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Guccini a Barolo, prima d firmare il suo ultimo libro ed il suo primo vinile ad un certo Stefano |
Sto guardando alla TV un documentario su Francesco Guccini. La musica, oltre a film particolarmente a me cari, è una delle pochissime cose che possa far sì ch'io decida di accenderla, o meglio ad andare sul sito della Rai.
Per Guccini tutto è tranne che un peccato dare uno strappo al mio ostracismo nei confronti della televisione, perché ne vale decisamente lo sforzo, ne vale decisamente la pena. Avevo già visto questo documentario, ma come certi film, come certi libri, come certe canzoni ogni volta che lo guardo da nuove sensazioni, nuove ispirazioni, nuove idee. E la consueta commozione.
In un'ora e mezza è stata ripercorsa la carriera di quello che per me è uno zio, di quelli che sotto banco ti passano un pezzo di pane in più, di quelli che la sera ti prendono con sé ed in barba al coprifuoco ti tiene sveglio a raccontarti le sue storie, le mille avventure della sua gioventù, ma anche mondi lontani, eventi distanti, emozioni ancora da provare.
Ed ascoltando questo zio ti ritrovi a materializzare nel cervello ciò che racconta: vedi il mondo post atomico in cui il Vecchio racconta al Bambino quello che è il nostro, di mondo, sempre più minacciato dagli abusi sull'ambiente; vedi il giovane e bel macchinista ferroviere lanciare la sua locomotiva contro l'ingiustizia ed il potere, in nome della giustizia proletaria; vedi la casa di quella amata donna lontana dove puoi respirare l'odore della salvia e del rosmarino, dove puoi parlare con i suoi amici come se amici foste sempre stati.
Lui, lui più di tutti sa fare ciò. Non De André, non Bertoli, non Finardi. Nessuno. Ed è forse anche per questo che cantarlo, dare la giusta interpretazione, far dire a qualcuno: "Cavoli, stai cantando come se l'avessi scritta tu", è quasi impossibile.
Per cantare Guccini bisogna vivere come Guccini, pensare come Guccini, guardare, sentire, respirare come Guccini. Non c'è storia, e credo che io stesso facilmente mi rifiuterò di cantarlo in futuro su un palco, a meno che non mi senta anche io in quei panni che lui è solito portare.
Il documentario ora è finito, ma mentre si stava raccontando, e stavano raccontandolo, ho messo giù un po' di righe riguardanti in primis le sue canzoni, ma anche tutte quelle che appena le sento rievocano, ricreano, ripercorrono. Rivivono.
Perché le canzoni hanno questo strano potere di far coesistere in circa quattro minuti tutto il passato, il presente e sprazzi di futuro.
E come le canzoni null'altro c'è.
Le canzoni sono come fotografie,
a volte di un proprio vissuto, a volte di realtà astratte.
Le canzoni sono come aprire una finestra su un mondo nuovo,
o sul proprio passato, sul passato dell'uomo.
Vedi te da piccolo, vedi il tuo mondo, vedi i grandi uomini che, come te, hanno camminato su questo pianeta.
Le canzoni sono come un viaggio,
nelle terre di ieri e nei mondi lontani, nella propria patria e tra le proprie radici.
Ed accarezzi le bandiere di Stati a te estranei,
assapori frutti esotici, solchi mari lontani, baci donne mai conosciute.
Le canzoni sono come un sogno,
cullato dal troppo alcool o scaldato dall'amore, o infine travagliato come la realtà.
E tutto convive in questi sogni,
chi c'era, chi c'è, chi ci sarà. La vecchia casa, quella nuova, quella di un domani.
Le canzoni sono delle ispirazioni,
fanno guardare oltre, fanno sentire il nuovo, fanno provare emozioni finora lontane.
Sono esplorazioni, sono proiezioni.
sono un vestito, sono un arredo, sono un mezzo di trasporto, sono un cibo prelibato.
Le canzoni sono la vita,
la nostra, quella dell'autore, quella del soggetto del testo.
Le canzoni sono ogni giorno, le canzoni sono lo ieri, l'oggi, il domani.
Le canzoni sono canzoni.
Le canzoni sono tutto, ma nulla è una canzone.
Grazie Francesco, grazie davvero. Te l'ho detto cinque mesi fa ed ora te lo ripeto. Un giorno valicherò l'Appennino che divide la mia Garfagnana dalla tua Emilia, e verrò a trovarti. E se lì non ti troverò, farò un salto in Via Paolo Fabbri 43...
Stefano Tortelli
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