domenica 21 dicembre 2014

Pierangelo Bertoli, il cantautore della porta accanto





Nelle ultime settimane sono a casa poco o nulla. Esco il lunedì mattina e torno il venerdì sera, rimanendo durante la settimana lontano dai miei genitori, dalla mia camera, dalla mia musica. Perché sebbene sul cellulare di musica ce ne stia parecchia, la memoria non è sufficiente per tutto ciò che vorrei portarmi dietro... Che poi si sa, si carica su questi dispositivi portatile una quantità immensa di canzoni, ma poi si gira sempre sulle stesse. 
Ed a casa, nonostante il catalogo di Spotify a disposizione, quattrocento album tra cd e vinili e le decine di migliaia di mp3 archiviati maniacalmente nel corso degli anni, mi ritrovo sempre lì: ed il lì è la playlist di Pierangelo Bertoli, una lacuna nel cellulare che inevitabilmente devo riempire quando mi riapproprio del mio spazio d'origine, di questo antro nel quale tutto è un mio specchio: dai Dylan Dog ai libri, dai vestiti alla strumentazione (la tastiera, la chitarra, il microfono, la cassa, il mixer...), dai miei vecchi quaderni ai sopracitati cd e vinili, arrivando a tutto ciò che è incollato alle ante dell'armadio: biglietti, scalette, poster, fotografie, ritagli di giornale. E guardo tutto ciò, tutto ciò che negli anni ho riportato a casa, tutto ciò che mi rispecchia, con un sottofondo ormai familiare, con una voce che sa di Casa.
Perché Bertoli, del resto, ha raccontato meglio di chiunque altro, con il lessico, per l'appunto, familiare, la quotidianità. Canta di lotte, Bertoli, canta d'amore, canta in dialetto, canta di autobus e metropolitane, canta delle sue esperienze in ogni campo in cui ha seminato. E tutto sommato Pierangelo è arrivato tardi tra questi muri: la mia adolescenza rimbalzava tra De André e Guccini, riposandosi ogni tanto tra le braccia di De Gregori insieme alla donna cannone, ma Bertoli lo intravedeva ogni tanto, tra i monti al crepuscolo o in compagnia di un pescatore instancabile. Per il resto è rimasto lì, nella penombra, in attesa che accendessi la luce. 
Ma poi è arrivato, vestito di rosso, armato della sua chitarra, delle sue innumerevoli sigarette, su quella sua sedia a rotelle che null'altro è se non un dettaglio del suo essere. E mi ha raccontato un sacco di storie: gli anni della contestazione, della lotta contro i ricchi ed i potenti, ma anche di personaggi di tutti i giorni, dei problemi dell'uomo qualunque, di amori che iniziano e che finiscono, di attese, di pensieri stallati chissà dove ma che lì sono e figuriamoci se decidono di ritornare a casa. Ed ha fatto tutto questo, come dicevo, con una chiarezza e con una semplicità disarmante: non aveva bisogno di parole difficili per abbellire i suoi pensieri. I suoi pensieri erano belli, anzi meravigliosi, già così. 
Ho avuto modo di conoscere suo figlio, Alberto, a luglio. Una persona squisita, che ha preso tutto del padre: la simpatia, la convinzione, lo sguardo profondo, la voce, i movimenti. Gli dissi, forse risultando indiscreto e spudorato, e magari anche un po' insensibile, che vedere lui sul palco era stato come ritrovarsi il padre, finalmente libero da quella sedia a rotelle, muoversi ed esprimersi completamente, senza quella limitazione che per tutta la vita l'ha accompagnato. E mi ha svelato che cosa io abbia perso nel non aver mai visto Pierangelo live: e non lo diceva perché ne è figlio, non lo diceva per un discorso d'affetto; lo diceva come un fan sfegatato di un artista al quale ispirarsi, del quale carpire tutti i segreti, al quale rendere omaggio in ogni occasione. E c'è poco da fare: l'espressività che accompagnava prima Pierangelo e che ora accompagna Alberto non ce l'ha avuta nessuno. A De André posso credere quando vedo i suoi video, come posso credere a Guccini, come posso credere a Bob Dylan o Leonard Cohen. Ai Bertoli, invece, devo credere, senza remore, senza pensare che forse cantano queste cose tanto per cantarle, senza pensare che hanno usato una determinata parola non tanto perché quella era la migliore per esprimersi ma perché ci stava bene per una questione di metrica, di suono, di rima. 

Pierangelo Bertoli è così: gli apri la porta delle tue orecchie e lui, a muso duro, come un parente, come un vicino di casa al quale si è legati, come un amico, ti dice ciò che pensa. E non puoi che essere d'accordo con lui, non puoi che annuire, non puoi che decidere di metterti al suo fianco per proseguire un discorso dalle mille sfaccettature che si è perso nei meandri del politically correct, dell'addolcire gli ideali per renderli più spendibili, del non scrivere certe cose per paura di non farcela. 
A muso duro sempre, Pierangelo. E non preoccuparti, il vento, davvero, soffia ancora; ed anche grazie a te continua ad essere alimentato.  

E voglio proporlo così, in compagnia dei Tazenda, a San Remo mentre canta davanti all'Italia intera quella che forse è la sua canzone più famosa. I motivi per cui la scelta va a questa sono molteplici, ma il principale è Andrea Parodi. Un altro grande della nostra musica che prima o poi farà capolino sul blog.
Del resto il mio è un Pantheon vastissimo, e da buon pagano, da buon praticante, non posso esimermi da omaggiare ogni divinità.



Stefano Tortelli

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