Non dovrei essere a casa in questo momento, teoricamente dovrei essere ancora in centro a Torino, aspettando tra un bar ed i portici l'ora giusta per prendere il 18 e raggiungere il Lingotto per cominciare alle 17 il turno di volontariato. Ma sono tornato a quella che nei giorni feriali, in queste ultime settimane, considero casa. Che poi il concetto di casa sarebbe da approfondire, noi italiani ci siamo limitati ad utilizzare il segno 'casa' sia per definire la costruzione adibita ad abitazione sia per determinare in senso lato l'appartenenza ad un luogo. Per me casa è stato ogni posto in cui mi sono trovato totalmente a mio agio, ogni posto in cui non ho sentito la mancanza di nulla e nessuno, perché in quel momento, in quella dimensione, c'era tutto ciò di desideravo la presenza. Ed è così che mi sono ritrovato a chiamare "casa" una stanza di ostello, l'appartamento a Roma condiviso con i miei amici durante una vacanza, ed in questo caso la casa dei miei zii.
Ma come dicevo non dovrei essere a casa.. ma un po' per il clima poco congeniale al perdere tempo, un po' che avendo dormito poco ho preferito riposare un po' le membra stanche sul divano prima del rush tardo pomeridiano, un po' per... no, sono scuse, queste sono motivazioni addotte giusto per nascondere la realtà dei fatti: avevo voglia di scrivere, anzi il bisogno, e detestavo l'idea di rimanere con le mani in mano per tre ore anziché aprirle sulla tastiera e dare sfogo ai miei pensieri. Ero in crisi d'astinenza, ed a volte nemmeno lo scrivere è sufficiente per farla passare. Del resto Schopenhauer sottolineava come una volta raggiunto il piacere l'individuo aveva un attimo di puro godimento per poi subito ricadere nella disperazione poiché il piacere era finito ed era necessario patire nuovamente per riappropriarsi di un nuovo attimo di estasi. Non condivido in toto questa sua tesi, poiché godimento per me non è sinonimo di felicità: si può essere felici senza particolari picchi di piacere, ma forse perché si viaggia già ad un livello di benessere tale che andare oltre è quasi impossibile. E poi è la biografia dei miei primi ventiquattro anni a parlare per me: raramente mi sono perso in piaceri fini a se stessi, raramente ho posseduto momenti che oltre all'estasi del momento risultassero vuoti senza sfociare in qualcosa di duraturo; ma non significa che non abbia mai conosciuto la felicità, anzi!! Dopo più di un anno porto ancora sulla pelle i segni del mio esser stato a Roma per il concerto di Roger Waters, e chi ha letto Il vallo di Roger lo sa, ancora mi strappano sorrisi e commozione i ricordi positivi legati alle ragazze avute in passato, ancora rido a distanza di mesi od anni ad una battuta detta in un momento qualsiasi con gli amici o i genitori. Ed un po' questo dev'essere dovuto al mio privilegiare l'Essere stato partecipe di un determinato evento, e quindi aver condiviso manifestandomi, anziché l'aver fatto questa o quella cosa, da mettere in un curriculum vitae insignificante e fine a se stesso. E' un po' la differenza tra lo studiare interiorizzando e lo studiare a memoria: nel primo modo ciò che si impara raggiunge il profondo, penetra nella pelle e diventa parte del sé, nel secondo modo tutto rimane in superficie, aggrappato con le unghie e con i denti ai peli il tempo necessario per dover esporre ciò che si è memorizzato. Ma alla prima doccia, alla prima pioggia, tutto scivola via.
Ma tornando alla scrittura ed alle crisi di astinenza (spesso perdo il focus del discorso, e chi ha avuto modo di discorrere con me per ore sa bene che ad un certo punto mi chiedo sovente da dove diavolo ero partito), ho cominciato a drogarmi molto presto: mi ricordo che da piccolo, quando ancora andavo all'asilo, con la macchina da scrivere di mio zio scrivevo storielle con l'aiuto di mia nonna, che per me è stata una straordinaria maestra, che per me è stata una seconda madre; e poi, qualche anno dopo, cominciai a tenere il mio primo quaderno sul quale scrivevo temi riguardanti avventure in terre straniere (ricordo un viaggio sull'Isola di Pasqua con i miei amici delle elementari a cercare la parte inferiore dei Moai) o in mondi fantastici (gettonatissime erano le mie battaglie ambientate nel videogioco Age of Empires, del quale un giorno scriverò). Ma il grande periodo è stato quello delle medie: avevo come professoressa di italiano una Donna fantastica, mancata due anni fa (ed appena torno alla mia reale casa copierò ciò cosa scrissi la sera che seppi del suo "ultimo viaggio"), che per prima ha capito tutto di me. L'odio per la scuola, l'odio per le istituzioni, l'odio per gli orari, l'odio per tutto ciò che è imposto senza un reale motivo se non quello di vessare l'individuo (e se lo chiede anche il Blasfemo di De André, se ci pensate). Mi ricordo il primo tema, riguardo la gita fatta in prima media: sufficiente, il minimo indispensabile, grammaticamente ed ortograficamente corretto ma vuoto di contenuti e con una pessima esposizione. Fu un colpo tremendo, lo ammetto, perché dopo anni passati con l'ottimo fisso di italiano alle elementari, in ogni verifica ed in ogni pagella, un salto così indietro non me lo sarei mai aspettato.
Ma cercai di capire cosa intendesse dire con quel commento: Stefano, le basi ci sono, le regole le sai, fai viaggiare di più la tua mente, raccogli più materiale che puoi, ed allo stesso tempo dagli una forma regolare, logica, facile da capire ma allo stesso tempo stilisticamente buona.
E fu così che all'ultimo tema di terza media mi ritrovai a leggere la mia produzione riguardante Bush e la guerra in Iraq davanti alla classe, con la voce un po' emozionata ed il sorriso di Margherita a fare da sfondo sfocato oltre il foglio protocollo. Da allora non ho mai smesso di cercare di migliorarmi, ed anche la professoressa di lettere di prima superiore in primis, ma anche il professore di italiano di quarta e quinta dopo, sono stati stimoli enormi per continuare su questa strada. Nel mentre ho cominciato a scrivere i miei primi diari, a chattare con persone che ritengo estremamente intelligenti conosciute su un forum, a cercare costantemente il dialogo, provando anche a muovermi sull'asse diamesico trasportando le mie capacità dalla scrittura all'oratoria (che per molto tempo è stato il mio tallone d'Achille a scuola durante le interrogazioni orali; ed in questo è stata grande l'Oddenino, la prof di italiano di prima, che ha saputo sgrezzare le mie capacità ed a rendermi meno timoroso).
La scrittura dunque mi ha sempre accompagnato e caratterizzato, tanto quanto il canto, per non parlare delle mie idee politiche ed altre mie passioni. Ma più di tutte la scrittura mi ha permesso una cosa, che anche in questo momento, quasi inconsapevolmente, sto facendo: mostrarmi, espormi, raccontarmi, compromettermi, buttarmi nella mischia. L'ho fatto spesso anche a voce, ma il timbro ed il tono, l'umore ed il contesto spesso amplificano o limitano certe espressioni.
Nella scrittura questo non succede: si può scrivere su un foglio bianco come su un foglio giallo, a righe o a quadretti, su un rotolo vuoto di carta igienica o sul corpo di una persona con un inchiostro immaginario. Quel che si scrive non si compromette, non subisce influenze esterne, non ha un tono o un timbro che possono renderlo più o meno piacevole. E' così, è un codice, è quasi matematico. Se tre lettere una in fila all'altra significano un determinato oggetto o concetto, sempre significheranno ciò.
Da qui non si scappa. Ed è per questo che adoro la scrittura e mi ci perdo ogni volta, drogandomene finché ce n'è. E' senza fronzoli, diretta, quasi violenta. Ma ti apre mondi che nessun'altra forma di espressione può spalancare.
Citai Cirano qualche giorno fa, e credo che ci stia tutta, ora, per accompagnare queste mie parole. Un'ode alla scrittura più bella di questa canzone di Guccini credo non ci sia, almeno in campo musicale.
Stefano Tortelli
Nessun commento:
Posta un commento