Tra poco uscirò per andare a trovare una coppia di amici, Sara e Bruno, che oggi cominciano il lungo trasloco che li porterà ad abitare nella casa alla quale stanno lavorando da diverso tempo. Un traguardo importante, che di questi giorni per molti è fuori portata ma che loro, a scapito dei tanti problemi che ogni giorno contraddistinguono la vita di ognuno di noi, con tanti sacrifici sono riusciti a tagliare. Loro vennero con me a Roma a sentire Roger Waters, da loro, nella loro ormai ex casa, facemmo la cena pre-concerto guardando il film The Wall accompagnato da pizza e birra, con loro ho passato molte serate alla Birreria dell'Orso, uno dei diversi ritrovi di noi amanti della musica e delle bionde fresche. Un mese fa mi chiesero di procurargli l'ultimo disco dei Pink Floyd, "The Endless River", in un qualsiasi negozio a Torino, ed a causa dei rispettivi impegni non siamo mai riusciti a trovarci da allora.
Ma ora mi ritrovo con l'album in mano, ripensando alle emozioni che mi donò ed a ciò che scrissi dopo il primo ascolto, il giorno stessa della sua uscita nei negozi. Ed ecco che qui ripropongo quelle mie parole tra le quali è facilmente riscontrabile la mia enorme stima e gratitudine che provo nei confronti di quei quattro pazzi inglesi che hanno inequivocabilmente caratterizzato buona parte della mia vita, sia interiormente sia esteriormente (prova ne è un murale di Dark Side Of The Moon in camera).
E' il primo (e probabilmente sarà anche l'ultimo) album che i Pink Floyd pubblicano da quando li seguo. Era il 1994 quando pubblicarono The Division Bell, da allora sono passati 20 anni, e gli ultimi dieci di questi li ho passati a conoscerne l'intera discografia, ad emozionarmi con ogni loro album, a trovare un nuovo senso ad ogni nuovo ascolto. Ed anche andando controcorrente, amando alla follia un disco disprezzato dai più come The Final Cut ed allo stesso tempo apprezzando non eccessivamente l'era Barrett..
Ho letto diversi commenti contrastanti a The Endless River: c'è chi l'ha amato, c'è chi lo rinnega, c'è chi si rifiuta di ascoltarlo.
Personalmente, ci ho ritrovato tutti gli elementi che più ho amato delle canzoni dei Pink Floyd: ci sono autocitazioni un po' ovunque, in questo disco, dai chiari riferimenti a Shine on you crazy diamond, dagli echi di Echoes, ai riferimenti agli ultimi lavori (soprattutto nell'ultima suite), passando per cenni di Atom heart mother (le campane che introducono Louder than words son le stesse di Fat Old Sun), The Wall ed anche improvvisazioni stile Live at Pompeii..
E' un sunto della storia dei Pink Floyd, obiettivo, limpido, sincero. E' la somma di tutte le parti di una carriera quasi cinquantennale che vanno a formare questa carrellata di ritagli, di scarti che nel suo insieme risulta però decisamente valida, mostrando ancora una volta, se ce ne fosse il bisogno, di che spessore sia la musica dei Pink Floyd.
Apprezzabilissimo, infine, l'aver scelto di non usare parole in un album che chiaramente punta il dito sull'assenza di comunicazione nel mondo d'oggi, ad onta degli infiniti strumenti che ci sono stati dati per farci credere che in ogni attimo possiamo comunicare. E Louder than words, unica canzone dell'album, esalta invece ciò che succede quando la comunicazione viene sfruttata, quando la comunicazione non è fine a se stessa ma allo scopo di unire, quando la comunicazione è confronto, scambio di idee, condivisione.
"It's louder than words
The sum of our parts
The beat of our hearts
Is louder than words
Louder than words"
Grazie Gilmour, grazie Mason, grazie Wright.
Grazie anche a Waters, a prescindere.
Inevitabilmente ecco l'ultima loro canzone. L'ultima di The Endless River, l'ultima del loro percorso. Ora, il fiume, è sfociato nel mare della leggenda.
Stefano Tortelli (parte in corsivo 07/11/2014)
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