guardandoci negli occhi ed accorgendoci che a Natale il nostro aspetto è lo stesso della Vigilia e di Santo Stefano, e di tutti i giorni precedenti e di quelli a venire. E dopo essercene accorti dovremo allora decidere di estendere il nostro essere più umani, e quindi più animali, ai giorni che verranno, come se Natale fosse sempre, per far sì che del Natale non ci sia più bisogno. 
Tutto questo lo scrivo mentre sto ascoltando Happy Christmas di John Lennon, e pensando alla Christmas Song dei Jethro Tull, riflettendo su ciò che queste due canzoni vogliono dirci, cercando di capire cosa possa esserci dietro e nel profondo di quelle parole così abilmente messe in rima. 
E rimanendo nel terreno fertile nel quale Lennon ha seminato, penso anche a quel grande capolavoro che è Imagine, a come sia così semplice dire e cantare queste cose, ma come possa anche essere frustrante guardarsi attorno, anche tra gli affetti più cari, e rendersi conto che cantare, dire e fare tutto ciò individualmente sia anche possibile, e magari riesce anche bene, ma far sì che possa estendersi all'umanità intera sia estremamente complicato, se non impossibile. 
Ma intanto voglio ascoltare le parole di Lennon ed immaginare questo mondo, e forse, ora come ora, è già un grande traguardo pensarlo, crearselo nella testa ed auspicarne la realizzazione, provando a convincere quante più altre persone possibili che sì, insieme possiamo riuscirci. 
Facciamocelo questo regalo di Natale, immaginiamo tutti insieme. E festeggiamo. Arriverà il momento in cui ogni giorno potremo cantare Happy Christmas, anche con 35° all'ombra, perché sempre sarà attuale, perché sempre sarà festa, perché sempre avremo voglia di cantare. 
Perché non ci sarà più paura, non ci saranno più distanze, non ci saranno più guerre, non ci sarà più odio, non ci sarà più prevaricazione. 

E quindi Buon Natale, Yoko. Buon Natale, John. Buon Natale, Stefano.



Stefano Tortelli

lunedì 22 dicembre 2014

Canzone della sera #4

Sono quasi trentacinque ore che non dormo, eppure, nonostante sia a letto e con il portatile sulle gambe a scaldare via questi primi accenni di inverno, tutto mi passa per la testa tranne che appoggiare la testa sul cuscino e chiudere gli occhi. Quella che sta per terminare è stata una giornata assolutamente positiva, ricca di indizi che mi portano a dire una volta in più che la strada che sto intraprendendo è quella giusta. 
Perché proseguire con i paraocchi non è propriamente il modo migliore di intraprendere un viaggio: gli ostacoli sono ovunque, di bivi se ne trovano a bizzeffe, per non parlare delle rotonde, scappatoie delle quali spesso si abusa per provare una strada e poi ritornare al punto di partenza. E quindi bisogna procedere con gli occhi ben aperti, scrutare continuamente il paesaggio e tenere sempre sotto mano la mappa sulla quale è tracciato il percorso; e questa mappa non è null'altro che la quotidianità, che mai come nell'ultimo periodo è ricca di novità, di nuove occasioni, di improvvise possibilità. E un po' mi spiace sapere che dal 25 al 6 gennaio passerò più tempo a casa, non più impegnato con il volontariato, non più a stretto contatto con gli altri volontari, i dipendenti della Feltrinelli, i clienti e le centinaia di libri che sono passate per le mie mani in questo dicembre. Ma se sta per finire questa esperienza presto ne comincerà una nuova, della quale oggi, anche grazie ad una cara amica, ho costruito le fondamenta: presto mi ritroverò ad insegnare, presto farò ciò per cui secondo il parere di molti (me compreso) sono portato a fare, perché insito nel mio essere. E non vedo l'ora, ben conscio che sarà qualcosa di nuovo, che saranno necessarie molta improvvisazione e tante intuizioni, ma forse proprio qui sta il bello di tutto questo: sfruttare al meglio le proprie capacità per cercare di dar vita a qualcosa di utile, e possibilmente dilettevole!! 
Ma poi chissà, magari interpreterò ciò che altri già hanno fatto in passato dandogli una mia impronta, un po' come tanti artisti fanno quando danno vita ad una cover. Sì, il pezzo è sempre quello, sia nella musica che nelle parole, ma è stato ascoltato, interiorizzato e riproposto, modellato a propria immagine, espresso nel proprio gergo musicale fatto di timbri, di suoni, di arrangiamenti diversi da quelli propri della versione originale. 
Non so se sarà un'opera prima o una reinterpretazione il mio percorso da insegnante... sicuramente ci sarà tutta la mia passione e la mia voglia, e credo possa essere un buon punto di partenza per poter far qualcosa di meraviglioso, sia per me sia per quelli che saranno i miei studenti.

Cavoli, che strano dire ciò...

A proposito di cover, sono un paio di giorni che sto sviscerando la mia playlist su Spotify dedicata alle cover... e stasera voglio andare di Finardi che canta De André: sarà che siamo sotto Natale e che si avvicina il mio consueto ascolto de La buona novella in loop, sarà che alla fin fine ogni scusa è buona per ascoltarlo, per ascoltarli, sarà che... sarà che mi piace da morire, e che la prima volta che la ascoltai rimasi a bocca aperta... grande Eugenio, grande Fabrizio. Grandi Maestri.





domenica 21 dicembre 2014

Dicembre, Torino e... Simon & Garfunkel: un pomeriggio d'ordinaria meraviglia

E' ormai un collegamento mentale globale quello che si instaura tra il mese di Dicembre ed il Natale, perché ormai definirla una festività religiosa è limitativo. Al di là degli aspetti puramente consumistici che, sfortunatamente, ne hanno caratterizzato la natura odierna (ed è un discorso che vale ormai per tutte le feste non istituzionali), dicembre è il mese in cui, a causa del Natale, le città si illuminano di mille colori: per la mia gioia il rosso domina, ma l'arcobaleno natalizio ha il potere di rendere le persone più disponibili, più sorridenti, più positive. Del resto è di comune usanza ricordare in questi ultimi giorni dell'anno le persone care presenti omaggiandole con doni e pensieri, usare la scusa delle feste per rivedere persone per tanto tempo rimaste ai margini della nostra esistenza (e noi della loro), chiudere, a seconda del proprio modo di essere, l'anno passato pensando a ciò che è bello ricordare o cosa dimenticare, ed infine caricare di aspettative l'anno nuovo: i buoni propositi, la convinzione che l'acquisto di un nuovo calendario da appendere in casa possa cambiare l'andamento degli anni passati che, chissà come mai, non hanno dato luogo alla svolta sperata ogni santo 31 dicembre. Ma tutto è, per un mese, in ogni caso, concentrato sul Natale, su questa festa che più di ogni altra ha il potere di condizionare il modus vivendi di ognuno di noi.
Il Natale per me è sempre stato un bel periodo, sebbene per alcuni anni sia stato complicato dalle distanze che mi separavano dalle persone che amavo, ed anche quest'anno tutto sommato un po' si sente una mancanza, è innegabile, anche se sopportabile, anche se ampiamente preventivata. Ma fedele al mio essere guardo positivo, penso positivo, vivo positivo, e penso ai bei ricordi delle festività invernali degli anni passati, dei preparativi, delle corse ai regali, della scusa di questo periodo per vivere per le prime volte certi spazi che fino ad allora avevo solo sfiorato. 
E mi viene in mente, inevitabilmente, un giorno settimanale di un dicembre di qualche anno fa: ero con mia madre in giro per il centro di Torino, per le vie traverse di Via Garibaldi, alla ricerca, in quegli antri ottocenteschi sopravvissuti all'ammodernamento distante pochi passi soltanto, gli ultimi regali per i parenti. Ho sempre amato fare i regali, e mi ha dato sempre molte più emozioni pensarli, acquistarli o ancor meglio prepararli, piuttosto che riceverli, e sicuramente questo episodio ha contribuito non poco ad appassionarmi al Dare. Tra un acquisto e l'altro, tra una bottega ed un negozio di antiquariato, è normale che il tempo passi in fretta. Torino tra l'altro non è propriamente clemente durante il tardo autunno e l'inverno, e per cui una cioccolata calda, qui, nella capitale italiana del cacao, non può che essere un'ottima cura ad ogni brivido. Entrammo così in un bar che sembrava uscito dalla Parigi bohémienne dei primi decenni del '900, quella raccontata da Orwell per intenderci, ricco di quadri, con un'insegna volutamente antica, arredato con mobili d'antiquariato. Perché non è mica sufficiente l'ambientazione a rendere un luogo, di fatto, etichettabile in un modo o nell'altro. Ci va la cura dei dettagli!! Ci sedemmo ad un tavolino, e nel silenzio del locale praticamente vuoto ci accorgemmo, nello stesso momento, che la radio stava passando qualcosa a noi familiare: erano Simon & Garfunkel, e rimanemmo sorpresi che alla radio potessero passare una canzone come El condor pasa; del resto non stiamo parlando di The sound of silence o Mrs. Robinson, e nemmeno di Cecilia o The boxer. Era una canzone minore, come può esserlo Se ti tagliassero a pezzetti di De André o Vorrei di Guccini... bellissime, ma poco inflazionate, poco considerate. 
La sorpresa più grande però fu scoprire, finita la canzone, che Simon & Garfunkel avevano ancora voglia di cantare, di farsi sentire, di irradiare il locale, di farci compagnia. Non era la radio: era un disco intero. Sorridemmo e commentammo, ed ad un certo punto sentimmo aumentare il volume della musica: l'oste si era accorto dei nostri apprezzamenti, e forse, anche per aggraziarsi due possibili clienti abituali, aveva girato verso destra la manopola dei decibell. 

Non è stata ovviamente l'unica volta che ho sentito una canzone che mi piace in un locale, non è stata l'unica volta che ho preso una cioccolata calda con mia madre in centro a Torino, non è stata l'unica volta che con lei ho girato per la città in periodo natalizio per acquistare regali, assolutamente. Ma l'insieme di questi elementi, ognuno indispensabile a suo modo, ha reso unico quel momento, ha dato un senso in più a quei due cantautori americani, ha unito ancora di più mia madre e me.

Ed ora, ogni volta che passa una canzone di Simon & Garfunkel, inevitabilmente entrambi pensiamo a quel pomeriggio a Torino sotto Natale a prenderci una pausa al gusto di cioccolato tra un regalo e l'altro. E se siamo insieme, ci si guarda, ci si sorride, ed i nostri pensieri si prendono per mano, come a volte ancora noi facciamo. 



Stefano Tortelli

Pierangelo Bertoli, il cantautore della porta accanto





Nelle ultime settimane sono a casa poco o nulla. Esco il lunedì mattina e torno il venerdì sera, rimanendo durante la settimana lontano dai miei genitori, dalla mia camera, dalla mia musica. Perché sebbene sul cellulare di musica ce ne stia parecchia, la memoria non è sufficiente per tutto ciò che vorrei portarmi dietro... Che poi si sa, si carica su questi dispositivi portatile una quantità immensa di canzoni, ma poi si gira sempre sulle stesse. 
Ed a casa, nonostante il catalogo di Spotify a disposizione, quattrocento album tra cd e vinili e le decine di migliaia di mp3 archiviati maniacalmente nel corso degli anni, mi ritrovo sempre lì: ed il lì è la playlist di Pierangelo Bertoli, una lacuna nel cellulare che inevitabilmente devo riempire quando mi riapproprio del mio spazio d'origine, di questo antro nel quale tutto è un mio specchio: dai Dylan Dog ai libri, dai vestiti alla strumentazione (la tastiera, la chitarra, il microfono, la cassa, il mixer...), dai miei vecchi quaderni ai sopracitati cd e vinili, arrivando a tutto ciò che è incollato alle ante dell'armadio: biglietti, scalette, poster, fotografie, ritagli di giornale. E guardo tutto ciò, tutto ciò che negli anni ho riportato a casa, tutto ciò che mi rispecchia, con un sottofondo ormai familiare, con una voce che sa di Casa.
Perché Bertoli, del resto, ha raccontato meglio di chiunque altro, con il lessico, per l'appunto, familiare, la quotidianità. Canta di lotte, Bertoli, canta d'amore, canta in dialetto, canta di autobus e metropolitane, canta delle sue esperienze in ogni campo in cui ha seminato. E tutto sommato Pierangelo è arrivato tardi tra questi muri: la mia adolescenza rimbalzava tra De André e Guccini, riposandosi ogni tanto tra le braccia di De Gregori insieme alla donna cannone, ma Bertoli lo intravedeva ogni tanto, tra i monti al crepuscolo o in compagnia di un pescatore instancabile. Per il resto è rimasto lì, nella penombra, in attesa che accendessi la luce. 
Ma poi è arrivato, vestito di rosso, armato della sua chitarra, delle sue innumerevoli sigarette, su quella sua sedia a rotelle che null'altro è se non un dettaglio del suo essere. E mi ha raccontato un sacco di storie: gli anni della contestazione, della lotta contro i ricchi ed i potenti, ma anche di personaggi di tutti i giorni, dei problemi dell'uomo qualunque, di amori che iniziano e che finiscono, di attese, di pensieri stallati chissà dove ma che lì sono e figuriamoci se decidono di ritornare a casa. Ed ha fatto tutto questo, come dicevo, con una chiarezza e con una semplicità disarmante: non aveva bisogno di parole difficili per abbellire i suoi pensieri. I suoi pensieri erano belli, anzi meravigliosi, già così. 
Ho avuto modo di conoscere suo figlio, Alberto, a luglio. Una persona squisita, che ha preso tutto del padre: la simpatia, la convinzione, lo sguardo profondo, la voce, i movimenti. Gli dissi, forse risultando indiscreto e spudorato, e magari anche un po' insensibile, che vedere lui sul palco era stato come ritrovarsi il padre, finalmente libero da quella sedia a rotelle, muoversi ed esprimersi completamente, senza quella limitazione che per tutta la vita l'ha accompagnato. E mi ha svelato che cosa io abbia perso nel non aver mai visto Pierangelo live: e non lo diceva perché ne è figlio, non lo diceva per un discorso d'affetto; lo diceva come un fan sfegatato di un artista al quale ispirarsi, del quale carpire tutti i segreti, al quale rendere omaggio in ogni occasione. E c'è poco da fare: l'espressività che accompagnava prima Pierangelo e che ora accompagna Alberto non ce l'ha avuta nessuno. A De André posso credere quando vedo i suoi video, come posso credere a Guccini, come posso credere a Bob Dylan o Leonard Cohen. Ai Bertoli, invece, devo credere, senza remore, senza pensare che forse cantano queste cose tanto per cantarle, senza pensare che hanno usato una determinata parola non tanto perché quella era la migliore per esprimersi ma perché ci stava bene per una questione di metrica, di suono, di rima. 

Pierangelo Bertoli è così: gli apri la porta delle tue orecchie e lui, a muso duro, come un parente, come un vicino di casa al quale si è legati, come un amico, ti dice ciò che pensa. E non puoi che essere d'accordo con lui, non puoi che annuire, non puoi che decidere di metterti al suo fianco per proseguire un discorso dalle mille sfaccettature che si è perso nei meandri del politically correct, dell'addolcire gli ideali per renderli più spendibili, del non scrivere certe cose per paura di non farcela. 
A muso duro sempre, Pierangelo. E non preoccuparti, il vento, davvero, soffia ancora; ed anche grazie a te continua ad essere alimentato.  

E voglio proporlo così, in compagnia dei Tazenda, a San Remo mentre canta davanti all'Italia intera quella che forse è la sua canzone più famosa. I motivi per cui la scelta va a questa sono molteplici, ma il principale è Andrea Parodi. Un altro grande della nostra musica che prima o poi farà capolino sul blog.
Del resto il mio è un Pantheon vastissimo, e da buon pagano, da buon praticante, non posso esimermi da omaggiare ogni divinità.



Stefano Tortelli

martedì 16 dicembre 2014

Canzone della sera #3

Ed anche stasera voglio chiudere con una canzone che ho sentito diverse volte durante il mio turno e che ovviamente mi ha sempre distratto, portandomi a canticchiarla a volte in testa ed altre sotto voce. 
Quella che passa alla Feltrinelli non è quella originale, ma io spesso in tema di musica sono estremamente conservatore, e per cui ve la propongo made in Cream. 
Ed ora vado a letto, e chissà che domattina non abbia da raccontare qualche sogno... ma sicuramente ci sarà a destarmi dal sonno la più bella sveglia possibile, la mia nipotina Selene.


Stefano Tortelli

A Giulietto Chiesa

Scrissi le parole che seguono l'11 settembre di quest'anno, ed ovviamente il tema, quando si pronuncia, scrive o legge quella data, non può che essere, ormai, uno solo (sebbene sia anche l'anniversario del colpo di Stato in Cile, ma in Occidente pochi se lo ricordano). 
Dedico questo post a Giulietto Chiesa, che ieri è stato arrestato in Estonia mentre conduceva un'inchiesta scomoda ai Potenti, un'inchiesta che null'altro vuole svelare se non la verità.
Come quella che condusse riguardo, appunto, gli attentati che colpirono gli Stati Uniti quella mattina di tredici anni fa, dei quali si sa tutta la realtà ormai, ma finché la "realtà ufficiale" rimarrà un'altra si dovrà combattere per far vincere la verità, per rendere giustizia a chi quel giorno perse la vita, per far trionfare il Sapere sull'Ignoranza.

Sono passati tredici anni da quel martedì 11 settembre 2001. Innanzi tutto credo sia importante, a prescindere da come la si può pensare, ricordare le tremila persone che sono morte asfissiate in seguito al divampare dell'incendio o durante il crollo delle Twin Towers. I morti sono morti e vanno rispettati, soprattutto quando si parla di persone che sono innocenti vittime di un odio profondo.

A tredici anni dagli avvenimenti di quel tragico mattino però si fa ancora finta di non sapere da dove sia partito l'odio assassino che si è macchiato di questa mattanza.

Le Torri gemelle; il Pentagono; l'edificio 7, sempre collocato nel World Trade Center; l'aereo "caduto" in Pennsylvenia. Quattro crimini, nessuna prova a carico del principale indiziato. Ma nel mentre ci sono state le guerre in Afghanistan, in Iraq, sono state fomentate le Primavere arabe. E perché no, si è adottata una politica ancora più repressiva nei confronti dei Palestinesi a Gaza... per non parlare della "sicurezza" negli aeroporti statunitensi, "sicurezza" che si può tradurre in tutto e per tutto in "sistema alla 1984" per schedare ogni singolo individuo che usufruisce del trasporto aereo.

Tutto questo perché si è sostenuto ufficialmente che fosse colpa dei terroristi arabi, dei talebani, degli integralisti islamici. Tutto questo perché si sa, quando la popolazione ha paura di venir sottratta della propria libertà da un nemico esterno preferisce vedersi negare della stessa dal pseudo-amico interno, che si dipinge come il difensore della democrazia ed il protettore dei diritti individuali di ogni libero cittadino.

Solo che le cose non stanno così. Non stanno così e le prove che confutano in tutto e per tutto ogni singolo avvenimento dell'undici settembre duemilauno sono innumerevoli, e soltanto chi non vuole vederle continua a pensare che fosse Al Qaeda il mandante degli attacchi. Già, chi non vuol vedere... e chi non vuol far vedere... 

Ma le immagini e le perizie indipendenti parlano chiaro:

- partendo da quel che più ha sconvolto gli occhi di tutto il mondo, ovvero dall'attacco alle Torri gemelle con il conseguente crollo: le prove del fatto che le cose non stavano andando come ci stavano raccontando erano sotto gli occhi di tutti sin da subito. Innanzi tutto in un Paese come gli Stati Uniti, dove è di stanza l'esercito più potente ed efficiente del mondo, dove la tecnologia è al vertice, perdere quattro aerei nel giro di un'ora è impossibile, e non avere il tempo di raggiungerli con i caccia per intercettarli lo è altrettanto. Il nord-est degli Stati Uniti è costellato di basi militari, ed in pochi minuti ogni singolo aereo sarebbe stato a portata di missile evitando ogni possibile attentato. Ma questo non è avvenuto, e non credo proprio perché si voleva evitare di far saltare quattro aerei commerciali carichi di passeggeri (stiamo parlando degli Stati Uniti, gli stessi che volevano abbattere un aereo con studenti universitari americani nei pressi dei Caraibi per dare la colpa alla Cuba comunista). Inoltre Bush poco dopo lo schianto del primo aereo contro la prima torre sostiene di aver visto le immagini dell'impatto, quando ancora adesso è praticamente impossibile trovarne dei filmati, per cui se ha visto è perché qualcuno già sapeva, nei servizi segreti, dove l'aereo sarebbe andato a colpire. Ma queste possono essere considerate chiacchiere da bar e nulla più, illazioni di un anti-americano comunista difensore dei poveri arabi che da 1400 anni vengono additati come responsabili di ogni fatto riguardante il povero vecchio Occidente... e lo posso accettare... per cui prendiamo in considerazione ciò che non può essere supposizione, ciò che non può essere piegato e sottoposto a deformazione da un'ideologia o da un pensiero filosofico-politico... prendiamo in considerazione i fatti scientifici... le Torri Gemelle erano alte circa 400 metri, sono state colpite più o meno a tre quarti della loro altezza ed ovviamente entrambi gli aerei, quando sono andatti ad impattare contro i due grattacieli, sono esplosi dando luogo agli incendi. Il kerosene, per quanto abbondante possa essere, non può superare in alcuna condizione i mille gradi di temperatura, comunque insufficienti per far fondere l'acciaio (temperatura di fusione 1500°C, e di certo non basta un'ora di esposizione per rendere inconsistente una tale massa d'acciaio) del quale erano composte le strutture dei due edifici. Edifici che oltre tutto erano stati costruiti già con l'idea che sarebbero potuti essere colpiti da aerei e per cui progettati in modo da poter sopravvivere ad un attentato di questo tipo. Per cui come mai sono crollati? Erano stati progettati male? E se sì, gli ingegneri che li hanno progettati sono stati messi sotto inchiesta? La risposta è no in entrambi i casi. Sono crollati perché sono stati fatti implodere, sono stati minati da cima a fondo, fin nelle fondamenta. Come nelle demolizioni controllate. Se si crede ciecamente alla versione ufficiale sicuramente non basterà questo elemento, ma per l'appunto non è l'unico. Mettendo anche per assurdo che sono crollati a causa dell'attacco terroristico arabo, è fisicamente e statisticamente impossibile che siano collassati su se stessi anziché andare in frantumi adagiandosi su un lato e coinvolgendo altri edifici. E' impossibile. Le due torri sono crollate su se stesse, ad una velocità oltre tutto spaventosamente alta, come se sotto non ci fosse il vuoto... perché sotto C'ERA il vuoto... facendo detonare le cariche dal basso verso l'alto ogni piano sottostante creava il vuoto per quello soprastante, per cui non v'era alcun attrito che potesse limitare la velocità di caduta delle torri. Le torri sono cadute alla stessa velocità con la quale cade un oggetto dall'altezza di quattrocento metri nel vuoto.. e non sono ipotesi, sono i fatti, è la teoria dei gravi di Galilei, ed onestamente mi fido di più di lui che di Bush e del suo staff... come ultimi due tre-elementi, c'era la quasi totale assenza di macerie più grandi di 10 centimetri, di scrivanie, di oggetti di grandi dimensioni... non c'era niente, se non una quantità enorme di polvere... polvere che, una volta analizzata, ha presentato tracce di materiale esplosivo al suo interno... che combinazione, eh?
Per concludere, questo discorso vale anche per l'edificio 7, con l'aggravante che questo non è stato colpito da un aereo, è stato solo interessato dalle fiamme, ma il discorso fatto sopra è valido anche in questa situazione.

- per quanto riguarda il Pentagono, la versione ufficiale sostiene che sia stato colpito da un aereo di linea, dritto per dritto, su un fianco della struttura esterna. Solo che ci sono troppe incongruenze: non ci sono rottami dell'aereo, il foro di entrata non può assolutamente "ospitare" il muso di un Boeing, un aereo commerciale non è in grado di mantenere una rotta a pochi metri di altezza ad una velocità stimata attorno ai 700km/h e casualmente ogni singola telecamera che puntava il proprio obiettivo verso il lato interessato dall'attacco è stata requisita (parlo di quelle che non erano del Pentagono, dato che queste ultime stranamente non erano in funzione). Inoltre colui che è stato considerato come il dirottatore e pilota dell'aereo non sarebbe mai stato in grado di fare, alla luce della sua inesperienza, alcuna manovra con un velivolo del genere, visto che è quasi impossibile anche per i piloti più esperti con mezzi meno pesanti. Per non parlare poi di altri dati che confutano palesemente anche in questo caso la teoria del governo, ma già mi sto incazzando a scrivere i più eclatanti, se devo stare a citare le finestre integre, i falsi motori che sono stati mostrati (grandi un quinto di quelli dei Boeing) etc etc mi incazzo ancora di più. Di conseguenza, anche qui, la montatura non regge.

- infine abbiamo l'aereo che si è andato a schiantare in Pennsylvenia. Altro Boeing, stesso problema di quello del Pentagono. Il cratere di impatto è minuscolo rispetto a quello che può creare un bestione di 150 tonnellate in caduta libera, i resti ritrovati non coincidono con quelli di un aereo commerciale, sia per dimensioni che per numero di pezzi ritrovati, non vi era odore di kerosene bruciato nell'aria.. e se poteva essere credibile il fatto che fosse stato intercettato ed abbatuto, il Governo ha prontamente smentito quest'ipotesi (che tra l'altro poteva anche essere accettabile...).

Non sto a considerare i discorsi relativi ai possibili aerei scambiati e telecomandati, non sto a mettere in luce il fatto che sembra da alcune immagini che l'aereo che ha colpito la seconda torre fosse senza finestre, perché ritengo già sufficienti gli elementi sopra per ritenere come principali responsabili di questo attacco agli Stati Uniti gli Stati Uniti stessi. Perché posso anche credere al fatto che gli aerei siano stati dirottati da Al Qaeda, ma tutti sappiamo che Al Qaeda era un corpo della CIA, per cui sebbene la manodopera fosse straniera chi metteva i soldi era comunque il Governo americano.

...ma poi il discorso è semplice. Gli Stati Uniti hanno l'esercito più grande del mondo ed il fatturato più alto a livello planetario derivante dal commercio di armi. Queste armi però vanno usate perché altrimenti non si può produrne altre, mica si può dar ragione a Marx facendo crollare il proprio settore più forte a causa della sovraproduzione e della mancanza di domanda. Per cui gli Stati Uniti necessitano dal 1942 a questa parte di smaltire i loro armamenti sul nemico mondiale di turno: la Germania nazista, il Giappone, la Corea, il Vietnam, l'Iraq, la Jugoslavia, l'Afghanistan, l'Iraq2 la vendetta, la Libia, la Siria, l'Ucraina (per non parlare della Palestina); per non parlare della vendita di armi ai movimenti filo-americani in Sud America, in Africa ed in Medio Oriente... e tutto questo sistema si è caricato ancora più di importanza da quando l'Unione Sovietica è collassata, perché la paura del comunismo era più che sufficiente per giustificare alla popolazione statunitense ed agli alleati europei la leadership militare e la collocazione di basi militari con relativi armamenti in tutto il mondo, ma ora che il problema comunismo non c'è più (sfortunatamente) qualcosa si son dovuti inventare. Ed un nemico invisibile, senza bandiera, senza identità, ma soprattutto inventato, come il Terrorismo su scala globale, è lo spettro perfetto per infestare gli incubi degli occidentali.

Ci tengo a precisare che tutte queste cose sono facili da reperire, a partire da Fahrenheit 9/11 fino ad arrivare all'inchiesta di Giulietto Chiesa... ma soprattutto basta aprire gli occhi, usarli, vedere con gli occhi che avete poco sopra il naso e pensare con la vostra testa. Vedere non può impedirvelo nessuno, nemmeno voi (sempre che non chiudiate gli occhi); guardare.. guardare è un altro discorso, se vi fate convincere che l'elemento fondamentale di qualsivoglia immagine è l'1% dell'immagine stessa, beh, tanto vale che ve lo facciate raccontare e vi risparmiate la fatica.


E sembra un revival quello che ora stiamo vivendo. Sarò ripetitivo in questi giorni, ma tanto per cambiare Guccini anni fa scrisse una canzone dedicata a Silvia Baraldini, incarcerata negli Stati Uniti ufficialmente per rapina, ma nella realtà dei fatti perché comunista ed eversiva in un Paese che tutto è tranne che libero. Ed oggi questa canzone assume un nuovo significato, diventa per Giulietto anziché per Silvia, ma il messaggio è lo stesso, e la cruda realtà contenuta nell'ultimo verso è nuovamente, tristemente, tema attuale.




Stefano Tortelli (testo in corsivo 11-09-2014)



Camere unite, camere separate




Teoricamente avrei dovuto avvisare mia zia che sarei arrivato di lì a poco circa un quarto d'ora fa, appena staccato dal volontariato, per avere già la cena preparata dalle amorevoli mani di una donna che più che zia per me è sempre stata ed è tutt'ora una nonna, non tanto anagraficamente parlando quanto per il modo di essere con me.
Ma come dicevo ieri quando bisogna scrivere, quando si ha fame di lettere, tutto il resto viene dopo. L'amore del resto è così, non ci si può far nulla, fa passare tutto quanto in secondo piano anche quando il tutto è fondamentale per la vita stessa.
Colpa di un libro, colpa di un autore, del quale ho scoperto da Facebook che oggi ricade l'anniversario della morte. Fin qui tutto bene, ma non è un autore come un altro: è un simbolo, un simbolo come altri che ha contraddistinto in modo estremamente intenso un periodo altrettanto pieno di emozioni, di passioni, di felicità. 
Il suo nome giunse davanti ai miei occhi un giorno come un altro, tramite un messaggio privato su Facebook, scrittomi da una donna alla quale mesi prima feci leggere alcune mie cose. Perché è così che funziona: ci si conosce, si parla, ci si confida le proprie passioni e si arriva a volerle condividere tramite un file word o un link di una canzone. Mi disse: leggilo, nel suo modo di scrivere ci ritrovo molto del tuo, non so spiegarti perché, ma prova e poi dimmi. Insieme all'autore c'era anche il titolo di un suo libro, io la ringraziai sin da subito benché non conoscessi minimamente di lui, e scherzai sul fatto che forse la similitudine stava nell'assonanza tra i nostri cognomi. Il giorno dopo presi la metropolitana, dal centro raggiunsi il Lingotto, entrai nella stessa Feltrinelli nella quale ora lavoro e della quale parlai in Come api, e presi uno dei libri dell'autore. Non era quello da Lei consigliato, non ce l'avevano, e ripiegai su quello che è considerato il suo masterpiece (benché io non la pensi così, e non sono il solo). Andai in un bar e cominciai a leggere i primi racconti, non capii dove trovasse i punti in comune con il mio modo di scrivere e le chiesi. Lei mi riprese, dicendomi che per l'appunto era il libro sbagliato, che avrei dovuto trovare quello che Lei mi aveva suggerito. 
Nel mentre finii quello che comprai. Poi, dopo qualche tempo, Quel libro lo ebbi, e non perché lo comprai, non perché lo presi in biblioteca. Me lo diede Lei, che coprì un giorno come tanti ma diverso dagli altri le distanze che ci Separavano, ritrovandoci a condividere per la prima volta le stesse camere, gli stessi luoghi, la stessa aria. Vivemmo per la prima volta le nostre Camere Unite, spazi limitati che per noi erano enormi: non ci serviva tutto quello spazio, non ci è mai servito, eravamo rimasti lontani per così tanto tempo, sognandoci e desiderandoci, che era come bestemmiare stare anche solo a venti centimetri di distanza l'uno dall'altro. Ed altre camere si sono succedute nei nostri incontri successivi, quando delegavamo ai treni il compito di fagocitare le rotaie che ci separavano per renderci di nuovo un tutt'uno, una cosa sola, un qualcosa che, chissà come, chissà per quale ragione superiore, era riuscito a ricongiungersi, nonostante i mille ostacoli, nonostante le milioni di possibilità di fallimento. 
Solo che si sa come vanno queste cose, Guccini dice che "ogni storia ha la stessa illusione, sua conclusione... il peccato fu creder speciale una storia normale...". Di normale, qui, non c'era assolutamente nulla; di normale, qui, non c'era nemmeno l'ombra. E ce ne accorgemmo negli sguardi dei passanti, nell'essere così diversi rispetto al passato, nell'essere se stessi per la prima volta, dopo anni ed anni di limitazioni autoimposteci o imposte da agenti esterni. Nonostante questo ora le nostre sono Camere separate, separate da centinaia di chilometri, separate da qualcosa di difficile definizione ma che non ci permette di ricongiungersi. Del resto il problema dei Figli della Luna era che sì, condividevano lo stesso corpo, condividevano tutto, ma sfortunatamente guardavano in direzioni opposte. E si può anche essere schiena contro schiena, ma se non si trova la forza di girarsi entrambi non ci si riconoscerà mai. 
Ma Camere separate è lei, Pier Vittorio Tondelli è lei: o meglio è una sua manifestazione, o meglio è un suo dono, uno dei primi. Cominciammo a leggerlo in due momenti diversi, ma non so per quale motivo entrambi ci fermammo allo stesso punto del libro, meravigliandoci quando, in una delle nostre camere unite, guardando i nostri rispettivi libri, ci accorgemmo che ci eravamo fermati allo stesso paragrafo.
Non mi stupirei se un giorno, da non so dove, Tondelli possa vederci entrambi riprendere o ricominciare, nello stesso giorno, quel libro, per continuare quella storia, per assaporarla fino in fondo, non adducendo scuse di tempo mancante o di ricordi troppo dolorosi. Ci vuole poco, del resto, a farli diventare magnifici.

Ad accompagnare questo post voglio mettere una canzone di un gruppo che Lei mi fece conoscere, e che, con le dovute proporzioni, è paragonabile a Tondelli ed alle sue Camere separate. 
Del resto ogni persona ed ogni cosa che ho vissuto resta inevitabilmente parte di me: a volte asportata, lascia una cicatrice enorme, ma sempre parte di me è. E sempre lo sarà.




Stefano Tortelli

Produci, consuma, crepa

Benché ormai, con la diffusione a livello globale di Internet, i contenitori atti ad ospitare le pubblicità siano in ogni angolo del nostro quotidiano, lo spot pubblicitario televisivo è ancora il leader incontrastato in questo mondo consumatore. Durante i Mondiali di calcio avevo letto alcuni articoli riguardanti il costo di uno spazio di quindici secondi durante la finale del torneo: cifre da capogiro, cifre che un consumatore medio può mettere insieme, se va bene, in due o tre anni di lavoro. E' un mercato da far spavento, quello delle pubblicità. Guardando Supersize me, poi, fa ribrezzo dover venire a conoscenza del fatto che le principali catene di fast food americane investono più del 50% del loro fatturato in.... PUBBLICITA'. Perché non ha importanza la qualità del prodotto, l'importante è che la pubblicità sia efficace, l'importante è dare un'immagine; che poi rispecchi la realtà dei fatti è insignificante, è un dettaglio, sono quisquilie. 
E del resto in un mondo in cui la femmina compra i push up ed il maschio "infarcisce" il pacco, beh, c'è poco da sorprendersi. L'apparenza regna sovrana, e lo fa soprattutto quando è necessario creare un'immagine estremamente indelebile dato che il prodotto che promuove non è percepibile: penso alle pubblicità riguardanti il cibo, dove "se mangi il prodotto X avrai una famiglia felice, sarai magro e tutte faranno a gara per uscire con te", dove il bimbo va ad espletare le sue funzioni vitali perché dal suo vicino di casa c'è il deodorante che rende il tutto più gradevole e goliardico... e poi ci sono le migliori, quelle che mi incuriosiscono di più, quelle che non riesco a capire, quelle che sono così assurde che spesso mi chiedo come diavolo sia venuto in mente al plurilaureato in comunicazione e marketing di mettere insieme immagini senza senso che nulla dicono del prodotto in questione: le pubblicità dei profumi. 
Costano l'ira di dio, al giorno d'oggi, i profumi. Costano ed è sempre complicato sceglierli, sia se si devono regalare sia se li si deve scegliere per sé. Richiede tempo, oltre tutto, la scelta di un profumo, richiede condizioni particolari (naso estremamente ricettivo, zero influenze da altri odori circostanti, ed in profumeria è praticamente impossibile che questa condizione si verifichi, la fortuna di essere catturati da una fragranza entro i primi 4-5 provati perché poi è provato che non si sente più la differenza, etc etc), e per cui quale mezzo migliore di una pubblicità ad effetto per rendere più semplice al consumatore la scelta?? Ah, santa pubblicità, che scendi in aiuto del povero cliente che ha bisogno di scegliere in fretta ed al meglio!!  E per cui ecco decine di modelle e modelli seminudi che si attraggono alla prima spruzzata, neanche la boccetta contenesse feromoni concentrati, ecco che il profumo, messo quando ancora il protagonista è semi-svestito, porta o all'essere completamente nudi, impegnati in un amplesso senza precedenti in grado di far risvegliare un intero palazzo, oppure al comparire di vestiti di classe, gioielli ed orologi sgargianti. Perché mica quel profumo ti renderà un barbone, un operaio, un impiegato, un commesso!? No, tu premi il tasto e per magia la fragranza miracolosa ti renderà un Dio sceso in terra, che ha donne o uomini, soldi e lusso a palate. 

La verità invece è che, nei limiti della decenza, nulla di ciò che ricopre il tuo corpo, dal profumo al vestito, passando per i gioielli e le scarpe (ma anche la macchina, ormai, è un accessorio paragonabile ad un capo d'abbigliamento), dovrebbe influire sul tuo essere o meno affascinante, sul tuo potere di attrarre a te ciò che desideri, sia una persona, sia la fama, sia la felicità. 
Ma in un mondo dove il dio denaro regna sovrano ovviamente tutto passa dall'omaggiare quest'idolo, ed omaggiarlo significa non solo possederlo, ma anche spenderlo, come preghiere da dire nel momento del bisogno, come sacrifici atti ad un bene superiore.
Ed è questo il fulcro del discorso: il DENARO in sé non è un ben superiore, il DENARO in sé non è un fine. Il denaro è un mezzo per i beni superiori, è equiparabile alla strada che divide due paesi. E tu sei abituato ad usare quella strada, prendere il tuo mezzo privato o pubblico e percorrerla, quasi senza farci caso, per giungere alla propria meta. Quando di vie alternative ce ne sono a bizzeffe, ma ormai nei tuoi schemi mentali Via Denaro è la più usata, la più ovvia, la più facile.... ma è anche quella che ti mette l'ansia continua, è quella che posticipa l'uscire di casa dei giovani, è quella che abbassa la natalità in termini di numero di nascituri annui ma aumenta l'età in cui si hanno figli, è quella che ci mette l'uno contro l'altro, è quella per la quale si sono "spese" milioni di vite lungo l'asse del tempo.
E questo perché ci siamo dimenticati che null'altro è che una strada, una delle tante percorribili tra l'altro, non un luogo da raggiungere, non lo scopo. Ma in questo mondo del "Produci, consuma, crepa", dove questi imperativi sono le uniche cose che per certo devi fare per essere un membro utile alla società, beh, le cose cambiano. Il denaro è il fine, e ciò che puoi comprare con esso è una questione secondaria (siamo pieni di cose inutili in casa, ma l'erezione che ci ha dato comprarle è stata impagabile.. anzi no, sono 49,99€, paga in contanti o bancomat??), è un adesivo da appiccicare sulla pagina bianca che rappresentiamo, ed è bianca perché, così tanto impegnati a cercare un modo che contemplasse l'uso del denaro per renderla più colorata, ma comunque bianca, non ci siamo mai preoccupati di scriverla, di disegnarla, di pentagrammarla.

Ed eccoci quindi al vuoto culturale di chi ci governa, di chi usa i soldi come fossero coriandoli, di chi è a capo delle imprese e delle industrie, di chi ha sposato la carriera anziché la propria moglie o il proprio marito, di chi vede come figli il macchinone in garage o la vacanza alle Maldive.. e del resto è più facile amare ciò che è inanimato, del resto quando poi lo abbandonerai, quando poi finirà, mica dovrai continuare a prendertene cura, mica dovrai dargli spiegazioni, mica verserai o farai versare lacrime. Che problema c'è!? Sono oggetti, sono servizi... ma sono oggetti e servizi che sono stati resi disponibili da chi invece piange perché non può arrivare a fine mese, da chi non sa come dare da mangiare ai propri figli o renderli felici in un mondo come questo, da chi si vede andar via il partner perché la felicità ormai passa dall'averli o non averli, questi dannatissimi soldi. 

Ma prima o poi, come profeticamente disse Nuvola Rossa, ce ne accorgeremo. Anzi, se ne accorgeranno.
"Nuvola Rossa, grande capo indiano, una volta disse ad un uomo bianco: quando avrete prosciugato l'ultimo dei fiumi e tagliato l'ultimo degli alberi, ucciso l'ultimo dei bisonti e magari pescato anche l'ultimo dei pesci, allora ma neppure un attimo prima, capirete che non potete mangiare i vostri inutilissimi soldi".

Nuvola Rossa l'aveva capito molto presto, e da osservatore esterno del capitalismo ne capì al volo l'assurdità. Cerchiamo tutti di essere come lui. Ed interrompiamo il mantra occidentale del "Produci, consuma, crepa"... del resto questa canzone non si intitola "Vivere", si intitola "Morire".


Stefano Tortelli

lunedì 15 dicembre 2014

Canzone della sera #2

Stasera vi saluto con una canzone che per molti motivi in passato ho fatto mia. L'ho canticchiata quando dividevo parte del mio spuntino di mezzanotte con Thor, il mio cane, l'ho fischiettata quando da ragazzo di campagna cercavo di trovare il modo per impormi in un diverso universo, l'ho pensata più volte quando mi sono abbandonato ai piaceri della vita (c'è chi li chiama peccati, io li chiamo "sacramenti"). 
Ed ora mi ritrovo a cantarla davanti allo specchio, rivedendo i miei capelli lunghi e sciolti dopo tanto tempo: capelli che s'erano stufati di rimanere legati, tanto che quelli più indomiti sfuggivano dal codino che gli imponevo, preferendo continuare ad accarezzare le spalle o coprirmi il viso. E che incoerente che sono stato, io che ho sempre odiato le costrizioni e la limitata libertà di agire, a volerli limitare in così pochi centimetri, compressi l'uno contro l'altro, privi dell'aria e dello spazio necessario per garantire loro una convivenza serena e felice. 

Perché del resto una coda di capelli è un po' come lo specchio della nostra società odierna: ci stipano in costruzioni atte, la mattina, a riversare migliaia di persone che null'altro sono se non merci, pronte ad occupare i mezzi pubblici, ammassandosi ed odiandosi, quando invece, venisse lasciata loro libertà di espressione, libertà di azione, potrebbero convivere in armonia, alimentando le proprie passioni, comunicando, amando. 

E per cui Confessioni di un malandrino è una dedica ai miei capelli, fautori di una ribellione ai lacci da me imposti (perché un elastico, per quanto elastico sia, sempre un legaccio è, sempre una briglia, sempre un confine ben delimitato dal quale solo il più tenace può scappare). Si sono guadagnati la libertà sul campo, combattendo, resistendo. Ed a loro, da sconfitto, rendo onore.




Stefano Tortelli


Droghe stilografiche e crisi d'astinenza

Non dovrei essere a casa in questo momento, teoricamente dovrei essere ancora in centro a Torino, aspettando tra un bar ed i portici l'ora giusta per prendere il 18 e raggiungere il Lingotto per cominciare alle 17 il turno di volontariato. Ma sono tornato a quella che nei giorni feriali, in queste ultime settimane, considero casa. Che poi il concetto di casa sarebbe da approfondire, noi italiani ci siamo limitati ad utilizzare il segno 'casa' sia per definire la costruzione adibita ad abitazione sia per determinare in senso lato l'appartenenza ad un luogo. Per me casa è stato ogni posto in cui mi sono trovato totalmente a mio agio, ogni posto in cui non ho sentito la mancanza di nulla e nessuno, perché in quel momento, in quella dimensione, c'era tutto ciò di desideravo la presenza. Ed è così che mi sono ritrovato a chiamare "casa" una stanza di ostello, l'appartamento a Roma condiviso con i miei amici durante una vacanza, ed in questo caso la casa dei miei zii. 
Ma come dicevo non dovrei essere a casa.. ma un po' per il clima poco congeniale al perdere tempo, un po' che avendo dormito poco ho preferito riposare un po' le membra stanche sul divano prima del rush tardo pomeridiano, un po' per... no, sono scuse, queste sono motivazioni addotte giusto per nascondere la realtà dei fatti: avevo voglia di scrivere, anzi il bisogno, e detestavo l'idea di rimanere con le mani in mano per tre ore anziché aprirle sulla tastiera e dare sfogo ai miei pensieri. Ero in crisi d'astinenza, ed a volte nemmeno lo scrivere è sufficiente per farla passare. Del resto Schopenhauer sottolineava come una volta raggiunto il piacere l'individuo aveva un attimo di puro godimento per poi subito ricadere nella disperazione poiché il piacere era finito ed era necessario patire nuovamente per riappropriarsi di un nuovo attimo di estasi. Non condivido in toto questa sua tesi, poiché godimento per me non è sinonimo di felicità: si può essere felici senza particolari picchi di piacere, ma forse perché si viaggia già ad un livello di benessere tale che andare oltre è quasi impossibile. E poi è la biografia dei miei primi ventiquattro anni a parlare per me: raramente mi sono perso in piaceri fini a se stessi, raramente ho posseduto momenti che oltre all'estasi del momento risultassero vuoti senza sfociare in qualcosa di duraturo; ma non significa che non abbia mai conosciuto la felicità, anzi!! Dopo più di un anno porto ancora sulla pelle i segni del mio esser stato a Roma per il concerto di Roger Waters, e chi ha letto Il vallo di Roger lo sa, ancora mi strappano sorrisi e commozione i ricordi positivi legati alle ragazze avute in passato, ancora rido a distanza di mesi od anni ad una battuta detta in un momento qualsiasi con gli amici o i genitori. Ed un po' questo dev'essere dovuto al mio privilegiare l'Essere stato partecipe di un determinato evento, e quindi aver condiviso manifestandomi, anziché l'aver fatto questa o quella cosa, da mettere in un curriculum vitae insignificante e fine a se stesso. E' un po' la differenza tra lo studiare interiorizzando e lo studiare a memoria: nel primo modo ciò che si impara raggiunge il profondo, penetra nella pelle e diventa parte del sé, nel secondo modo tutto rimane in superficie, aggrappato con le unghie e con i denti ai peli il tempo necessario per dover esporre ciò che si è memorizzato. Ma alla prima doccia, alla prima pioggia, tutto scivola via.

Ma tornando alla scrittura ed alle crisi di astinenza (spesso perdo il focus del discorso, e chi ha avuto modo di discorrere con me per ore sa bene che ad un certo punto mi chiedo sovente da dove diavolo ero partito), ho cominciato a drogarmi molto presto: mi ricordo che da piccolo, quando ancora andavo all'asilo, con la macchina da scrivere di mio zio scrivevo storielle con l'aiuto di mia nonna, che per me è stata una straordinaria maestra, che per me è stata una seconda madre; e poi, qualche anno dopo, cominciai a tenere il mio primo quaderno sul quale scrivevo temi riguardanti avventure in terre straniere (ricordo un viaggio sull'Isola di Pasqua con i miei amici delle elementari a cercare la parte inferiore dei Moai) o in mondi fantastici (gettonatissime erano le mie battaglie ambientate nel videogioco Age of Empires, del quale un giorno scriverò).  Ma il grande periodo è stato quello delle medie: avevo come professoressa di italiano una Donna fantastica, mancata due anni fa (ed appena torno alla mia reale casa copierò ciò cosa scrissi la sera che seppi del suo "ultimo viaggio"), che per prima ha capito tutto di me. L'odio per la scuola, l'odio per le istituzioni, l'odio per gli orari, l'odio per tutto ciò che è imposto senza un reale motivo se non quello di vessare l'individuo (e se lo chiede anche il Blasfemo di De André, se ci pensate). Mi ricordo il primo tema, riguardo la gita fatta in prima media: sufficiente, il minimo indispensabile, grammaticamente ed ortograficamente corretto ma vuoto di contenuti e con una pessima esposizione. Fu un colpo tremendo, lo ammetto, perché dopo anni passati con l'ottimo fisso di italiano alle elementari, in ogni verifica ed in ogni pagella, un salto così indietro non me lo sarei mai aspettato. 
Ma cercai di capire cosa intendesse dire con quel commento: Stefano, le basi ci sono, le regole le sai, fai viaggiare di più la tua mente, raccogli più materiale che puoi, ed allo stesso tempo dagli una forma regolare, logica, facile da capire ma allo stesso tempo stilisticamente buona. 

E fu così che all'ultimo tema di terza media mi ritrovai a leggere la mia produzione riguardante Bush e la guerra in Iraq davanti alla classe, con la voce un po' emozionata ed il sorriso di Margherita a fare da sfondo sfocato oltre il foglio protocollo. Da allora non ho mai smesso di cercare di migliorarmi, ed anche la professoressa di lettere di prima superiore in primis, ma anche il professore di italiano di quarta e quinta dopo, sono stati stimoli enormi per continuare su questa strada. Nel mentre ho cominciato a scrivere i miei primi diari, a chattare con persone che ritengo estremamente intelligenti conosciute su un forum, a cercare costantemente il dialogo, provando anche a muovermi sull'asse diamesico trasportando le mie capacità dalla scrittura all'oratoria (che per molto tempo è stato il mio tallone d'Achille a scuola durante le interrogazioni orali; ed in questo è stata grande l'Oddenino, la prof di italiano di prima, che ha saputo sgrezzare le mie capacità ed a rendermi meno timoroso). 

La scrittura dunque mi ha sempre accompagnato e caratterizzato, tanto quanto il canto, per non parlare delle mie idee politiche ed altre mie passioni. Ma più di tutte la scrittura mi ha permesso una cosa, che anche in questo momento, quasi inconsapevolmente, sto facendo: mostrarmi, espormi, raccontarmi, compromettermi, buttarmi nella mischia. L'ho fatto spesso anche a voce, ma il timbro ed il tono, l'umore ed il contesto spesso amplificano o limitano certe espressioni. 
Nella scrittura questo non succede: si può scrivere su un foglio bianco come su un foglio giallo, a righe o a quadretti, su un rotolo vuoto di carta igienica o sul corpo di una persona con un inchiostro immaginario. Quel che si scrive non si compromette, non subisce influenze esterne, non ha un tono o un timbro che possono renderlo più o meno piacevole. E' così, è un codice, è quasi matematico. Se tre lettere una in fila all'altra significano un determinato oggetto o concetto, sempre significheranno ciò. 

Da qui non si scappa. Ed è per questo che adoro la scrittura e mi ci perdo ogni volta, drogandomene finché ce n'è. E' senza fronzoli, diretta, quasi violenta. Ma ti apre mondi che nessun'altra forma di espressione può spalancare.

Citai Cirano qualche giorno fa, e credo che ci stia tutta, ora, per accompagnare queste mie parole. Un'ode alla scrittura più bella di questa canzone di Guccini credo non ci sia, almeno in campo musicale.




Stefano Tortelli


domenica 14 dicembre 2014

Guerriero

Qualche giorno fa (in Canzone del mattino #6) descrivevo le arti come armi in mano a combattenti mai domi, mai stanchi, sempre pronti per una nuova battaglia. In linea con Icaro, questa è un'altra mia composizione sul non arrendersi mai, anche se le ferite fanno male, anche se le cicatrici ricordano le sconfitte, anche se la polvere dell'ultima battaglia ricopre ancora il volto non permettendoci di riconoscerci davanti allo specchio.

Ma c'è sempre un nuovo vento pronto a scompigliare i capelli, a ripulire il viso, a purificare le ferite. E quando soffia il vento, si può indossare nuovamente l'armatura, impugnare la propria arma e continuare la propria lotta.

Guerriero, non aver fretta nel voler rimarginare le ferite.
Guerriero, non ignorare le cicatrici che nascondi sotto l'armatura.
Guerriero, non agognare la purificazione, non cercare l'altrui perdono.
Guerriero, non dimenticarti le battaglie passate. Quelle vinte, ma soprattutto quelle perse.
Guerriero, lascia che la polvere ed il sudore dell'ultimo campo di battaglia si disperdano nel vento dei giorni a venire.
E poi riarmati, guerriero, riappropriati di te stesso.
E ritorna in campo, per una nuova battaglia. Per essere nuovamente l'eroe del giorno.



L'eroe del giorno è sempre stato il mio mantra, il mio scopo, il mio leitmotiv, l'obiettivo primo ed ultimo di ogni giorno. E ci sono tanti modi per poter arrivare a fine giornata e dire: sì, anche oggi ce l'ho fatta. E poi, con una canzone come questa come manifesto, come si fa a non voler aspirare ad essere ciò!? (Questa versione mi è sempre stata estremamente cara, l'ho sempre considerata superiore all'originale di Load. E da qualche mese ha un significato in più, che mai perderà. Perché ci sono delle canzoni che una volta acquisito un significato non possono più perderlo, riportandone alla luce ogni aspetto più bello, ogni esperienza ad esso legato, ogni emozione che ha ispirato. E la musica è questo, la musica è evocazione, è rievocazione, è riproposizione. La musica sa resuscitare qualsiasi cosa, perché la musica è il miglior sfondo possibile per il teatro dei ricordi)






Stefano Tortelli (testo in corsivo 05/11/2014)